lunedì 30 aprile 2007

patate e carciofi

Imprecavo:
"La mia vita è una patata bollente. Se volete potete lasciarla cadere, ma, perdio, non ho voglia di incartarla per voi".

Ancora impreco: "La mia vita è un carciofo violetto. Non lascerò che mi strappiate via tutte le mie foglie aguzze per masticarvi la mia parte più tenera".


Dorare rapidamente in poco olio uno spiccho d'aglio privato dell'anima, gettarvi spicchi sottili di carciofi ben puliti e dopo pochi minuti dadini di patate. Salare e pepare. Abbassare la fiamma e lasciar cuocere a fuoco lento finché la patata comincia a cedere un po' della sua polpa. Rimescolerete spesso per evitare che la patata si attacchi al tegame. Attenzione che non si disfi, divenendo poltiglia! La cottura sarà raggiunta in pochi minuti.
E' fondamentale indovinare il giusto rapporto patate /carciofi. Il che significa: un po' più di patate ma abbondanti carciofi ad arricchirle. Lo so è vago, ma è la vita che è vaga.....

chi è julie?

Lo scrittore francese Vercors (1902-1991) descrivendo la sua vita di vecchio, raccontava che, per superare l'irritazione provocatagli dalle amnesie che insidiavano la sua mente brillante, ricorreva al rimedio del suo vecchio amico Istvan Orkeny (il grande drammaturgo ungherese).
Spiegava come: -Penso:"Chi è Julie?" e mi calmo subito.-
Julie è una vecchia signora a cui le sorelle, ancor più vecchie, vanno a far visita. Per paura di dimenticarsene, si sforza a tal punto di ripetersi in continuazione: "Servire il caffè...servire il caffè,,,", che dopo averlo servito, se ne dimentica e lo serve di nuovo. Quando le due vecchie signore lasciano la sorella, la più giovane dice:"Comunque, questa Julie avrebbe almeno potuto offrirci un caffè" e la più vecchia:"E chi è Julie?".

Poichè in famiglia siamo tre sorelle, io tengo buono per me il metodo, che ormai chiamo Orkeny-Vercors.

Voglio approfittare dell'occasione per ricordare di Orkeny il libro Novelle in un minuto (E/O editore), dove il comico e il grottesco esplodono fulminanti.
Le novelle non vanno prese sottogamba, per almeno una ragione. Orkeny stesso la ricorda nelle istruzioni per l'uso che premette alla sua opera: "Le novelle qui allegate, nonostante la loro brevità, sono degli scritti di valore. Esse offrono il vantaggio di far risparmiare tempo alla gente, perché non pretendono un'attenzione che si prolunghi per settimane e mesi".

Di questa loro caratteristica posso approfittare per trascriverne almeno tre, sottraendomi così al dilemma di una scelta più ridotta che potrebbe anche uccidermi.

Sulle mie condizioni di salute.
-Buon giorno.
-Buon giorno.
-Come sta?
-Bene, grazie.
-E la salute come va?
-Non ho motivo di lamentarmi.
-Ma perché si trascina dietro quella corda?
-Corda?-chiesi, guardandomi alle spalle.-Quelli sono i miei intestini.


I nostri figli
C'era una volta una povera vedova e questa vedova aveva due bei figli maschi. Uno, il maggiore, si arruolò su una nave e il primo viaggio lo portò sull'Oceano Pacifico. Che cosa sia successo di lui nessuno può saperlo, perché non ne è rimasta alcuna traccia sui mari.
Il più giovane rimase a casa. Ma una volta, quando la madre lo mandò a comperare del vermifugo (in farmacia, sette isolati più in là) non fece ritorno a casa. Anche di lui si è perduta definitivamente ogni traccia.
Questa è la realtà dei fatti. Nelle fiabe invece le vedove hanno generalmente tre figli. Ed è sempre il terzo che fa fortuna.


Informazioni
Da quattordici anni siede nell'androne, dietro ad un piccolo sportello scorrevole. Gli chiedono sempre due cose soltanto.
-Dove sono gli uffici della Montex?
Lui risponde:
-Primo piano a sinistra.
La seconda domanda è:
-Dove si trova la Lavorazione Scarti di Gomma?
Al che lui risponde:
-Secondo piano, seconda porta a destra.
In quattordici anni non si è mai sbagliato, tutti hanno avuto l'informazione esatta. Solo una volta è successo che a una signora, che si era fermata al suo sportello e gli aveva fatto una delle solite domande:
-Per favore, dov'è la Montex?-lui, una volta tanto, fissando il vuoto dicesse:
-Veniamo tutti dal nulla e al fetido nulla torneremo tutti.
La signora sporse reclamo. Il reclamo fu preso in esame, se ne discusse e poi la cosa fu lasciata cadere.
Effettivamente non era un caso tanto grave.

Una quarta novella posso solo descriverla.
Si intitola "Pagina vuota" ed effettivamente è costituita da una pagina vuota. In fondo un piccolo asterisco recita:
*Questa "pagina vuota" parla di cose che non esistono, oppure di cose che esistono, ma sulle quali l'autore non ha niente da dire.

domenica 29 aprile 2007

insonnia

When night is almost done
and sunrise grows so near
that we can touch the spaces,
it's time to smooth the air

and get the dimples ready,
and wonder we could care
for that old faded midnight
that frightened but an hour.
(Emily Dickinson)

Quando la notte è quasi finita
e l'alba così vicina
che possiamo toccarne gli spazi,
è tempo di ravviarsi i capelli

e preparare le fossette del riso,
e stupirsi per aver dato peso
a quella vecchia mezzanotte svanita
che solo un'ora ci spaventò.


Possiamo mangiare un panino, possiamo scrivere una lettera, possiamo camminare nel buio, possiamo riordinare un armadio, possiamo lucidare gli argenti, possiamo preparare una crostata, possiamo foderare dei libri, possiamo pensare ad un'isola, possiamo parlare a una gatta, possiamo tradurre dal latino, possiamo riordinare le foto, possiamo guardarci allo specchio, possiamo potare una pianta, possiamo leggere un libro, possiamo guastare un maglione, possiamo inventare filastrocche, possiamo sfogliare il giornale, possiamo risolvere rebus, possiamo programmare il mattino, possiamo laccarci le unghie, possiamo impilare asciugamani, possiamo temperare matite, possiamo ......

si accettano suggerimenti(solo attività, non farmaci, grazie)

omaggio al dottor J

Margherita Guidacci dedica questa poesia "al dottor y"
io mi sono solo permessa di sostituire la y con una j.

Sei all'oscuro di tutto come noi.
Tu non puoi ricomporre un disegno spezzato,
rendere a un fiore il suo stelo,
ad una vela la sua barca.

Questi cocci che furono anime
non ti dicono i loro segreti.
Ma sui sentieri ingombri di macerie
tu cammini umilmente

e raccogli ed attendi
senza imporre nessuna conclusione,
dove altri userebbero solo la presunzione
e una scopa antisettica!

tennis fine

Al tennis si gioca con una racchetta. Una racchetta è tutto quello che i giocatori hanno. Scendono in campo impugnando la loro racchetta e il gioco ha inizio. La racchetta è importante. 
I giocatori ne portano due, tre, anche quattro con sé. Sono avvolte nel cellophane, lustre, brillanti e meritevoli di ogni cura. Il giocatore e la sua racchetta sono in continuo dialogo. Il giocatore la sbatte in terra, se la dà sui piedi, la lancia in alto e non si sa mai se la riprenderà o se la lascerà cadere per punizione. La racchetta infatti è sempre colpevole. Il giocatore talvolta la guarda perplesso: cosa fa questa racchetta dei miei tiri? Li devia? Mi si ribella? Talvolta, ma raramente il giocatore la bacia, riconoscendo che lo ha servito bene, ma più spesso, con una piccola corsa improvvisa, la getta nel suo angolo e ne cerca affannosamente un’altra per sostituirla. La prova con brevi colpetti del palmo della mano, ne misura la tensione. Ne scarta una, due, prima di trovare quella che va bene per quel particolare momento dell’incontro. Giocatori particolarmente precisi, maniacalmente la cambiano quando in campo si cambia la palla, sfibrata nel susseguirsi dei giochi. 
I giocatori sembrano credere che la racchetta da sola possa fare il gioco, dimentichi che sono loro ad impugnarla, a dirigerla, a comandarla. Ma l’alibi racchetta funziona. Ma che racchetta mi ha dato la vita? Perchè non mi riesce un colpo?





Il campo di gioco, sempre uguale nelle dimensioni e nella geometria può variare nel suo fondo. Il giocatore non può scegliere su quale fondo giocare. Ogni torneo ha il suo e il giocatore si deve adattare.Se la terra è rossa il giocatore sa che dovrà correre molto, molto sudare, avere molta pazienza e molta resistenza. Ma se il fondo è di un impasto verde o azzurro di cemento, il giocatore sa che deve essere molto rapido, che il tempo per scegliere il colpo si riduce pericolosamente. Alcuni giocatori lo preferiscono. Puntano tutto sulla loro prontezza, si gettano nell’attacco veloce, tentano il colpo risolutivo. 
Anche alcuni di noi lo preferiscono. Non sempre abbiamo voglia di tessere tele e faticosamente portarle a compimento. 
Altri di noi invece preferiscono vedere il proprio avversario correre e sudare, mentre loro stessi corrono e sudano, perchè il punto vinto in questo modo sembra pesare di più sulle spalle dell’avversario e il piacere della vittoria così rinviato, diviene più intenso.
Talvolta, ma raramente, il campo è di erba verde. Allora il gioco cambia del tutto. A questo gioco non tutti sanno giocare.
Ci sono giocatori che evitano quell’erba verde. Altri più audaci o sconsiderati pur sapendo di non essere fatti per quel piccolo scivoloso gioiello, ci si buttano dentro perchè la sfida, la temerarietà li tenta come un amore.
Quando inizia il torneo l’erba è intatta, verde, brillante, fresca. I giocatori scivolano, si rialzano e ripartono e l’erba si consuma, il manto si assottiglia. I bei gonnellini bianche delle ragazze si sporcano di verde. Intanto la stagione avanza e il caldo si fa sentire. L’erba pian piano si secca e sul prato verde si formano macchie sempre più ampie di giallo e marrone e la terra, nuda, arsa, farinosa appare. Il prato verde era un’illusione. Le ultime partite si giocano con più lentezza, con meno brio, i colpi si fanno più crudeli ma meno fantasiosi. La terra torna a comandare. 




Ognuno scende in campo con il proprio corredo personale. Cerca di premunirsi contro tutti i possibili imprevisti. Si equipaggia al meglio. Qualcosa per la sete, qualcosa per il calo di zuccheri, qualcosa per la fame. Tutti noi tentiamo sempre di premunirci, ci equipaggiamo, tentiamo di presentarci alla nostra partita con il massimo di presìdi. Ma il caso spesso ci inganna. Un giocatore si sente bruciare gli occhi ma il collirio sotto mano non c’è. Una giocatrice infastidita dal polline inizia a lacrimare. Si soffia più volte il naso, ma i fazzolettini non bastano.I giocatori si guardano intorno irritati. Il piano perfetto, la perfetta organizzazione dunque è fallace? 



I giocatori portano con sè anche diverse magliette. Un sospiro passa tra il pubblico femminile quando il giocatore si toglie quella sudata per indossarne una fresca. Il giocatore non indugia, il fascino dell’operazione risiede nella sua velocità, nell’apparire e sparire del bel torace nudo, con i suoi muscoli appropriati ben visibili. In quei brevi momenti la sua gioventù e la sua bellezza illudono tutti gli spettatori. 
Le ragazze invece non si spogliano in campo. E’ severamente vietato. Si suppone che sia maggiore il potere del corpo femminile di scatenare desiderio nel pubblico, che sia addirittura irrisistibile. Se una giocatrice rapidamente si togliesse la maglietta restando con il suo reggiseno a fascia, così costrittivo sui giovani seni, scoppierebbero tafferugli, si assisterebbe a scene di disgustosa lussuria.
Così le ragazze restano in campo nelle loro magliette intrise di sudore, sempre più appiccicate al corpo, che diventano quasi trasparenti con un incredibile effetto nudo. Ma i tafferugli sono evitati. Oppure le ragazze lasciano il campo stillando sudore e dopo brevi momenti rientrano fresche e si suppone profumate, così fresche, così profumate, così pulite, così innocenti......
La vera discriminazione naturalmente è nei confronti del pubblico maschile, cui è negato quel piccolo brivido di piacere che invece le signore si godono fino in fondo, al cambio di maglietta dei giocatori. 




La partita finisce. C’è un vincitore. C’è un vinto. I giocatori si avvicinano alla rete e al di sopra si stringono la mano. Talvolta il perdente riesce a sorridere. Se sono due donne spesso si baciano. Il conflitto è stato aspro, la durezza della battaglia le ha spaventate, sentono il bisogno di rassicurarsi a vicenda: non è successo niente, tu hai vinto ma io ti perdono, tu hai perso ma io quasi non volevo. Non siamo veramente nemiche e neppure crudeli. 
Gli uomini vittoriosi danno pacche di incoraggiamento al perdente, c’è orgoglio e insieme cameratesco riconoscimento. Sì ho vinto, bhe era naturale che andasse così. Sì ho perso ma ci rincontreremo.Il vincitore con gli occhi è già al pubblico che in piedi applaude. Il vinto si lascia cadere sulla sua sedia. Tenta di riordinare le idee mentre la telecamera gli fruga l’anima. Talvolta la ragazza che ha perso piange, le braccia abbandonate lungo i fianchi, lo sguardo perso nel vuoto. 
Talvolta nasconde la testa nell’asciugamano di spugna. Nasconde il suo dolore e la sua vergogna.
Più spesso è la vincente che, svuotata di ogni energia, si abbandona sulla sedia, la racchetta ai suoi piedi e con gli occhi guarda senza vederlo il pubblico, il campo, il cielo...
I giocatori dovrebbero uscire insieme dal campo come insieme sono entrati, ma capita che chi ha perso, indispettito o umiliato, non sopporti l’attesa dei tempi di riordino del vincitore e abbandoni il campo alla svelta. Oppure capita che la vincente si lasci rapire dai giornalisti, si dimentichi dell ‘avversaria sconfitta e la lasci lì sola sul campo.
Anche gli uomini piangono, ma solo quando hanno vinto. Perchè la forza che l’uomo ha espresso con la vittoria può essere ingentilita dal breve pianto, ma la sconfitta che lo ha umiliato deve essere affrontata virilmente, con una faccia fiera e possibilmente concentrata. 





La vittoria non è mai certa. Può sembrare vicinissima, praticamente già saldamente in pugno di uno dei giocatori, eppure sfuggirgli all’ultimo momento. 
Spesso la partita sembra terminata, vittoria e sconfitta già assegnate, quando un colpo, uno solo, rimette tutto in forse. E la partita già finita ricomincia. 
Quante volte nella vita ci sembra di aver raggiunto il porto, di poter rimettere i remi in barca e poi un vento improvviso ci risospinge al largo, ci allontana dalla riva..
Anche il giocatore che aveva quasi vinto sente il vento cambiare, rabbrividisce di apprensione, si dà colpetti nervosi di incoraggiamento alle gambe, saltella, richiamandosi ad una vivacità che già credeva di potersi risparmiare. E intanto scuote la testa, tentando di scacciare il fantasma di quella vittoria quasi afferrata e ormai lontana. Spesso smette di crederci, si lascia battere stancamente, vuole solo allontanarsi. E l’altro, già rassegnato alla sconfitta, improvvisamente sente le energie tornargli, fa segno di sì con la testa, sì è così che deve andare, sì adesso sarà tutta un’altra partita, sarà la sua partita....


Quando la convinzione dei giocatori vacilla il pubblico, per amore del suo campione, che non esclude una entusiasta mancanza di pietà, lo incita ancora, lo esorta in ogni modo, lo incalza con frasi di incoraggiamento che lo logorano ancora di più. Si intuisce che il giocatore vorrebbe fuggire, che scaglierebbe volentieri la racchetta tra il pubblico e lascerebbe il campo. E invece deve ringraziare e rassicurare i suoi sostenitori. Sì, ce la metterò tutta, no, non mi arrenderò.
Raramente si ribella al massacro che i suoi fans vogliono fare di lui, ma quando lo fa momenti di irresistibile comicità si vivono sul campo. 
In un incontro spettacolarmente faticoso e lungo oltre ogni limite, ormai ombre lunghe sul campo e il giudice stravaccato sulla sua sedia, dal pubblico arrivò il grido di un sostenitore. “Credici!” e l’ineffabile giocatore, un francese famoso per la sua indomabile resistenza ma anche per il suo caratterre vivace, di rimando: "io ci credo, tu vieni a giocarla".



Quanti sono ad incoraggiarci nella nostra partita! Devi avere fiducia, puoi farcela! sei forte, battiti ancora, non arrenderti! Devi credere in te! 
Vien voglia di rispondere come quel giocatore: d’accordo, io crederò in me, ma tu battiti al posto mio.

Antonio Gramsci : 27 aprile 1937

Morto da settant'anni Antonio Gramsci ha ancora qualcosa da dirci, anche se nel nostro paese di lui ci si ricorda solo negli anniversari. In quello della sua morte voglio proporre una sua lezione:

..Bisogna disabituarsi e smettere di concepire la cultura come sapere enciclopedico....La cultura è una cosa ben diversa. E' organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri....

e anche un avviso a tutte le nostre "ghiande":

..Ogni ghianda può pensare di diventare quercia. Se le ghiande avessero una ideologia, questa sarebbe appunto di sentirsi "gravide" di querce.
Ma, nella realtà, il 999 per mille delle ghiande servono di pasto ai maiali e, al più, contribuiscono a crear salsicciotti e mortadella....


tennis due

Nel tennis c’è una strategia. La partita si prepara. Si studia l’avversario del momento e si decide l’impostazione del gioco.
Questo lo faccio correre, ha poco fiato, ha preso peso, ha fatto troppi tornei..
A questo la palla gliela mando destra-sinistra-destra, la corsa laterale, con veloci cambiamenti di direzione, lo destabilizza.
Quest’altro è potente ma poco pronto. Lo prenderò di sorpresa. Fingo un diritto e lo chiamo a rete con una corta volée, perché correre in avanti lo tramortisca..
Questo si fa distrarre, deconcentrare. E non è abbastanza cattivo. M’invento un malanno. Chiedo di essere medicato. Prendo tempo. Lui intanto non sa cosa fare. Cerca di mantenersi attento ma piano piano si allontana dal cuore della partita. Io torno in campo saltellante. E’ fatta. Credermi infortunato lo ha perduto.
Oggi invece mi sento leggero eppure fermo e il mio sguardo è acuto e preciso. Tento il lob e la palla si inarca alta verso il cielo e il mio avversario la vede passare sopra la sua testa, abbozza appena un gesto ma capisce che non potrà mai raggiungerla e allora si ferma rassegnato o fremente di rabbia..
E la palla perfetta, tesa e morbida insieme, precisa, esatta al millimetro, elegante e strafottente, dopo il suo arco perfetto ricade morbidamente, appena prima della riga bianca...
Anche a noi succede talvolta il miracolo di un lob perfetto, elegantemente lasciamo fermo il nostro contendente, senza sforzo, per un attimo voliamo più in alto di lui...


Sul campo c’è sudore e fatica. Paura, ansia, incertezza. Ogni tanto si sputa in terra perché l’ansia fa salivare o si beve, perché la stessa ansia secca la gola..
Tra avversari ci si insulta, o si fingono gesti cavallereschi. Ma quando ci si passa accanto al cambio di campo non ci si guarda neppure. Non è quello che facciamo sempre? Ognuno di noi passa accanto all’altro senza guardarlo, pensando solo alla prossima mossa. Ci rifiutiamo di guardarlo per tema di dover riconoscere che è come noi, incerto, timoroso, stanco.

C’è un pubblico che guarda la partita e appassionatamente tifa per l’uno o l’altro giocatore. Il pubblico è crudele. E noi che giochiamo la nostra partita sappiamo che il pubblico ci guarda, come i giocatori sanno che quel pubblico che li guarda, ne vuole uno umiliato. E grida e si agita e ci esorta e talvolta ci insulta. Dobbiamo vincere, non importa se siamo stanchi e se il nostro avversario ne ha più di noi. Dobbiamo vincere.
Quando vorremmo darci per vinti, ci arriva ancora l’ultimo grido del nostro appassionato sostenitore e comprendiamo che finché non saremo stati umiliati del tutto, dovremo continuare a giocare.


Non è possibile giocare la nostra partita tranquilli, in una zona d’ombra del campo. Non ci sono zone d’ombra sul campo. Quando verso il tramonto le ombre cominciano ad allungarsi su una parte del terreno di gioco, ogni giocatore sa che al cambio di campo dovrà tornare dalla parte assolata. E quando quell’ombra invece di recare sollievo mette in difficoltà, fa strani giochi, crea false distanze, nasconde per brevi istanti la palla, in quell’ombra brevemente evitata, il giocatore sa che dovrà tra poco rientrare.


Ci si mette una tenuta per giocare. Qualche giocatore cerca la più accattivante, la più originale, la più elettrizzante per il pubblico, inventa piccoli particolari personali, tenta di distinguersi. Un braghettone largo e lungo, un vestitino come una pelle luccicante, un piccolo congegno per accogliere la palla di riserva, il gonnellino leopardato, un buffo berretto con una strana visiera posteriore...Qualche giocatore cerca solo la tenuta più comoda e confacente, ma se non è davvero un fuoriclasse, presto nessuno si ricorderà di lui.
Continua......

maternità

Processata una seconda volta, la madre accusata di aver ucciso il suo bimbo Samuele, è stata nuovamente condannata.
Noi madri ci siamo divise.
Nel sangue di molte di noi brucia una fiamma di odio e rancore, di insopportabile voglia di vendetta per il nostro bambino Samuele. Quella madre l'abbiamo condannata da subito e nessuno ci toglierà la nostra certezza.
Ma nel cuore di molte di noi uno sgomento fiducioso palpita testardamente per il dolore di quella madre cui è stato strappato il nostro bambino Samuele. L'abbiamo detta innocente da subito e nessuno ci toglierà la nostra certezza.
Tutte però avvertiamo un brivido di terrore.
Tutte, colpevoliste e innocentiste, sappiamo di quella madre qualcosa che non diciamo, che nessuno dice, perché un tabù troppo potente e troppo definitivo incombe sulla nostra maternità.
Perdutamente innamorate delle nostre creature, visceralmente unite alla loro piccola vita, nutrendocene mentre la nutriamo, tutte, ma proprio tutte in un momento almeno l'abbiamo sentita pesare su di noi, brutale, violenta, vorace.
Una vita che prende la nostra e ce la strappa con la forza della sua debolezza. E siamo sole.
La natura ci affida il compito di dare la vita e quello di allevarla. Ma la società umana, che scrive la parola Madre con la maiuscola, ci lascia sole da subito e per sempre. E per un momento, anche per un solo momento, noi ci sentiamo smarrite e ingannate e persino violentate dalla natura e dalla società umana.
Un'ombra trema sul destino di una madre, nel suo sorriso appare talvolta una nota incerta.
La società deve imparare a leggere l'incertezza di quel sorriso, perché anche se quella madre non ha ucciso il nostro Samuele, noi sappiamo che in uno di quei momenti che il tabù vieta di nominare, quella madre avrebbe potuto ucciderlo.

sabato 28 aprile 2007

tennis/uno

C’è stato un periodo in cui sostituivo la vita con il tennis. Per ore ed ore di giorni e giorni, per mesi e mesi di anni ed anni, solo osservando sullo schermo una partita di tennis dopo l’altra, sentivo in me un piccolo accenno di vitalità e nello stesso tempo la calma che solo una rappresentazione perfetta della realtà ci dà.
Per ogni sport troverete qualcuno pronto a giurare che è come la vita. Bhe, io sono di quelli che giurano sul tennis.
E posso dimostrarlo.

Il campo. Le sue misure precise, fisse, segnate da righe continuamente ritracciate.
Anche la vita è così. Si gioca tutta su un campo che non possiamo modificare. Non ampliarlo, dandoci più spazio, né ridurlo, rendendolo meno vertiginoso. E i confini, come le righe, se tentiamo di cancellarli, subito vengono ristabiliti.
E’ bene che i limiti ci siano, è bene che la vita si muova tra pochi, chiari, noti confini: c’è un tempo per apprendere, un tempo per sognare, un tempo per amare e per dare la vita, c’è un tempo per riflettere e riposare, c’è un tempo per invecchiare, e c’è la linea di out....

E c’è una rete. E’ verde, morbida ma ferma. Divide il noi dagli altri. Sta lì e ci insegna che non ci sarà mai nessun altro con cui potremo confonderci, che nessuna unità mai sarà totale e possibile. L’unità è durata pochi mesi, i pochi del misterioso processo della nostra formazione, poi ci hanno chiamati in campo. E da allora, sulla sua parte di campo, ognuno di noi è solo, e deve giocare la sua partita.

C’è un giudice di sedia ed è seduto in alto. Non sempre siamo proprio sicuri che ci sia. Infatti il giudice di sedia dovrebbe essere giusto, equanime, imparziale. Ma non lo è: sbaglia, si corregge, finge di non vedere, talvolta davvero è cieco. E allora i giocatori si impuntano, lo chiamano giù, venga a vedere perbacco, venga...
Di fronte al giudice di sedia i giocatori hanno comportamenti diversi. Alcuni lo ricoprono di contumelie, altri gli si ribellano, molti piegano la testa anche di fronte alla ingiustizia più smaccata. Alcuni si arbitrano da soli.

C’è una palla. Più pesante, meno pesante, più lenta, più veloce.
Continuamente ce la tirano contro. Noi la respingiamo, facciamo corse pazzesche per prenderla e rimandarla dall’altra parte, ma la palla ci torna indietro, ci torna sempre indietro..
E’ vero che ogni tanto riusciamo ad assestarle un colpo così forte o così veloce o così preciso che la palla non ritorna e noi tiriamo il fiato. Ma per qualcun altro, di là dalla rete, la palla invece è ritornata.

C’è il punteggio. Il punteggio è complicato, forse astruso, ma i giocatori lo conoscono perfettamente. E con quel punteggio imparano a misurarsi.
Sei a zero. E’ la vergogna. Non succede tutti i giorni ma può succedere e basta questo per rendere il gioco pericoloso e crudele. Proprio come la vita. Anche la vita può rifilarci un sei a zero.

Continua.....

venerdì 27 aprile 2007

Ah ah

E’ stato Dioniso che ha concesso agli uomini la prerogativa degli dei: la capacità di gioire, ridere e far festa.
Ma il Dio che ci ha donato il riso è nato dalla violenza e dal travaglio. Quale che sia il mito di origine di Dioniso che preferiamo accogliere, esso contempla un corpo dilaniato e smembrato da cui il cuore è estratto a forza. La lezione che sembra potersi trarre è che il riso, l’allegria, la festa si pagano, e addirittura in anticipo.
E’ da qui che è venuta la cattiva fama che il riso ha avuto per secoli.
Ma è sempre da qui che viene la spiegazione più semplice del valore del riso. Il riso dà sollievo dalle atrocità del mondo, nasconde per pochi attimi al nostro sguardo l’orrore che potrebbe consumarci.
E’ a tal punto vero che abbiamo ormai una considerevole mole di prove a favore delle proprietà analgesiche del ridere. E persino i meccanismi biologici attraverso cui ciò accade, cominciano a chiarirsi. Potrebbe essere una vasocostrizione a ridurre il flusso del sangue alla pelle diminuendo conseguentemente la sensibilità dei recettori cutanei, o il rilassamento muscolare provocato dalle risate, o la spiccata e particolarissima attività elettrica nel cervello in concomitanza con il coinvolgimento in una risata: l’effetto è comunque analgesico.
Da anni inoltre si indaga sugli effetti terapeutici dello humor nella psicoterapia, anche
se i pareri in proposito sono violentemente discordi.
Per quanto mi concerne io mi sento di dichiarare che una buona battuta di spirito, spezzando la rigidità formale del colloquio terapeuta-paziente, non solo apre la porta ad un momento di sollievo ma, come una sorta di insight, di improvvisa illuminazione, consente lampeggianti intuizioni che possono portare alla comprensione per una via meno dolorosa.

Shakespeare lo sapeva:

Datemi un abito da buffone,
tutto ciò che voglio è una giacca multicolore,
non c’è altro abito al mondo.
Datemi dunque il mio abito da buffone,
datemi il permesso di dire ciò che penso
e io purgherò da un capo all’altro
l’impuro corpo di questo infetto mondo.

Come lo sapeva Tommaso Moro



Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo.
Concedimi la grazia di comprendere uno scherzo,
affinché conosca nella vita un po’ di gioia e possa farne parte anche ad altri.


Meno autorevolmente aggiungo: se proprio dovete ammalarvi di depressione cercate di nascere a Roma:l'autoironia vi salverà.

romanità

Una mattina sulla linea 85. Spalla a spalla ci affolliamo, chiusi in reciproco sospetto e ostilità.
Inaspettatamente l'autobus si ferma. Esclamazioni, sbuffi di impazienza, poi di botto l'irritazione si sgonfia. Guarda ! E' Marc 'Aurelio!
L'imperatore discende lentamente la collina del Campidoglio. Benché imbracato e senza cavallo, conserva tutta la sua regalità. Il busto e la bella testa svettano.
Da domani i restauratori si prenderanno cura di lui, ora sfila tranquillo e solenne fra la sua gente.
Sull' autobus e fuori si è fatto silenzio. Un vigile come preso da imbarazzo, gli fa largo tra le macchine.
L'imperatore guarda lontano.
L'autista si riscuote: “A Marc' Aurè, ce fai passà?”, rivolgendosi all’ Imperatore con l'ironica strafottenza con cui da sempre i romani si rivolgono ai potenti.




sempre

Quando, sinceramente dubbiosa e perplessa, la signora confessò al Professore di non sapere se e quando avesse veramente il diritto di chiedere qualcosa per sé, il Professore, fulmineamente, rispose: "Sempre". E aggiunse: "Sta agli altri dirle di no, a lei sta chiedere". Punto.
Poco "senechiano"? Al contrario: conserviamo insieme la nostra e l'altrui libertà.

domenica 22 aprile 2007

XI Kalendas Aprilis MMDCCLX ab Urbe condita NP

Nel calendario romano dies feriae erano i giorni sacri agli Dei, quelli in cui era nefas, illecito, compiere qualunque atto politico-civile-giuridico. I Nefasti Puri erano i giorni più "feriati": strettamente riservati al culto, imponevano l' astensione totale dalle opere.
Ieri, undicesimo giorno delle Kalende di Aprile (21 di aprile nel calendario dell'era volgare), per i Romani e per tutti i popoli dell'Impero era il più "feriato" dei giorni: dies natalis di Roma.
Il mese e il giorno non furono scelti a caso.
Aprilis è il mese di Venere. Aprilis da "aperire", lo schiudersi, il germinare. Come a-perire, non morire, non morte.
Aprilis e Venus Genitrix, l'infinita e imperitura potenza genitrice di tutte le cose, madre del pius Aeneas e di tutta la stirpe italica che da lui proviene.
Ma Venere è fissata nel Mundus come Taurus.
Ecco, è per questo che l'undicesimo giorno delle Kalende di Aprile, quello in cui Sol entra in Taurus, è il giorno della nascita di Roma.
Da quel giorno 2760 anni sono trascorsi e benchè la città sia ormai priva del suo rango oltre che del suo impero, ancora nei cuori dei suoi cittadini, questo giorno resta Dies Nefastus Purus. Il giorno della Festa. Noi lo abbiamo rispettato.

venerdì 20 aprile 2007

Adesso Kurt è lassù in cielo

"I don't know about you, but I practice a disorganized religion. I belong to an unholy disorder. We call ourselves "Our Lady of Perpetual Astonishment"

La scorsa settimana è morto Kurt Vonnegut. Ho letto tutti i suoi libri e ne aspettavo sempre con impazienza uno nuovo. Ora il grande scrittore e l’intellettuale travolgente non c’è più, abbiamo perduto la sua voce critica e insieme il suo umorismo al vetriolo. Mai il pessimismo totale è stato così divertente. Ma il grande demistificatore di luoghi comuni e di idées reçues non si limitava a farci ridere, apparteneva alla famiglia dei grandi romanzieri moralisti e i suoi strampalati personaggi contenevano un tasso di verità da tanti altri scrittori mai sfiorata.
Ora che dai giornali sono scomparsi i paginoni in mortem, gli lascio la parola....


"Sapete che cos’è un umanista?
I miei genitori e i miei nonni erano umanisti, ossia quelli che un tempo venivano definiti Liberi Pensatori. Perciò, in quanto umanista, sto onorando i miei antenati, come la Bibbia sostiene che è giusto fare.
Noi umanisti cerchiamo di comportarci nella maniera più dignitosa, leale e onesta possibile senza aspettarci nessuna ricompensa o punizione in una vita dopo la morte.
Mio fratello e mia sorella non credevano nell’aldilà, così come non ci credevano i miei genitori e i miei nonni. Gli bastava sapere che erano vivi. Noi umanisti facciamo del nostro meglio per servire l’unico ente astratto che ci risulta davvero familiare, ossia la nostra comunità.
Io, fra parentesi, sono presidente onorario dell’Associazione Umanista Americana, essendo subentrato in questa carica completamente priva di funzione al defunto Isaac Asimov, il grande scrittore di fantascienza. Qualche anno fa’ abbiamo organizzato una cerimonia commemorativa per Isaac, io ho tenuto un breve discorso e a un certo punto ho detto: “Adesso Isaac è lassù in cielo”. Era la battuta più esilarante che potessi fare di fronte a una platea di umanisti. Li ho fatti rotolare fra le poltrone per le risate. Ci sono voluti parecchi minuti per riportarli all’ordine.E se mai dovessi morire anch’io- Dio non voglia –spero che voi direte: “Adesso Kurt è lassù in cielo. E’ la mia battuta preferita."


giovedì 19 aprile 2007

Libereso

Ieri la giornata è stata calda e soleggiata. Verso sera però tutto si è oscurato rapidamente e una vivace grandinata ha colpito la città.
Ne ho visti gli effetti questa mattina sul mio terrazzo. Foglie di olivo e limone sparse in terra, slabbrati i fiori delle calle, ma soprattutto, più grave di tutto, caduti i piccoli fiori della mia gloriosa avocado. L'avocado è una dama, l'ho imparato da Libereso Guglielmi, il giardiniere di Italo Calvino, come è universalmente conosciuto.
Qualche anno fa' improvvisamente la mia pianta di avocado, che ancora chiamavo al maschile, ha trasformato i suoi piccoli fiori bianchi in minuscole sfere di un verde fondo e lucido. Non credevo ai miei occhi. L'avocado era nato dal nòcciolo di un frutto che, seguendo le istruzioni di Ippolito Pizzetti, avevo semimmerso in un bicchiere. Attraverso crescite e trasformazioni era diventato un albero cui l'affetto per l'amico che me ne aveva fatto dono, nel frattempo scomparso, mi aveva fatto dedicare una cura ed un'attenzione paziente e mai stanca. Ora senza mai averlo sperato il mio albero fruttificava! Quel miracolo andava sostenuto. Mobilitai tutte le mie energie e cercai consigli e incoraggiamento in rete. Fui indirizzata a Libereso Guglielmi. E quel vecchio signore, il più grande esperto di avocado sulla faccia del pianeta, rispose, a mano, alla mia lettera, mi fu prodigo non solo di suggerimenti, spiegazioni, consigli, ma di ricordi personali e osservazioni sugli uomini e sulla vita. La lettera, nella sua elegante grafia di un altro tempo, era abbellita da magnifici disegni a pastello delle più diverse varietà di avocados. Avevo chiesto con fiducia, mi era stato dato con generosità. Grazie a Libereso, la mia pianta, che da allora porta il suo nome (vuol dire Libertà e il vecchio signore fu chiamato così da un padre sostenitore appassionato dell'esperanto), portò a maturazione 12 pere di squisito sapore ed ottima consistenza, che mi nutrirono di qualcosa di più delle loro preziose sostanze.
Da allora l'avocado ha fruttificato altre tre volte ma per me il miracolo resta un miracolo ed ogni anno a primavera scruto la mia Libereso con ansia a trepidazione e saluto ogni fiore con soddisfazione e tenerezza. Ora quasi tutti i piccoli fiori sono caduti, pochi resistono ancora. Ma io penso alla lezione di Libereso che mi ringraziò- Lui, me!-per la pazienza che avevo avuta nel curare quella pianta e testimoniò per me che si raccolgono frutti solo quando si dà e che dare è ancora il modo migliore per ricevere.
Per questo, passata la prima stretta di rammarico, ho riavviate un po' le chiome della mia avocado, l'ho nutrita ancora una volta di buon sano concime e le ho dato e mi sono data il tempo di una nuova attesa, di una nuova speranza.



martedì 17 aprile 2007

lusso poetico

Mai un giorno dovremmo lasciar passare senza aver letto una poesia. Questo è essenziale. La poesia ci necessita nella sua assoluta superfluità.
Come un breviario laico apri il tuo nuovo giorno leggendo a caso qualche verso. E non importa se sul momento ti sembrerà oscuro: sicuramente nel corso della giornata come una folgorazione il suo senso ti raggiungerà.

Questo mattino, dal mio breviario, le parole di Margherita Guidacci:

IN CORSA
In corsa - ancora e sempre in corsa.
Mi chiedi cosa inseguo. Come fai a non accorgerti
che non inseguo ma sono inseguita?
Nessuna mèta mi darebbe tanto affanno;
corro così per sfuggire a un nemico,
e inutilmente, perché già si confonde
il martellar del mio cuore col rimbombo dei suoi passi,
la sua ombra lambisce la mia ombra.
Come puoi parlarmi
di scopi, di ambizioni,
di lunghe strade diritte ed aperte?
La mia fu breve e curva,
compiuta sotto la minaccia-
e sono giunta al punto dove il cerchio si salda.

figlia di mezzo/uno/la collina etrusca

L'ospite cortese che da due anni consentiva al Comandante l'eterno riposo in una tomba in vista del mare, alla scomparsa del proprio genitore, domandò di tornare in possesso dei due metri di terra consacrata.
Poiché la somma per l'acquisto della nuova dimora del Comandante non era divisibile per tre, la figlia di mezzo propose alle due sorelle di arrotondare la propria cifra verso l'alto. Firmò un assegno per duemilionitrecentoquarantamila lire.
Un piccolo scarto, quelle diecimila lire in più, di amore, orgoglio, solitudine.

lunedì 16 aprile 2007

a proposito...

A proposito della malinconia. "L'esperienza malinconica ......è quella nella quale si fa più evidente la vertiginosa instabilità della condizione umana". Ce lo dice Eugenio Borgna in un libro bellissimo in cui si occupa della malinconia, sia quella clinica che quella semplicemente esistenziale. Il pregio maggiore del libro consiste nel fatto che la malinconia (la depressione) non viene descritta solamente come espressione patologica. Essa conserva sempre una sua dimensione psicologica e umana.
In un certo senso la persona depressa non viene chiusa tra le parentesi della sua patologia ma riaccolta nella grande famiglia umana, riaffratellata con tutti coloro che condividono la condizione così pesante del vivere come essere umano.

lunedì 9 aprile 2007

....then he gets you on his wavelenght



Una sera sulla lunghezza d'onda di Leonard Cohen. Quando la primavera ha passi lenti e leggeri e procede senza abbellimenti romantici, vestita solo della sua presenza. Lasciamo la porta socchiusa per chi vuole entrare e per chi vuole uscire.
Ricordi si affacciano con la stessa precisa esattezza di quando erano il presente. Nomi pronunciati con affetto che piace ridire ancora con lo stesso affetto. Non possediamo veramente il nostro passato. Non ci appartiene più di quanto ci appartenga il nostro futuro. Eppure ci fluttua accanto e intorno e ci piace lasciarcene illudere.
La tristezza non è la cifra di questa sera. Piuttosto: un' amichevole malinconia, con la quale possiamo sorridere, ci fa compagnia insieme alla musica.
Aprile non è un mese crudele.

domenica 8 aprile 2007

post numero uno

Avviso: questo non è il post numero uno, ma è come se lo fosse.

giovedì 06/09/07
Quando ho iniziato questo blog, nel marzo scorso (preceduto da così tante prove ed errori che avrebbero fatto la felicità di Galileo Galilei e del suo metodo), non sapevo bene quale fosse il mio scopo, e di conseguenza, quale sarebbe stata la natura del blog stesso.
Avevo poche idee, tutte confuse e, naturalmente, contraddittorie.
Cosicché sono partita, come mi succede spesso anche in altri ambiti della mia vita, seguendo l’emozione, il pensiero e la sensazione di un momento. Ho scritto così un post che, riletto oggi, mi sembra da folli. Non in sè, ma in quanto primo post di un blog. È una specie di partenza in quarta, saltando ogni antecedente, ogni preliminare, ogni antefatto. Dritti dentro un pensiero, senza sapere né come né perché.
È stato solo nel procedere, mentre andavo dietro, senza nessun piano e nessun ordine, alle mie fantasie, ai miei ricordi e ai miei pensieri, che ho cominciato a chiarire a me stessa, il senso di questo blog.
Il senso che ha per me naturalmente.
E che vorrei spiegare qui.

Questo comporta un piccolo affaccio sulla mia vita. Piccolo, prometto. Bambina non prodigio, ho imparato a scrivere a sei anni, come tutti ai miei tempi. Da subito questa operazione mi è parsa fantastica. La cosa più bella che mi fosse capitata dalla nascita in poi. Alle elementari la mia bulimìa di scrivere trovava sfogo nello svolgere due volte, in forma diversa, ogni tema che la maestra ci assegnava. O nel tenere un quaderno casalingo su cui segnavo piccoli, ingenui pensieri. Il quaderno è andato perduto. Molti temi, bi-svolti, li ho ancora, conservati da una madre così conservatrice che mi ha passato la follia selvaggia di conservare anche la piccola parte del cordone ombelicale di mia figlia. (Questo non ditelo a nessuno).
Comunque, una volta cominciato, non ho più smesso. Sono passata, classicamente, al diario personale. Accompagnato, dagli otto anni in poi, da piccoli racconti. E poi poesie e poi e poi...
Tutta la mia intera vita. Naturalmente, anche al più ottuso degli osservatori, appare evidente che tutto questo bisogno di scrivere è legato, a doppio filo, con un analogo bisogno di comunicare.
Per ragioni che qui non interessano, la scrittura però è sempre restata segreta. La storia delle pochissime persone (e pochissime circostanze), cui ho lasciato leggere le mie parole a qualcuno, non riempirebbe una pagina. Questo ha comportato per me un bel po’ di sofferenza.
Un giorno poi, ho avuto sessantatré anni. E ho preso atto che un cambiamento era necessario. Ho deciso che, poiché ero così fortunata da vivere in un’epoca che mi metteva a disposizione questo mezzo straordinario per far leggere le mie parole senza dovermi esporre personalmente, ne avrei approfittato.
Ecco, il mio blog è nato così. Risponde al mio bisogno di capovolgere un’abitudine di vita che disapprovo profondamente. Che non mi vede concorde, che mi fa dannare, che mi manda ai matti, che odio, detesto, disprezzo e spregio, che....
Basta, dovrebbe essere sufficiente a far capire quanto abbia pesato sulla mia vita questa segretezza su una pratica che è sempre stata al centro della mia esistenza.
È stato un primo passo. Il secondo passo è stato uscire dall’ombra relativa, mettendo una mia foto. Diciamo che la decisione di non metterla, all’inizio, era un’altra forma di segretezza. Abbandonata anche questa. Mi sento più leggera. Davvero.
In parallelo, altri passi ho compiuto. Piccoli, forse ridicoli. Non per me.
Io mi so. E sono molto, molto contenta di me.
Tanto che ho potuto scrivere questo post. Tanto che, benché arrivi dopo sei mesi dall’inizio della mia attività di blogger, lo metterò come primo post. Quello che era il primo, cui sono comunque grata, diventerà secondo. E così via...
C’est tout.