domenica 29 aprile 2007

maternità

Processata una seconda volta, la madre accusata di aver ucciso il suo bimbo Samuele, è stata nuovamente condannata.
Noi madri ci siamo divise.
Nel sangue di molte di noi brucia una fiamma di odio e rancore, di insopportabile voglia di vendetta per il nostro bambino Samuele. Quella madre l'abbiamo condannata da subito e nessuno ci toglierà la nostra certezza.
Ma nel cuore di molte di noi uno sgomento fiducioso palpita testardamente per il dolore di quella madre cui è stato strappato il nostro bambino Samuele. L'abbiamo detta innocente da subito e nessuno ci toglierà la nostra certezza.
Tutte però avvertiamo un brivido di terrore.
Tutte, colpevoliste e innocentiste, sappiamo di quella madre qualcosa che non diciamo, che nessuno dice, perché un tabù troppo potente e troppo definitivo incombe sulla nostra maternità.
Perdutamente innamorate delle nostre creature, visceralmente unite alla loro piccola vita, nutrendocene mentre la nutriamo, tutte, ma proprio tutte in un momento almeno l'abbiamo sentita pesare su di noi, brutale, violenta, vorace.
Una vita che prende la nostra e ce la strappa con la forza della sua debolezza. E siamo sole.
La natura ci affida il compito di dare la vita e quello di allevarla. Ma la società umana, che scrive la parola Madre con la maiuscola, ci lascia sole da subito e per sempre. E per un momento, anche per un solo momento, noi ci sentiamo smarrite e ingannate e persino violentate dalla natura e dalla società umana.
Un'ombra trema sul destino di una madre, nel suo sorriso appare talvolta una nota incerta.
La società deve imparare a leggere l'incertezza di quel sorriso, perché anche se quella madre non ha ucciso il nostro Samuele, noi sappiamo che in uno di quei momenti che il tabù vieta di nominare, quella madre avrebbe potuto ucciderlo.

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