giovedì 18 settembre 2008

remake/tennis/ uno

Ristabilitami, ho ripreso a girare per blog. E, gira che ti rigira, sono capitata sul blog di marckuck, dove ogni tanto mi soffermo e ho trovato un post dove il tennis viene definito "metafora della vita". Mi sono ricordata così di aver dedicato al tennis, come metafora della vita, tre post lo scorso anno, quando il mio blog era ai suoi primi giorni di vita e aveva solo lettori di famiglia.
Rilettili, li ho trovati simpatici e ho deciso di riproporli. Non per pigrizia (che pure, grazie a Dio, non mi manca), ma per sottoporli ad un giudizio più ampio.

Eccoli in fila.


C’è stato un periodo in cui sostituivo la vita con il tennis. Per ore ed ore di giorni e giorni, per mesi e mesi di anni ed anni, solo osservando sullo schermo una partita di tennis dopo l’altra, sentivo in me un piccolo accenno di vitalità e nello stesso tempo la calma che solo una rappresentazione perfetta della realtà ci dà.
Per ogni sport troverete qualcuno pronto a giurare che è come la vita. Bhe, io sono di quelli che giurano sul tennis.
E posso dimostrarlo.

Il campo. Le sue misure precise, fisse, segnate da righe continuamente ritracciate.
Anche la vita è così. Si gioca tutta su un campo che non possiamo modificare. Non ampliarlo, dandoci più spazio, né ridurlo, rendendolo meno vertiginoso. E i confini, come le righe, se tentiamo di cancellarli, subito vengono ristabiliti.
E’ bene che i limiti ci siano, è bene che la vita si muova tra pochi, chiari, noti confini: c’è un tempo per apprendere, un tempo per sognare, un tempo per amare e per dare la vita, c’è un tempo per riflettere e riposare, c’è un tempo per invecchiare, e c’è la linea di out....

E c’è una rete. E’ verde, morbida ma ferma. Divide il noi dagli altri. Sta lì e ci insegna che non ci sarà mai nessun altro con cui potremo confonderci, che nessuna unità mai sarà totale e possibile. L’unità è durata pochi mesi, i pochi del misterioso processo della nostra formazione, poi ci hanno chiamati in campo. E da allora, sulla sua parte di campo, ognuno di noi è solo, e deve giocare la sua partita.

C’è un giudice di sedia ed è seduto in alto. Non sempre siamo proprio sicuri che ci sia. Infatti il giudice di sedia dovrebbe essere giusto, equanime, imparziale. Ma non lo è: sbaglia, si corregge, finge di non vedere, talvolta davvero è cieco. E allora i giocatori si impuntano, lo chiamano giù, venga a vedere perbacco, venga...
Di fronte al giudice di sedia i giocatori hanno comportamenti diversi. Alcuni lo ricoprono di contumelie, altri gli si ribellano, molti piegano la testa anche di fronte alla ingiustizia più smaccata. Alcuni si arbitrano da soli.

C’è una palla. Più pesante, meno pesante, più lenta, più veloce.
Continuamente ce la tirano contro. Noi la respingiamo, facciamo corse pazzesche per prenderla e rimandarla dall’altra parte, ma la palla ci torna indietro, ci torna sempre indietro..
E’ vero che ogni tanto riusciamo ad assestarle un colpo così forte o così veloce o così preciso che la palla non ritorna e noi tiriamo il fiato. Ma per qualcun altro, di là dalla rete, la palla invece è ritornata.

C’è il punteggio. Il punteggio è complicato, forse astruso, ma i giocatori lo conoscono perfettamente. E con quel punteggio imparano a misurarsi.
Sei a zero. E’ la vergogna. Non succede tutti i giorni ma può succedere e basta questo per rendere il gioco pericoloso e crudele. Proprio come la vita. Anche la vita può rifilarci un sei a zero.

Continua.....

Nessun commento:

Posta un commento

Non c'è niente di più anonimo di un Anonimo