giovedì 31 maggio 2007

cronaca nera

Procuratevi uno di quegli uomini che picchiano le donne.
Stando alle statistiche non vi sarà difficile.
Lasciate pure la carcassa al vostro fornitore. Ridotta in polvere verrà utilizzata per il pastone dei maiali negli allevamenti del mantovano.
Fatevi invece consegnare le frattaglie.
Lasciatele per un giorno sotto il getto dell’acqua.
Procuratevi un wok, di cui ungerete delicatamente le pareti con olio vergine di oliva.
Versatevi un trito di cipolla, carota, sedano ed uno spicchio di aglio.
Saltate rapidamente il tutto, rimescolando. Togliete quindi lo spicchio di aglio.
Aggiungete le interiora che avrete fatto a piccoli dadini sul vostro tagliere.
Salate, pepate e aggiungete abbondante timo e un decilitro appena di Marsala secco. Maschererà il sapore un po’ ferino delle interiora.
Lasciate cuocere una decina di minuti non di più.
Mettete le frattaglie a riposare in una terrina.
Quando saranno tiepide servitele al vostro gatto.
Potrebbe rifiutarle.
In questo caso buttate il tutto nella pattumiera.
Sentitevi tranquille: non è colpa vostra se pur ben cucinate le interiora di un uomo che picchia le donne restano disgustose.

Ah! Fate una pulizia accurata della vostra cucina prima di farvi una bella doccia.

plenilunio

31 maggio/primo di giugno

Tutta la notte non potei dormire
per il chiaro di luna sul mio letto
Udivo sempre una voce chiamare
Dal Nulla il Nulla rispondeva: sì.

Canzone "tzu-yeh"
(età di transizione 220/618d.c.)

mercoledì 30 maggio 2007

breviario laico

L'impossibile

Non obbedire a chi ti dice
di rinunziare all'impossibile!
L'impossibile solo
rende possibile la vita dell'uomo.

Tu fai bene a inseguire
il vento con un secchio.
Da te, e da te soltanto,
si lascerà catturare!

Margherita Guidacci
Le poesie
Ed. Le lettere Firenze 1999

comitato elettorale/uno

Un comitato elettorale è come un’ orchestra. Ognuno ha il suo strumento e il suo spartito e deve intessere la sua parte con quella degli altri orchestrali affinchè alla fine si ottenga la piena armonia che il compositore ha pensato.
Nella realtà un comitato elettorale è molto cacofonico, perché pur lavorando tutti per il medesimo obiettivo, sottoscopi diversi animano i partecipanti.
Come è naturale c’è gente che lavora per il candidato ma anche per sé, spera in un ritorno per la sua carriera politica o per la sua posizione lavorativa, o in un aiuto dal futuro eletto per altri e diversi suoi problemi. Io considero tutto ciò assolutamente legittimo, naturale e per niente riprovevole. Non ne faccio una questione etica, ma io preferisco essere un soldato semplice. Non arruolato ma volontario.
Io ho bisogno di sentirmi assolutamente libera nel mio impegno, debbo poter pensare in qualunque momento:- Adesso mi alzo, prendo la mia borsa e me la filo.- Questa è la mia unica condizione.
Nella realtà la borsa non la prendo mai e non me la filo. Al contrario lavoro indefessamente ma il senso della mia partecipazione non dev’essere mai equivocato.
Delle conoscenze che si fanno all’interno di un comitato elettorale e che possono essere anche molto importanti, non mi piace approfittare. Non chiedo mai niente per me anche quando e se potrei farlo. Il fatto è che preferisco pensare di poter dire ad un fesso -sei un fesso- senza dovermi ricordare di un favore precedentemente chiesto.
La morale non ha niente a che fare con questo, non voglio prendermi meriti che non ho, semplicemente dire fesso ai fessi mi piace.

Tornando all’orchestra e alla cacofonia. Il fatto è che spesso i volontari hanno in comune solo il sostegno al candidato, tutto il resto potrebbe dividerli e spesso li divide.
Le personalità cozzano, i temperamenti si urtano, c’è un bel clima di tutti contro tutti proprio mentre si lavora tutti per uno. Paradossalmente ci si vuole molto bene anche se ci si è antipatici. Si è pronti a difendere il più odioso dei volontari da qualunque attacco gli venga da fuori del comitato. Il comitato diventa un clan, come lo definirebbe Elias Canetti. I vincoli sono fortissimi e prescindono dalla razionalità. Avendo un temperamento passionale adoro questo clima, alla “noi e loro”.
Loro sono tutti quelli che sostengono il candidato avversario. Naturalmente loro sono convinti di essere i” noi” e che noi siamo i “loro”.

Ma può invece succedere che oltre alla devozione per il candidato si sia uniti da altre passioni. Con la mia amica Luciana divido anche la fede calcistica, come pure con un giovane volontario del mio ultimo comitato elettorale pro sindaco.Si chiama Marco, detto da me “zainetto” perché girava con uno zainetto giallorosso sulle spalle. Romanista lui, praticamente malato di amore, e romanista io. Quando chiedeva ad alta voce e con un’aria incerta, chiaramente per essere rassicurato-che dite ce la facciamo?- e tutti subito saltavano su-ma certo che ce la facciamo, non li hai visti i sondaggi?!- solo io sapevo rinfrancarlo perché solo io sapevo che parlava del campionato di calcio che quell’anno ci vedeva arditamente in testa.
Vincemmo il campionato e vincemmo le elezioni e l’ultima sera, in uno stato di euforia da LSD, sventolavamo insieme le bandiere della Roma e quelle della nostra parte politica: Luciana, donna molto previdente ne ha sempre almeno un paio dei due tipi in macchina.



Di comitati elettorale ne ho frequentati tanti nella mia vita e consiglio a tutti di farne l’esperienza. E’ appassionante, istruttiva e gratificante. Ma soprattutto è divertente.

Il mio primo comitato elettorale (tralascio le battaglie per i referendum storici del nostro paese perché, a quanto mi ricordo, allora si lavorava disorganizzati e parcellizzati) fu quello per l’elezione del sindaco della mia città. A quell’epoca non stavo molto bene, anzi non stavo bene affatto, anzi stavo proprio male. Comunque l’imperativo era la parola “motivazione”, cioè trovare qualche cosa che mi convincesse ad uscire di casa dove, asserragliata, mi rifiutavo di ammettere che il mondo esistesse ancora.
Un rientro nella politica, vecchio illusivo amore, mi parve una motivazione possibile. Abbracciai così la causa di un candidato che rappresentava quanto di più nuovo e dirompente si potesse immaginare nella situazione in cui la mia città versava allora: cioè al livello zero di cura politica.
Il comitato elettorale era un caos organizzato molto pittoresco, che mi accolse come un altro elemento caotico. All’inizio non era molto chiaro né che cosa dovessi fare né dove. Bighellonavo di stanza in stanza, rispondevo al telefono, preparavo memoranda per il responsabile del programma sull’ambiente che non venivano letti; poi passai alla comunicazione dove una certa facilità di espressione mi rendeva più utile.
Non posso dire di avere un ricordo molto chiaro di quel periodo, sia perché era davvero un periodo infame per me, sia perché grande era la confusione sotto il cielo. Anche quello del comitato.
Comunque vincemmo la nostra scommessa politica. Per il sindaco neo eletto, la sera della comunicazione dei risulatti e quindi della festa, confezionai una crostata che portai al Palazzo delle Esposizioni dove la festa si teneva. Per arrivare al roof dovetti litigare con la sicurezza che voleva farmi salire all’ultimo piano in ascensore, poiché le scale erano off limits. Pur avendogli spiegato che la mia claustrofobia non mi permetteva di stare in luoghi chiusi, l’uomo continuava a sostenere che un ascensore in vetro non è un luogo chiuso poiché si vede l’esterno. Un ascensore in legno o in ferro è chiuso, continuava a sostenere, in vetro è aperto. Su questo concetto di fisica discutemmo un bel po’ finchè tirai fuori la crostata e gliene promisi una fetta.
In effetti gliela tenni da parte, ma nella confusione finale, non lo trovai più.
Quella fetta di crostata me la mangiai io: fu il mio compenso per l’impegno pro sindaco e me lo attribuii da sola.

Al mio secondo comitato elettorale approdai in occasione delle elezioni politiche del ‘94. Chi condivise con me la cocente delusione per quel risultato elettorale dirà che potevo anche astenermi, ma io sono ancora molto contenta di avervi partecipato. La mia candidata mi piaceva molto. Donna, femminista, filosofa: una vera anomalia. Era la nipote di un grande, molto grande, per me il più grande vecchio della sinistra italiana. Di quel nome prestigioso non si servì mai, né degli appoggi che avrebbe potuto garantirle.
Avevamo molto entusiasmo ma pochissimi soldi e ci battevamo contro il più ricco tra gli italiani. Dopo aver fatto una infinità di conti arrivammo a concederci diecimila manifesti. Mi recai nella tipografia a portare l’ordine e a discutere il prezzo. Il proprietario, che pure votava per noi, indicandomi una intera zona del suo negozio occupata dai volantini dell’altro candidato mi disse testualmente : -ma ‘ndo andate, questo ve fa’li bozzi.- Gli altrui volantini erano duecentomila.- Il rapporto era proprio questo. Perdemmo, e in che modo perdemmo! Nella nostra città passò uno solo dei nostri candidati. Era una donna. Quanto alla mia candidata questa scomparve poi dalla politica, a riprova di quanto fosse anomala.
Qualche sera dopo la débacle, facemmo una riunione per esaminare le ragioni della sconfitta.
Noi gente di sinistra adoriamo partecipare a sedute psicanalitiche in cui ci interroghiamo sui perché delle nostre sconfitte. Lo facciamo a tutti i livelli, dai grandi leader ai più piccoli militanti di sezione. Io non so più a quante ho partecipato. Sono molto stimolanti, le migliori intelligenze si esercitano in ardite costruzioni, spettacolarmente fantasiose o lucidamente realistiche, secondo i temperamenti.
Io ne vado pazza, non me ne sono mai persa una. Datemi una sconfitta e la possibilità di ricercarne le ragioni ed io accorro.
Accorsi anche alla nostra piccola riunione e quando toccò a me parlare, scorrendo i nomi dei candidati che erano passati al posto dei nostri, feci un’unica dichiarazione:-Avrebbero votato chiunque pur di non votare per noi.-
Modesta conclusione, lo so. Ma pur essendosi precedentemente espressi con analisi politiche molto più sofisticate, tutti i presenti concordarono convintamente con la mia. Chiudemmo con una splendida cena perché la mia candidata era anche un’ottima cuoca. Anche questo va tenuto presente quando si sceglie un candidato.

martedì 29 maggio 2007

geometrie

Certi giorni sono un angolo acuto: stretta e chiusa e guai a sfiorarmi gli spigoli.
Certi giorni sono un angolo retto: la testa alta, guardo la gente negli occhi.
Certi giorni sono un angolo ottuso: indecisa tra il mettermi eretta o lasciarmi andare alla forza di gravità.
Certi giorni sono un angolo piatto: sfaldata al suolo, spalmata quasi.
Certi giorni sono un angolo giro: mi godo l’aria, il sole, la pioggia e quello che viene viene, per 360 gradi.

C’è gente che nella versione angolo giro non mi sopporta. Vorrebbe tagliarmi i 180 gradi che considera di troppo.
Io resisto.

Comunque tutto questo spostare i miei lati su e giù a fisarmonica è faticoso.
È dura la vita degli angoli.

agente di viaggio/primi passi

Quando aprimmo nel centro di Roma l’agenzia di viaggi che avevamo rilevato, B. ed io ignoravamo tutto del suo funzionamento. Assumemmo quindi temporaneamente un ex direttore di agenzia perché ci insegnasse il mestiere. Lui ritenne che, essendo noi due donne, poteva tranquillamente farci fesse. Trattò il suo incarico come una sine cura. Con la scusa che dovevamo fare esperienza mandava noi in giro a fare analisi di mercato, o a farci dare i depliant degli alberghi e se ne stava in agenzia a chiacchierare beatamente al telefono con i suoi ex colleghi.
La faccenda andò avanti per un po’, poi B. ed io ci guardammo e decidemmo che quel lavativo era di troppo nella nostra agenzia.
Gli parlammo francamente, proponendogli di separarci amichevolmente, visto che lui non svolgeva il lavoro per il quale lo pagavamo.
Rifiutò di andarsene. Gli spettavano ancora tre mesi di contratto, disse. Fu così che decidemmo di fargli rendere nei secondi tre mesi anche quello che non aveva reso nei primi tre.
Gli preparammo un piano di visite a tour operators, compagnie aeree, associazioni, alberghi, brokers, studi professionali che avrebbe schiantato un bue. Viaggiava su e giù carico di depliant, che doveva sistemare sui loro sostegni. B. era molto esigente, in fatto di depliant, li voleva in un ordine rigoroso. Inoltre lo mandavamo a consegnare a domicilio i documenti di viaggio dei nostri primi clienti. Tentò di obiettare che normalmente non si faceva. Replicammo che volevamo dare una impronta molto friendly alla nostra agenzia. Chiese pietà dopo meno di un mese e scomparve dalle nostre vite.


Il sogno di B. era diventare tour operator. Io la smontavo immancabilmente: non abbiamo abbastanza soldi. E’ troppo rischioso. Lei inghiottiva amaro.
Poi vennero in Italia i Rolling Stones. Primavera 1983 credo.
A Roma niente concerto, ma a Napoli sì.
Decidemmo di organizzare dei pullman per portare i romani al concerto dei Rolling Stones. In fondo era proprio il lavoro di un tour operator, organizzare un pacchetto e venderlo anche ad altre agenzie. B. era al settimo cielo.
Lavorammo come pazze e organizzammo sei pullman. A quel punto si pose il problema di chi di noi sarebbe andata a Napoli al seguito dei nostri pullman e chi sarebbe rimasta in agenzia. Lei tentò di far passare la linea che essendo io notoriamente molto Beatles-maniaca, a lei spettasse il concerto dei Rolling Stones. Le obiettai che, essendo io una donna normale, consideravo Mick Jagger una delle poche cose buone della vita e che non intendevo perdermelo.
Alla fine ci accordammo per mandare M. un mio amico.
A Napoli M. si addormentò sul prato del concerto dopo uno spinello e si fece rubare tutto l’incasso.
B. voleva che ci rimborsasse. La cifra non era altissima ma M. non l’aveva, era mio amico e lo difesi. Discutemmo. B. disse che lei era una imprenditrice e non una benefattrice. L’idea che anche io, insieme a lei potessi essere una imprenditrice, mi turbò a tal punto che misi personalmente in cassa la cifra del mancato incasso.
Comunque quella fu la fine delle nostre ambizioni di tour operator.
Fu anche il nostro primo screzio ma già aveva in sè tutte le caratteristiche di quelli che seguirono.

previsione

Comincia il mattino col predire a te stesso: m'imbatterò in un curioso, in un ingrato, in un insolente, in un imbroglione, in un invidioso...

Marc'Aurelio.

lunedì 28 maggio 2007

Adriano e Marguerite



Su indicazione di un amico sono stata recentemente alla casa delle letterature, per una mostra su Marguerite Yourcenar e il suo viaggio in Giappone.
La mostra è molto ridotta, alcuni oggetti erano già stati tolti, altri non ancora installati. Insomma non tutto ha funzionato a dovere. Ma già vedere i due grandi ritratti affiancati, Marguerite con i suoi occhi chiari e le sue bellissime rughe e l’imperatore Adriano nella sua marmorea solennità mi ha ripagata. Il giardino di aranci conserva l’incanto di sempre, vi hanno aggiunto dei tavoli e alcune ragazze con i loro libri vi studiavano nel silenzio.
Mi sono fermata a leggere il giornale, poi sono tornata per via del Governo Vecchio. Per quanti anni ho percorso quella strada, in almeno due stagioni della mia vita!
E’ come sempre, un po’ appartata e un po’ disadorna. Riconosco ogni pietra e ogni palazzo. Ed è tutto un trasalire un po’ nostalgico e un po’ doloroso.
Sono spuntati dei negozietti nuovi, tra questi una bottega dove vendono piccoli busti romani. L’esuberante ragazza brasiliana che lo gestisce confonde allegramente uno con l’altro gli imperatori filosofi, ma alcuni dei busti sono dei perfetti ritratti. Fra questi uno bellissimo dell’Imperatore Adriano, il mio Imperatore, venduto ad un prezzo pazzescamente alto. Senza rimpianto lo lascio dietro la piccola vetrina. A casa ne ho un altro, anche se non così perfetto.
Anche se penso che le coincidenze sono negli occhi di chi guarda, ritrovarmelo davanti subito dopo averlo lasciato nella casa delle letterature, mi ha convinta che forse era arrivato il momento di parlarne. Il fatto è che una frequentazione di almeno venti anni mi lega all’imperatore, del quale ho seguito le tracce fin dove e fin quando ho potuto.
La mia è una passione totale. La domanda che tutti mi pongono è : perché?
Io li dirotto verso il come. Racconto i miei viaggi, le mie letture, i miei studi, i miei scritti. Ma sul perché taccio. Il fatto è che le vere passioni non hanno perché.
Ci prendono e ci portano. Talvolta ci affratellano ad altri appassionati.
La Yourcenar sarebbe una grande scrittrice anche se non avesse scritto di Adriano e l’amerei comunque per lei sola, ma in più lei ha scritto di Adriano e questo rende anche lei speciale ai miei occhi. Anche lei un po’ più vicina a me.
Infatti, per quanto pazzesco possa sembrare, io sento una strana affinità con l’Imperatore Adriano, una vicinanza, una somiglianza. Insomma per me non è un personaggio storico e basta, è un amico intimo, di cui credo di conoscere la mentalità e la psicologia, i gusti e i pensieri.
E che non mi stanco di studiare.
Di questo amore per il grande imperatore ho contagiato tutta la mia famiglia e potremmo forse configurarci come una piccola setta. Accettiamo adepti.
Verranno però sottoposti ad un breve ma severo esame. Li guarderemo guardare il busto di Adriano dei musei capitolini. Solo se il loro sguardo si illuminerà li accoglieremo tra noi.

La verità è che proprio ieri sera, rileggendo la Historia Augusta, mi sono accorta di aver raggiunto l’età di Adriano quando Adriano morì. Sul tempo, la sua misura, il suo peso mi interrogavo già da adolescente. Le domande di un adolescente non sono necessariamente meno profonde di quelle di un filosofo, né le risposte più insufficienti. Quanto alle mie oggi sono confuse, ma nella confusione un pensiero ai segni del passato è sempre stabilizzante. Credo che oggi chiederò udienza all’Imperatore.

domenica 27 maggio 2007

per tutti noi

filastrocca per la depressione
tutto il tuo essere una sola abrasione
paura di tutto voglia di niente
e l'incomprensione della gente

filastrocca per chi non sa
cosa vuol dire esser vivi a metà
per chi ti dice “oggi sono depresso”
e non sa di che parla povero fesso

filastrocca per il panico duro
nessun luogo è più sicuro
il cuore si ferma il cielo si oscura
paura paura paura

filastrocca per la psicoterapia
tutti quegli anni buttati via
tutte quelle ore a piangersi addosso
e a spogliarsi fino all'osso

filastrocca per l'ansia che arriva
d'improvviso così cattiva
ti copri tutto di sudore
e sotto pelle ti corre il terrore

filastrocca per le benzodiazepine
così charmantes, così carine
per la paura di metterle in bocca
eppure le ingoi quando ti tocca

filastrocca per tutti i malanni
che ti affliggono per anni e anni
per la fervida fantasia
della tua sintomatologia

filastrocca all’allarme rosso
perché cammini sull’orlo di un fosso
e capisci che basta niente
per sprofondare malamente

filastrocca per chi ha capito
che non potrà mai dirsi guarito
ma non si arrende, anche se è dura,
perché ha il coraggio di avere paura

filastrocca per l'autoironia
per l’amara spavalderia
con cui tu ridi di te stesso
l'irresistibile depresso

filastrocca per la depressione
che incomparabile occasione!
perché ti mette in sintonia
con il dolore che incontri per via
perché impari a guardare a fondo
dentro l'anima del mondo

m.p.

roma, 2001

tavor

Al mio amico bip: ammetti che è meglio concedersi modiche e regolari dosi di ansiolitico piuttosto che attendere di ingolfarsi in un panico tachicardico e apneico?

Alla mia amica emmeti: ammetti che l' occasione migliore per confessare i propri sogni erotici con un altro uomo al proprio marito, non è quando il poveretto è in preda ad un attacco di panico?

Se le vostre risposte sono entrambe sì, allora potrete continuare a contare su di me.
Sarò ancora pronta a precipitarmi da voi alle tre del pomeriggio, sommariamente vestita, sfidando le leggi della cinetica con la mia vecchia cinquecento, perdendo l'ultima partita di campionato e causando un blocco comunicativo con il coniuge, per consegnarvi a domicilio un tavor.

Se anche una sola delle due risposte non sarà affermativa, d'ora in poi vedetevela da voi.

sabato 26 maggio 2007

da me

Grazie a tutti i non collaboranti che hanno ignorato il mio appello per avere il nome del tango sigla della trasmissione "Otto e mezzo" di G. Ferrara.

Me lo sono trovato da me.
E poiché sono generosa ve lo comunico.
Trattasi di Libertango di Astor Piazzolla. Il testo è niente di meno che di Borges.
Ne sto cercando la versione in lingua originale, ma tranquilli, me la troverò da me.

professò/tre

Per tornare ai consigli di classe allegrotti che si tenevano a Marino.

Io approfittavo di quell'allegria per estorcere ai miei colleghi, soprattutto quelli di matematica, piccoli decimali di punto in favore dei miei alunni.
I miei rapporti con i colleghi di matematica sono sempre stati critici.
I matematici ritengono che la verità risieda nell'esattezza e spesso è così, ma sembrano ignorare che, ammesso e non concesso che un'età dell'esattezza arrivi mai per noi, l’ adolescenza è per definizione l'età dell'approssimazione.
Inoltre sembra che lo studio della matematica renda i matematici refrattari alla misericordia. La realtà è che erano per lo più uomini e consideravano fallimentare la loro vita lavorativa. Pieni di livore per lo stipendio risibile e l'inesistente prestigio sociale, i matematici scaricavano sugli alunni la loro frustrazione. Naturalmente c'erano delle eccezioni. Me ne viene in mente una, ma forse non fa testo, perché era una donna. Considerava la matematica la più creativa e fantasiosa delle materie e come tale la insegnava.
Se entravo in classe e trovavo i miei alunni ammucchiati uno sull'altro, impegnati accanitamente su fogli e fogli, Bice era passata di lì. Aveva seminato un dubbio e bisognava attendere che quel dubbio venisse sciolto.
Talvolta la dovevo cacciare dall'aula, rivendicando il mio diritto di fare lezione. Se ne andava brontolando: proprio adesso! Bice era sì matematica, ma donna.

Eppure sere fa’ ho sentito un professore universitario di filosofia, che viene tout court chiamato filosofo, e che secondo me si dedica troppo alla politica e troppo poco alla speculazione, dichiarare in televisione senza nessun senso del ridicolo, che la scuola italiana va vieppiù peggio perché vi insegnano sempre meno uomini!
Io ho avuto ottimi colleghi maschi, e straordinarie colleghe donne, oltre ad una pletora di brave persone senza nessun talento per l’insegnamento.
Ho avuto anche come colleghi/e un bel po’ di persone niente affatto brave, persone che volentieri avrei restituito al mercato perché li collocasse altrove.

Quelli che più ho odiato erano quelli che mettevano paura ai miei alunni.
Quelli che me li spaventavano, a cui al cambio dell’ora dovevo consegnarli terrorizzati.
A quelli ho fatto una guerra spietata e non sempre leale.
Appena ricevevo a voce o in qualche tema la notizia del crimine (quel professore ci fa paura), provvedevo a ricollocarlo al suo posto nella immaginazione dei miei alunni.
Se era un uomo, prima di lasciare l’aula tenevo alla classe un discorsetto che suonava più o meno così: “Allora, sta per entrare xy. Non dovete averne paura. Non è un dio, è un uomo come vostro padre.
Quando lo vedete entrare, pensate che muore di sonno perché si è svegliato presto, ed era troppo stanco per lavarsi.
La camicia se l’è dovuta stirare da solo perché la moglie lo ha mandato a quel paese e gli ha detto che se non si lava le ascelle lei la camicia pulita non gliela fa più trovare. (Il particolare delle ascelle lo inserivo perché così con una fava prendevo due piccioni).
Nel pomeriggio deve andare dal dentista ma ne ha una paura terribile perché è un vero fifone, inoltre è preoccupato perché non ha i soldi per arrivare alla fine del mese.
Il figlio più grande fa le medie come voi e va malissimo in matematica.
Quando usciamo da scuola e prendiamo la corriera è talmente stanco che piomba addormentato a bocca aperta. E russa. Credetemi non dovete averne paura. E’ un poveretto.”
I ragazzi mi guardavano ad occhi spalancati e una piccola onda di sollievo cominciava a sollevarsi dalla classe. Quando il collega entrava gli lasciavo una classe in cui il timore cominciava a sfumare nella pietà e talvolta nella derisione.
A lui sorridevo angelica.

Se poi la “cattiva” era una professoressa, poiché come tutte noi poteva essere molto più cattiva di un uomo, e io più cattiva di lei, affondavo davvero il coltello.
La poveretta veniva descritta in tutte le sue miserie, la sua immagine pubblica smontata pezzo a pezzo e l’inflessibile giudice dei miei ragazzi era ridotta nella loro immaginazione ad una creatura degna di compatimento se non di dileggio.
Non che il problema fosse così risolto per sempre, ma per la prima mezz’ora funzionava. Guadagnavo per i miei alunni una mezz’ora di sollievo. Poi i colleghi sadici riassumevano intero il loro potere terrorizzante.
Ma la settimana dopo, implacabile, io ricominciavo, inventando sempre nuove storie e particolari sempre più meschini.
Una sola volta un collega sospettò qualche cosa. -Sai niente chi ha detto in prima che io russo?- Perché tu russi? -Certo che no!- si inalberò lui.- E allora che ti frega?-
Insegnava matematica ma la logica non era il suo forte e la risposta lo azzittì.

La verità è che l’unica ma proprio l’unica cosa che mi vedeva davvero inerme di fronte ai miei alunni, dai quali normalmente esigevo ed ottenevo rispetto, era la loro paura.
Se nel rimproverarli toccavo qualche corda che li intimoriva e me ne accorgevo, ero finita. Ero capace di qualunque cosa pur di scacciare il timore dai loro occhi. Non c’era minaccia che non fossi pronta a rimangiarmi, né spettacolo clownesco al quale non mi abbandonassi volentieri. E finché anche la più piccola ombra di paura non era scomparsa dal loro sguardo non finivo di stare in ansia.
Un alunno di terza, immagino che sarà diventato uno psicologo, scrisse su un tema: la professoressa di lettere ha paura che abbiamo paura. Forma poco sciolta ma concetto chiarissimo. Otto.

venerdì 25 maggio 2007

ode a Lancôme

Quando la sera invita la notte
e sul vasto mondo tutte le creature
tornano al giaciglio consueto
-la volpe alla sua tana-
-la lupa alla sua grotta-
-al nido impervio l’aquila dal becco forte-
tu sola
creatura notturnamente vestita
davanti a una luce riflessa
sacrifichi alla Dea che hai imparato a servire:
Venere sorta dalla spuma del mare.
E si compie il rito perfetto
che preserverà il tuo perlaceo fulgore.
Tu,
cara al cuore di ogni uomo che la terra ben arata nutrì,
tu,
donna che ti strucchi la sera prima di andare a letto.
Dimmi: ma chi te lo fa fare?
m.p.

collina etrusca/due

Pensosa del benessere dei suoi cittadini morti, come di quello dei vivi, l’amministrazione della città decise l’ampliamento del piccolo cimitero storico sulla collina.
Individuata l’area si iniziarono i lavori di scavo.
Ma poiché, come ognuno di noi sa, i morti soverchiano i vivi, la ruspa incontrò presto una tomba etrusca.
I lavori vennero sospesi, essendo evidente che i vecchi morti si rifiutavano di fare posto ai nuovi.
L’amministrazione cittadina, in parte per rispetto della ricerca archeologica, in parte per oculata attenzione al possibile incremento turistico, propose alla cittadinanza di lasciare indisturbati quei morti così antichi e di procedere all’edificazione di un nuovo cimitero, da collocarsi nella pianura ai piedi della città.
Ma la nuova estrema dimora che veniva prospettata per i futuri morti della città, si prospettò per molti di loro come un troppo lungo esilio dal cuore della cittadina e ai futuri superstiti come troppo scomoda per l’esecuzione appropriata del culto dei morti.
La decisione ultima venne affidata ad una Assemblea Pubblica dove il Sindaco prese le difese dei morti antichi, che meritavano il pieno rispetto che si deve alla Storia e ai popoli che la Storia hanno scritto.
Ma questa pur nobile posizione venne spazzata via dall’intervento risolutivo di un anziano cittadino che rivolse al sindaco e all’intera cittadinanza, nel più schietto vernacolo locale, la seguente domanda:- ecché, nun zo’ etrusco io?-
Di fronte alla inoppugnabilità della sua posizione non si poté che smontare e rimontare altrove la tomba etrusca, restituendo a quei vivi che un po’ già si sentivano morti, il diritto a giacere nei secoli sulla vecchia collina.

Mi sono imbattuta in questa storia recentissimamente e l’etrusco che me l’ha raccontata, nel cimitero di Tarquinia, era intento a lavare amorosamente la lastra che avrebbe sormontato la sua tomba. Richiesto del perché fosse per lui così importante dormire lì il suo ultimo sonno, se avesse in quel cimitero qualche caro cui volesse ricongiungersi e se credesse in una vita futura in comunione con altre anime, mi rispose che no, nessuna di quelle ragioni lo aveva mosso nella sua battaglia, ma “non voleva rinunciare ai suoi diritti solo perché era morto.”
Insomma una forma di previdenza lo aveva guidato.
“Mi dia retta-mi ha consigliato- ci pensi prima, se no dopo fanno come gli pare a loro.-

giovedì 24 maggio 2007

trovato!

Sono in buona compagnia: era Camus, il grande Camus, a dire che
"Non essere amati è una semplice sfortuna; la vera disgrazia è non amare".

le paon

dal mio breviario laico, stamattina è uscita questa

Le paon

En faisant le roue, cet oiseau,
dont le pennage traine à terre,
apparait encore plus beau,
mais se decouvre le derrière.

Quando allarga la ruota questo uccello
bellissimo a vedere
con le penne che strascicano a terra
sembra ancora più bello
-ma si scopre il sedere-

Guillaume Apollinaire

seduzione

Poiché si è parlato di seduzione vorrei dedicare qualche riga al campione mondiale della seduzione: il Narciso.



Il Narciso, d’ora in poi solo N. è generalmente un uomo cui da molto piccolo si è detto che è un principe e che come tale è stato trattato.
Qui si sfiora il tema scottante delle ”madridimaschio” una categoria di donne che dovrebbero fare i conti con se stesse.
Ma non voglio inimicarmi la metà delle appartenenti al mio genere.

Tornando al giovane N. non solo ha creduto di essere un principe come gli è stato detto, ma lo ha anche sommamente apprezzato.
La natura di suo ha fatto il resto, dotandolo di bellezza e soprattutto di fascino.
Niente di più naturale che divenuto un uomo si applichi ad esercitarlo.
Di questo fascino N. è generoso dispensatore, lo rovescia imparzialmente su ogni donna che incontra sulla sua strada.
Non gli interessa realmente farle sue, ma solo sedurle.
N. non è né un Casanova, che si innamorava di tutte le donne e per loro illanguidiva e soffriva finché non riusciva ad averle, né un Don Giovanni, che dopo averle avute le abbandonava, senza averne amata una.
No, N. non ha realmente tempo per approfittare della seduzione esercitata su una donna, perché altre debbono essere sedotte.
Non solo N. non vuole davvero le donne, ma per lui le donne non sono davvero esistenti, donne in carne ed ossa. Sono solo specchi per la sua vanità, la loro funzione è rimandargli una immagine abbagliante di se stesso. Le donne non si accorgono che troppo tardi di questo terribile equivoco.
La più oscura e la meno attraente delle donne, vedendosi trattata come la più conturbante femme fatale, perderà la testa per lui. Ma mal gliene incoglierà.
Infatti non si deve confondere il nostro N. con il Seduttore. No, questo è tutta un’altra cosa.
Il Seduttore è un uomo pratico, cui interessano i risultati, non l’esercizio di seduzione in sé ma il frutto di piacere che gli procura. Diciamocelo il Seduttore è più sano.
Da questo punto di vista è molto meglio incontrare sulla propria strada un Seduttore, che poi magari ci abbandonerà dopo averci strapazzate, che un N. perché costui nemmeno ci strapazzerà.
Al centro dell’attenzione di N. sembrano essere le donne, ma questa è solo l’apparenza: è lui, solo lui al centro della sua stessa attenzione.
Le donne che si imbattono in un N. ne restano profondamente deluse. Vivono una esperienza assolutamente insoddisfacente. Infatti N. non si concede. Non è alterigia, è scarso interesse. N. è come un ciclista che corre tutto il Giro accanto al plotone senza essersi mai iscritto alla corsa. Spesso arriva primo. Ma la maglia rosa non gli interessa, è correre che gli interessa e poter dire: ho vinto.
Se N. si sposerà sarà un marito fedele. Apparentemente la moglie è la donna più a rischio di tradimento sulla faccia della terra, oltre che una delle più mortificate. Nella realtà è l’unica certa che nessuna donna le porterà mai via il marito. Infatti N. trema al pensiero di dover dedicare del tempo ad una seconda donna. Questo lo distoglierebbe dal sedurre tutte le altre.
Una donna è più che sufficiente per N. che all’ombra della moglie, indisturbato e senza rischi, si dedicherà alla nobile arte del sedurre. Poiché al fondo è un giocatore che bluffa, se volete davvero divertirvi, andate a vedere..
Se dovessi stilare una graduatoria degli uomini più odiosi sulla faccia della terra (compito immane cui non oso accostarmi) metterei N. in una buona posizione.
Ah, un’ultima cosa: quando N. si sposerà non sarà MAI con una donna che lui ha sedotto, ma con una donna che ha sedotto lui.
La differenza è abissale. E la ragione evidente.
Nell’essere sedotto N. prova un piacere ancora più sottile, quello di vedere quanto è disposta a fare una donna per sedurlo. E senza che lui faccia niente, solo per effetto del suo fascino! Quella donna lo avrà. Dubito che ne valga la pena.

mercoledì 23 maggio 2007

non sempre

Da sempre il mio giornalaio mi saluta con un ciao quando è solo nell’edicola e con un buongiorno quando accanto a lui c’è la moglie.
Al contrario lei mi dice ciao quando ha accanto il marito e buongiorno quando la incontro nel quartiere.

Io rispondo in ogni caso con un ciao ma mi piacerebbe che una volta per tutte decidessero se per loro sono una figura amica o solo una cliente.

Vorrei metterli all’angolo tutti e due e dir loro chiaramente così:
Lo so perché davanti a tua moglie non mi dici ciao, tu temi che lei pensi che questa confidenza nasconda una simpatia.
E quanto a te lo so perché invece mi dici ciao quando hai lui accanto, tu temi che lui pensi che tu sei gelosa di me e vuoi dimostrargli che hai nei miei confronti sentimenti amichevoli.

Quanto a me, mi siete imparzialmente simpatici, da trentasei anni compro il giornale da voi e sono ormai una vecchia ragazza.
Mi piacerebbe che mi consideraste una amica. Entrambi.

Non potremmo rilassarci tutti e tre?
O devo cambiare edicola?


Il vecchio tema della possibile/impossibile amicizia fra uomini e donne è stucchevole. Non ve ne affliggerò. Personalmente posso portare la testimonianza di belle e buone e limpide amicizie con uomini. Piuttosto una piccola osservazione su noi donne. Perché sempre in guardia? Ci possono essere donne che quando sorridono al nostro uomo vedono solo una persona e non una possibile preda.
Io sono stata (lo sono tutt’ora, ma ormai non conta) una di queste. Nessun uomo ha mai equivocato. Gli uomini sanno, gli uomini sentono quando una donna li guarda con la stessa attenzione e la stessa cordialità che avrebbe verso una donna. Naturalmente, essendo gli uomini come sono, questo li infastidisce. Ma capiscono all’istante.
Siamo noi donne a equivocare. Non perché ci manchino i recettori appropriati.
Ma perché l’abitudine a considerare ogni donna una possibile rivale è più forte di ogni cosa.
E’ vero che spesso l’altra è lì proprio per portare insidia, ma non sempre. Basterebbe forse ripeterci “non sempre”. Vivremmo più serene.

lunedì 21 maggio 2007

Manfred von Richthofen

Una strada dritta, dissestata e sassosa attraversava quell’unicum desertico che prima si chiamava Iran e poi diventava Afghanistan.
Nessun segno naturale segnava questo passaggio. Deserto piatto prima, deserto piatto dopo. In mezzo una baracchetta, l’ultimo avanposto iraniano nella strada da Mashad a Herat, in Afghanistan.
Da diverse ore correvamo su quella strada nel niente senza incontrare anima viva.
Ci avvicinavamo al posto di confine quando sentimmo dietro di noi il rombo di un motore potente. Ci seguiva una grossa moto che sulla strada stretta e semighiaiosa esitava a superarci. In prossimità della baracchetta la strada si allargava.
Arrestammo la macchina davanti al posto di controllo e mi preparavo a scendere (in quanto parlante “farsi” toccava a me ogni rapporto con le autorità) quando la moto ci aggirò, facendo schizzare sassi intorno a sé e fermandosi a meno di un metro dalla costruzione. Il più strabiliante spettacolo ci folgorò. Erano due uomini, anzi due superuomini, no meglio due supereroi.
Tra loro parlavano italiano con un forte accento lombardo.
Quello alla guida indossava un giubbotto di pelle marrone con le spalle imbottite, un casco in cuoio e grandi occhialoni. Appena lo vidi pensai a Snoopy vestito da Barone Rosso come lo disegnava Schulz. Al collo gli svolazzava una sciarpa. Quello dietro, invece di pantaloni e giaccone portava una tuta scura in pelle e grossi scarponi. La sciarpa regolamentare anche al suo collo. C’erano circa quaranta gradi e io, in previsione dell’incontro con le guardie di frontiera, avevo appena preso un golfetto di cotone da mettere sopra la maglietta scollata che indossavo. Anche tenendo conto che viaggiavano in moto quella tenuta doveva far soffrire non poco i due esploratori.
Ma loro sembravano soddisfatti. Li riconobbi immediatamente come appartenenti a quel tipo umano che interpreta il ruolo di avventuroso in film di cui è protagonista, regista e in quel caso anche costumista. Ma non fu quello che me li fece ferocemente odiare, quanto il fatto che, scesi dalla macchina, si diressero spediti alla costruzione passandoci davanti. O meglio, tecnicamente erano arrivati prima di noi avendoci superati negli ultimi due metri, ma nella realtà fattuale erano dietro di noi.
Di qua e di là il deserto, nessuna meta visibile per ancora molti chilometri, appuntamenti urgenti improbabili. Dove correvano conciati in quel modo? Perché mi stavano passando avanti? Eravamo alla posta?
Balzai fuori dalla macchina come colpita da una scarica elettrica e scavalcandoli piombai nella baracchetta dove due giovani soldati seduti dietro un tavolinetto difendevano il territorio iraniano. Nel mio più veemente e concitato “farsi” li informai che io ero arrivata prima e che quei due stranieri volevano passarmi avanti.
Speravo che Allah riversasse su di loro e le loro famiglie tutte le sue benedizioni e li pregavo di esaminare i miei documenti.
I due soldatini rimasero interdetti da quella mia entrata teatrale ma simpatizzarono subito con me e invitando il Barone Rosso e il suo amico, che intanto si erano ripresi dalla sorpresa, ad aspettare fuori, presero i miei documenti e iniziarono a scriverne i dati sul loro registro. Intanto io li intrattenevo chiacchierando del più e del meno, le condizioni del loro lavoro, la durata dei loro turni, il loro villaggio di origine.
Ce la sbrigammo in pochi minuti ma prima di uscire li avvisai che i due tipi che stavano fuori erano carichi di macchine fotografiche con cui volevano fotografare me e mia figlia e il panorama intorno. Questo delle foto era stato il tormentone per tutto il viaggio da Teheràn a Mashad. Appena tentavamo di farci una foto, dal nulla spuntavano dei soldati che o volevano requisirci le macchine fotografiche o ci costringevano a consegnare i rollini o nella migliore delle ipotesi ci scoraggiavano dal ripetere l’esperienza con modi bruschi. Lo Shah-in-Shah che appariva su tutti i tabloid del mondo odiava che nel suo paese si riprendesse anche il nulla.
Una luce omicida si accese negli occhi dei soldati e mentre uno veniva ad alzare la sbarra che divideva i due paesi, l’altro si avvicinava minaccioso ai poveri lombardi. Ce li lasciammo alle spalle perplessi e ignari. Non sapranno mai che cosa fosse accaduto né perché furono trattenuti tutto quel tempo in quel piccolo ufficietto. Infatti nel posto di frontiera di Herat, che raggiungemmo di lì a poco, caotico, chiassoso e con ritmi lavorativi a dir poco rilassati, restammo per ore senza che i due poveretti comparissero.
Io me li immagino ancora là, quei due connazionali, che tentano di farsi capire in inglese o in francese o in tedesco o in russo o in latino, smontano e rimontano le loro macchine fotografiche, consegnano i loro rollini, e intanto sudano nella loro divisa da pilota da caccia della prima guerra mondiale.
O forse no, forse ho servito loro su un piatto d’argento quell’avventura cui agognavano, forse da anni continuano a raccontare di quella volta che furono bloccati per ore all’avanposto iraniano, tenuti sotto la minaccia delle armi, presi per spie, minacciati e forse anche un po’ torturati, non proprio torturati,ma insomma un pochino sì.......

remembrance/forgetfulness

In questo periodo ho molto a che fare con il tema della memoria, con domande ancora più difficili delle risposte.
Infatti ai ricordi spesso non sappiamo che cosa chiedere: una illuminazione che ridisegni per noi il nostro passato o una conferma del presente che scacci le nostre paure e plachi le nostre ansie.

Per qualcuno che crede che la vita sia essenzialmente cambiamento, il ricordo è un arresto di vitalità, una sosta nel fluire vitale, un impaccio, una remora, spesso abusiva.

Per chi invece solo nel presente si sente sicuro e senza alzare la testa al domani controlla l’aderenza al solido oggi, i ricordi possono essere il basamento rassicurante che sorregge il presente e gli dà spessore.

I ricordi si possono perdere e della perdita si può soffrire o si possono scacciare come altra cosa da noi o noi, ormai, altra cosa da loro.

Ricordare ha a che fare con il perdere o il conservare. Non le persone che abbiamo incontrato nella nostra vita, non gli altri che sono stati figure su scene che ormai non si possono ricreare, ma perdere o conservare noi stessi.

Noi possiamo amarci, considerare noi stessi con indulgenza assieme ai nostri errori e accettare di conservarne in noi testimonianza o possiamo detestare ciò che siamo stati, provare imbarazzo se non addirittura vergogna per le illusioni, i sogni, le ingenuità con cui abbiamo guardato alla vita.
E niente è peggio del sentirci ridicoli, di guardare al noi che siamo stati come a una creatura patetica e sprovveduta meritevole di irrisione.
In tal caso il ricordo ci ferisce e solo allontanarlo ci dà sollievo.

Ma possiamo anche accettare la nostra innocenza di una volta, il nostro lasciarci ingannare dalla vita, la nostra stessa inesperienza con comprensione affettuosa.
In tal caso il ricordo ci farà piacevole compagnia.

Può darsi che ognuno di noi abbia un suo modo precipuo di porsi di fronte al ricordare, o forse nel corso della vita sperimentiamo ognuna di queste modalità, considerando il ricordo o il lato più dolce della malinconia o la punta più tagliente del rimpianto.

“Il ricordo è una forma di incontro” dice Kahlil Gibran.
Ma è sempre lui a dire: ”L’oblio è una forma di libertà”.

Non dobbiamo necessariamente scegliere.

sabato 19 maggio 2007

a caso

Mi annodo il cappello-mi aggiusto lo scialle-
i piccoli doveri della vita
adempio esattamente
proprio come se il più piccolo
fosse immenso per me-

Metto nel vaso i fiori nuovi-
e i vecchi getto via-
scuoto dalla mia gonna un petalo
che si era impigliato

Peso il tempo che ci vuole
da qui alle sei-ho tanto da fare-
eppure anni addietro l'esistenza
-colpita-si fermò
e così il mio tic tac...


Emily Dickinson

venerdì 18 maggio 2007

cosa so delle donne/due

Le donne sono nemiche.
Non degli uomini, non date retta.
Anche la più accanita delle femministe non è veramente nemica degli uomini, ve lo assicuro.
Sono nemiche delle altre donne, come è ampiamente noto.
L’una contro l’altra armata, siamo perennemente in competizione.
Non sarebbe ora di finirla? Non potremmo, tanto per cambiare, considerarci alleate?
Darci una mano? Lo so, per noi è come nuotare contro corrente, ma le femmine di salmone ce la fanno.
Perché noi no?
Quanto a quelle di noi che hanno una briciola di potere, a ognuna di loro vorrei dire: è ora che impari ad usarlo in favore delle donne. Soprattutto non essere mai -intendi?- mai imparziale fra un uomo e una donna.
Al contrario, la parzialità, il favoritismo, devono diventare la tua stella polare.
Per essere davvero giusta verso una donna devi essere ingiusta verso un uomo.
Fai tua questa regola ed applicala in ogni occasione.
Senza nessuno scrupolo.

politica e abbandoni

Dopo molti anni rincontro un amico. Mentre mi avvio all’appuntamento penso: speriamo che non mi parli di politica.
Infatti è stata la politica a farci diventare amici molti anni fa’ e tutte le nostre conversazioni e discussioni vertevano sempre sulla politica.
Ma neanche lui sembra averne voglia. Si parla di altre cose, le nostre famiglie, i figli, la musica (lui è un musicista), le vacanze, vecchi amici comuni.
Al momento di salutarci mi fa: -lo sai che non ho votato?-
Oddio, si comincia - penso.
Minimizzo: -non sei stato il solo.- E cerco di tranquillizzarlo-Ti capisco. Il panorama è tale..-
Ma lui lo ripete -non ho votato- con l’aria di confessare di aver mangiato il cuore dei suoi figli.
E in piedi sul marciapiedi mi rifà la storia della sinistra italiana da Turati in giù. Vedo partire dal capolinea due autobus che potrei prendere ma non riesco a fermarlo. Ho gravi difficoltà a interrompere la gente che parla. Sono famosa per questo.
Lui parla a ruota libera. Ogni tanto butto là una frase, tanto per far vedere che lo seguo, ma lo ascolto solo a tratti. Sembra inarrestabile. Il tono è quello della delusione e dell’amarezza. Ad un certo momento capto questa frase: -e poi Marcella mi ha lasciato.- Torno in me. Marcella? Tua moglie? Ti ha lasciato? Sì-confessa.- Ma poco fa’ hai detto che sta bene- obietto. -Sì, sta bene ma con un altro -dice lui, e fa un sorriso amaro.
Cerco di scherzare. -Non sarà mica perché non hai votato?-
Infatti mi sfugge la relazione fra Turati e l’abbandono da parte della moglie, ma di botto gli si riempiono gli occhi di lacrime.
Oh, no, questo no, penso. Non so cosa dire. Ignorando tutto della storia non posso ricorrere a nessuna frase di consolazione. Cautamente interrogo: -quanto tempo è? - Al momento è la sola frase che mi viene in mente.
-Il 7 di marzo.- Questo mi impressiona più delle lacrime. Quella data così precisa sembra quella di una morte. Mi si stringe il cuore per lui.
Che faccio ora? penso. Va bene me lo porto a casa. -Dai, vieni a cena da me, così parliamo un po’. -Intanto penso rapidamente che cosa posso dargli da mangiare.
Questa è una grande prova di affetto, perché io letteralmente odio avere qualcuno a cena da me.
Lui sembra ricomporsi, guarda rapidamente l’orologio- Grazie, sei un’amica ma non posso.- I figli passano a trovarmi.-
Respiro di sollievo. Ho mal di testa, sono stanca e devo andare.
Sai che facciamo?- dico- ci vediamo una di queste mattine e ci facciamo una bella chiacchierata. -Sì- fa lui contento- sì ti chiamo.
Ci salutiamo. Salgo sul mio autobus. Mentre aspetto che parta guardo distrattamente fuori dalle porte ancora aperte. Lui è sotto la pensilina accanto ma guarda da un’altra parte. E poi vedo una bella ragazza in jeans con un pezzo di pancia scoperta e il fodero di uno strumento musicale in mano che attraversa correndo.
Gli si getta praticamente addosso e se lo stringe appassionatamente.
Lui non è un brutto uomo ma quella ragazza è decisamente troppo per lui! Intuisco che è una sua allieva del Conservatorio.
Non so perché ma mi incavolo di brutto. Mi sporgo dall’autobus e lo chiamo. Due volte, prima che si sciolga dall’abbraccio. Vorrei dirgli diverse cose, che mi ha fatto perdere due autobus e aumentare il mal di testa e soprattutto che mi ha fatto sentire male per lui, e che è uno spudorato bugiardo, ma non mi viene in mente niente di rapido ed efficace, così ripiego per un’anatema al volo. -Non hai votato? Mi guarda, perplesso. -Non hai votato? -ripeto- Con un cenno conferma che no. -Bhe, vergognati!-
Viva la politica!

giovedì 17 maggio 2007

dette badanti

Per Adriana P.

Sgrammaticavi la nostra lingua.
Ma capivi quella di nostra madre
afasica da due anni.

La casa non era pulita.
Ma nostra madre sì
e profumava.

Non hai mai indovinato la cottura della pasta.
Ma hai imboccato nostra madre
fino all’ultimo giorno.

Hai fatto tutto con il sorriso.

Quanti euro di gratitudine ti dovrei?

come farsi coraggio

.....Mò vojo batte, e buggiarà li sciocchi.
E che male sarà? de facce fiasco?
‘na provatura costa du’ bajocchi.....

G.G.Belli 1830
*buggiarare=fregare, sconfiggere
*battere=la dichiarazione che si fa al gioco del tressette
*provatura=tipico latticino laziale, diffuso e a buon mercato


randagi

Per quasi dieci anni nella mia strada un uomo è vissuto dentro la sua auto. Era un’alfa ed era tutto quello che gli era rimasto.
I primi tempi l’uomo era un uomo come un altro, assolutamente normale, semplicemente non aveva una casa.
Aveva bisogno di parlare. Raccontava a chiunque fosse disposto ad ascoltarlo il paradosso della sua situazione, ridotto a vivere in macchina perché un divorzio particolarmente crudele gli aveva portato via tutto: la casa, la liquidazione e metà della pensione da insegnante.
Ma parlava anche delle cose del mondo, commentava i fatti politici, la cronaca, era colto, intelligente. Era pulito, ordinato, informato. Una volta voleva addirittura offrirmi un caffè.
Si lavava nei bagni dei bar, e consumava panini e cappuccini nella macchina.
Oscurava i vetri della sua auto con dei giornali e durante il giorno andava in giro nel quartiere. Cercò un lavoro per molto tempo, poi rinunciò rendendosi conto dell’inutilità dei suoi sforzi. La gente lo trattava con rispetto, il vigile di zona chiacchierava con lui e il magistrato della palazzina accanto alla mia aveva sempre nuovi suggerimenti da dargli per uscire dalla sua situazione. Ma quando veniva l’inverno eravamo diversi a cercare di non passargli davanti.

La macchina divenne sempre più sporca, sempre più colma di piatti e bicchieri di plastica, di vecchi giornali e indumenti che un po’ tutti nel quartiere cominciarono a portargli. Qualcuno meno tollerante o solo più malvagio cominciò a rompergli i vetri della vettura, sperando che il freddo lo costringesse ad andarsene. Il mio carrozziere glieli sostituiva gratis. Poi gli ruppero le quattro gomme. La macchina si afflosciò e anche lui finì di afflosciarsi. Ormai non aspettava più che qualcuno lo salutasse o gli passasse vicino per parlare, parlava da solo, facendo su e giù sul marciapiede. Cominciò ad apparire sporco, trasandato, spettinato ma soprattutto i suoi occhi cambiarono definitivamente. Erano sempre spalancati, come in allarme, e lanciava sguardi allucinati su chiunque si avvicinasse.
Io mi imponevo di salutarlo ancora, era un mio collega no?, ma ormai emanava un odore terribile e si muoveva a scatti. Io pensavo: è così che un uomo diventa pazzo.
L’incuria, ma soprattutto la solitudine, credo, lo stava facendo impazzire.
I servizi sociali avevano altre priorità, altre situazioni disperate di gente cui dare una sistemazione e poi lui si rifiutava di spostarsi dalla sua vettura.
Non c’è stato un giorno in cui quell’uomo è diventato barbone, è stato uno scivolare lento sotto gli occhi di tutti noi.

Cominciò ad andare in giro con una grossa busta di plastica, in cui metteva quello che riusciva a raccogliere nei sui giri nella città. Non voleva andare alla Caritas a pochi passi da lì, né per dormire né per mangiare.Cominciò a raccogliere avanzi nei ristoranti e pizzerie della zona, e mangiava in macchina. Non la teneva più pulita, tutto si accumulava, ormai i vetri erano talmente sporchi che l’interno non si vedeva più.
Ci furono inverni rigidi, ma lui sopravviveva. Però diventava sempre più magro.
Smise di radersi e lavarsi.
Ogni tanto qualcuno chiamava i vigili o i servizi sociali.
Lui sbraitava. Si rifiutava di farsi portare altrove. Resisteva lì non so perché.
Il vigile che una volta chiacchierava con lui se ne teneva a distanza: era un modo di continuare a proteggerlo, di non intervenire come avrebbe dovuto fare contro di lui.
Ma la sua auto era parcheggiata di fronte ad una scuola elementare e le madri dei bambini cominciarono a lamentarsi del cattivo odore, del suo blaterare.
Dicevano che i bambini ne avevano paura anche se lui nemmeno li vedeva.
Non si rivolgeva a nessuno, parlava solo a se stesso o a interlocutori dell’altra sua vita, quella in cui era uno come tutti noi. Perorava la sua causa, protestava, malediceva.
I più vecchi del quartiere, quelli che lo avevano conosciuto all’inizio della sua avventura, tentarono di difenderlo, si raccolsero dei soldi, dei giovani gli procuravano vestiti e coperte, altri gli portavano del cibo.
Lui ormai non guardava più nessuno e non voleva essere guardato.
Smisi di salutarlo, poi anche di passargli davanti.


Quando ne parlavamo nei negozi ci vergognavamo: assistevamo da anni allo sfacelo di un uomo e non eravamo capaci di fare qualcosa per lui. Lui rifiutava semplicemente di allontanarsi, e dopo qualche tentativo di trovargli una sistemazione era stato dimenticato lì.
Troppo egoisti tutti: in realtà ognuno di noi sapeva quello che andava fatto.
Non chiedere per lui, ma fare direttamente, in prima persona. Nessuno di noi lo ha fatto.
Io penso anche che una società organizzata non dovrebbe proporre questo tipo di dilemma a nessuno.

Poi un giorno una troupe cinematografica si è installata nella strada. Il mio quartiere è diventato di moda, ci girano almeno due o tre film all’anno.
I cineasti si comportano come padroni, delimitano strade e marciapiedi con nastri colorati, accendono luci incredibilmente potenti, parcheggiano i loro camion di servizio con tutte le loro attrezzature lungo le vie. Bloccano i passanti per non farsi alterare il set mentre si preparano a girare.
Quella volta era estate. -Ricomincia questo strazio –pensai.
Solo la mattina dopo mi accorsi che la macchina del professore non c’era più.
Il marciapiede era pulito, e la costumista sistemava il suo trespolo con tutti gli abiti di scena proprio al suo posto.
Non so come avessero fatto, ma erano riusciti a sloggiarlo di lì.
Era accaduto che la finzione si era dimostrata più potente della realtà.
Cercammo di farci dire dai servizi sociali che fine avesse fatto, ma nessuno sapeva dirci niente. Lo dimenticammo.

Questa storia non l’ho raccontata per sgravarmi la coscienza di uno dei suoi pesi, non so bene neanche io perché l’ho raccontata, ma è vera.

mercoledì 16 maggio 2007

obdostàk

Me ne stavo tranquilla al sole sul mio terrazzo, quando ho avvertito vicino a me l’inquietante presenza di uno di quei grossi corvaccioni che ormai popolano il cielo di Roma.
Mi hanno trovata - ho pensato.
Effettivamente si erano già interessati a me trent’anni fa’ a Teheran.
Quella volta, mentre prendevo il sole sul prato ne avevo intorno una decina, silenziosi, incuriositi e a mio parere minacciosi.

Di brivido in brivido ho rivisto l’obdostàk. L’obdostàk è una creatura in fondo innocua ma cui la natura non ha concesso il dono della grazia.
Ne feci la conoscenza il mio secondo giorno a Teheran. Mi fu presentato insieme al giardiniere, dal giardiniere stesso.
Prima ancora di poterne incontrare lo sguardo compresi che Hossein non mi sarebbe stato amico.
Quando Zarà, (che in quel momento era la cameriera trovata ad accogliermi ma che sarebbe diventata una vera amica), me lo presentò, Hossein mi dichiarò subito i suoi sentimenti spingendomi fra i piedi ridacchiando un insetto mostruoso quanto versatile. –Piacere, Obdostàk- Molto lieta, Marina-
In pratica si tratta di un grosso scarafaggio color della terra, grande due volte i già ragguardevoli scarafaggi romani, capace sia di nuotare sotto l’acqua, che di volare e a grande velocità, con uno stridio metallico.
L’obdostak scava la sua tana nella terra umida e lì se ne sta tranquillo e in fondo inoffensivo. Ma, se nell’annaffiare la terra si distrugge involontariamente la sua casa, se ne risente e balzato in superficie si avventa nell’aria alla cieca.
L’incontro con l’obdostàk era ogni volta emozionante.
All’obdostàk non ci si abituava.
Quella prima volta io ritrassi appena il piede e mantenni il sorriso che avevo sulle labbra. Ero riuscita a non gridare solo perché avevo capito d’istinto che si trattava di una sfida e che con quel gesto quell’uomo mi comunicava tutto il suo derisorio disprezzo.
Lo sforzo che feci per non gridare, mentre mi sporgevo a stringere la sua mano ossuta deformata dall’artrite, non mi valse la sua stima, ma fu messo da subito in chiaro che se lui non rispettava me io non temevo lui e su questa base iniziammo e mantenemmo i nostri rapporti.
Hossein il sospettoso era il plenipotenziario del padrone di casa, un ricchissimo Bachtiari, la più potente tribù dell’altopiano iranico.
Si occupava sì del giardino ma soprattutto vegliava sulla proprietà del vecchio Bachtiar in cui ci considerava intrusi.
Quando il mio cane Buck, che avevamo portato con noi da Roma, morì, fu necessario eludere la sorveglianza di Hossein per poterlo seppellire nel giardino dietro la casa. Infatti un cane per gli iraniani è negess, impuro e il vecchio Bachtiar non ci avrebbe mai consentito di seppellirlo nella sua proprietà.
Così alternandoci alla zappa, mio marito, Zarà ed io scavammo nella notte una grande buca, (il mio Buck era un grosso pastore tedesco) che ricoprimmo poi di decine e decine di piante di menta. La mattina dopo Hossein si aggirava per il giardino, sospettoso e guardingo. Era attirato soprattutto dalla zona con le piantine di menta.
Si avvicinò alla pompa dell’acqua con l’intento evidente di verificare fino in fondo la natura della nuova piantagione.
Gli presi la pompa di mano e per distoglierlo dai suoi sospetti presi ad annaffiarla davanti a lui. Gli obdostàk che durante la notte vi avevano trovato comoda tana volavano intorno a me stridendo.
Se uno di loro avesse deciso di posarmisi sulla testa non lo avrei neanche visto: ero un impasto di determinazione, rabbia e dolore. Hossein rinculò sconfitto.

Ancora oggi, dopo trent’anni, sul mio terrazzo c’è un intenso odore di menta iraniana, pianta invincibile. Non potendo riportare Buck a casa portai con me un vaso con una pianta di menta presa dal suo luogo di sepoltura. Ho regalato menta iraniana figlia di quella pianta a decine di amici. Il mio cane Buck è un vero vagabondo.

martedì 15 maggio 2007

professò/due

Poiché sento montare una quantità esorbitante di ricordi legati alla scuola e capisco che si è aperta una voragine che dovrò colmare, desidero chiarire subito quanto segue:

Io ho fatto l'agente di viaggio e ho fatto la giornalista, ma sono stata una insegnante.
Quello che voglio dire è che non ho mai pensato di svolgere una attività, di praticare un mestiere ma di essere semplicemente e integralmente quello che facevo.
Anzi, benché in pensione da molto tempo, io ancora mi considero una insegnante. E quando sugli autobus, nelle strade o nei musei, incontro scolaresche in uscite didattiche con i loro professori, istintivamente riprendo il mio lavoro: -fai sedere quella signora,- non toccare quel quadro-, -svelti ad attraversare.. -e gli ex colleghi, grati, mi sorridono.
Loro, i ragazzi, pur non avendomi mai vista, tranquillamente accettano le mie indicazioni, insomma ci riconosciamo reciprocamente.

professò/uno

E' complicato da spiegare, ma a causa di una sciarpa di lana mi è tornata in mente la mia scuola di Artena, piccolo paese della provincia romana.
Artena si trova in una zona umida e fredda, dove però crescono splendidi lillà.
Il viale d'accesso al paese era costeggiato da alberi, non cespugli, alberi di lillà e a primavera percorrerlo era una specie di tuffo in un'estasi profumata. Alcuni di quei lillà sono fioriti in questi giorni sul mio terrazzo.
Ma la scuola era in un edificio fatiscente e la mia classe era riscaldata da una stufa a carbone (a carbone) che la bidella accendeva prima che gli alunni arrivassero e il cui camino non tirava, risputando all'interno tutto il fumo. Cosicché facevamo lezione con la finestra semiaperta. Cappotti addosso e sciarpa al collo. Ci tengo a dire che anche allora la stufa di carbone era anacronistica.

Artena è anche il paese dove un autista del pullman Zeppieri, padre di un mio alunno, accusò gli insegnanti della scuola di "rimandargli indietro i loro figli democristiani dopo che loro ce li avevano affidati comunisti" . Me lo disse durante un colloquio. A me!

E' anche la scuola dove per due anni il Provveditorato ci lasciò in balia di un preside chiaramente folle, che viveva in Presidenza perché la moglie lo aveva impeccabilmente cacciato di casa, girava il mattino per la scuola in pigiama (giuro) e in presidenza stendeva la sua immonda biancheria. Lo avevano relegato lì per fargli fare meno danni possibili. Ce ne liberarono solo dopo una quantità spropositata di esposti e lo inviarono a far danni da un'altra parte.

Sempre ad Artena un mio alunno di terza (stiamo parlando delle medie), piccolo piccolo, scuro scuro, due occhi viola che nemmeno Elizabeth Taylor, correva i 1500 in non so più quale tempo stratosferico. Vinse in seguito le regionali e mi portò in regalo la medaglia. E' tenuta da un nastro tricolore e sta nel cassetto del mio scrittoio.
E' lo stesso alunno cui il Preside, crudele ma ignaro, per punizione ordinò di fare di corsa, al termine delle lezioni, venti giri del cortile. All'uscita il mio alunno mi gridò tutto allegro- A professò, oggi mi alleno a scuola!-
Questa del "Professò", la devo spiegare.
Da quando ho iniziato ad insegnare non sono riuscita a far ammettere ai miei alunni che ero una donna.
"Professoré" sembrava loro troppo lungo e troppo faticoso. Solo quando, dopo una quindicina di anni, sono arrivata ad insegnare molto più vicino a Roma, a Marino, ho avuto la soddisfazione di vedermi restituire al mio sesso.

Marino era la scuola dove si rubava agli alunni. Si praticavano le cosiddette ore di 50 minuti. La prima ora iniziava alle 8 e 30 e terminava alle 9 e 20, la seconda terminava alle 10 e 10, poi c'erano dieci minuti di intervallo. La terza ora terminava a11e 11 e 10. Bhe, non la farò troppo lunga: dopo le famose cinque ore si usciva tutti di scuola alle 12 e 50. Cioè ogni giorno sottraevamo a quei ragazzi quaranta minuti di lezione. Protestare era inutile, tutto quello che potevo fare era piantare nel fianco dei miei colleghi la spina di quella frase "ladri di scuola". Dalla loro avevano il fatto che in questo modo si riusciva a prendere la corriera delle 13 e non servì a niente ricordare loro che la Costituzione non prevedeva che il diritto allo studio fosse subordinato all'orario delle corriere.

Marino è anche la scuola dove dovetti convocare i genitori di un alunno, particolarmente aggressivo verso i compagni, ma sulle cui braccia e gambe avevo scoperto segni di percosse. Le praticava il padre, elettricista, frustandolo con i cavi elettrici.
Quando alla presenza del Preside gli chiesi spiegazioni di tale pratica, invitandolo con il mio tono più ragionevole, ad adottare altri sistemi educativi, l'uomo afferrò bruscamente la moglie, terrorizzata, per un braccio dicendole:-andiamo via, questa è più stronza di te!-
I carabinieri, cui ci rivolgemmo, andarono a parlargli, ma furono dissuasi da qualunque intervento dalla sua minaccia di sterminare l'intera famiglia se fossero stati posti limiti alla sua patria potestà.
Ritennero che una blanda sorveglianza da lontano fosse sufficiente.
Il mio alunno veniva in classe solo saltuariamente. Quando arrivavo con la mia 500, mi aspettava fuori della scuola, mi salutava allegramente e se ne andava per i fatti suoi. Però le poche volte che vennne a scuola dopo quell'episodio non aggredì più i compagni. Aveva apprezzato il mio infruttuoso tentativo di proteggerlo.

A Marino si facevano consigli di classe sempre molto allegri, perché si tenevano subito dopo il pasto, consumato in una bottiglieria di fianco alla scuola.
Il vino di Marino è per lo più un vino di uve bianche, invece ad Olevano Romano il vino era rosso. Così non tardai a capire che quei biberon rosé che vedevo nelle mani delle mamme di Olevano contenevano un tantino di vino in acqua. La bevanda veniva utilizzata al posto della camomilla. Una di loro me lo confermò.
Ad Olevano Romano il mio collega di matematica, già dedito all’alcol di suo, si era trovato talmente bene, che talvolta dormiva in classe. Il bidello aveva ricevuto dalla Preside l’incarico di affacciarsi di tanto in tanto nell’aula, distribuendo imparzialmente riproveri violenti, agli alunni e al professore stesso.
Quando era sobrio il mio collega era un uomo squisito; faceva inappuntabili baciamano a tutte le mamme degli alunni e chiamava tutte noi colleghe “mia cara fanciulla”. Durante un consiglio di classe si allontanò per rinfrancarsi e, dimenticato, venne chiuso nella scuola. Il mattino dopo il bidello lo trovò che dormiva sui tappetini in plastica blù della pseudo palestra.

La Preside di Olevano Romano, che considerava l’etilismo una piccola eccentricità, fu inflessibile nei miei confronti e mi vietò di andare a scuola in pantaloni. Attenzione, non temeva che qualche pensiero men che filiale potesse turbare i miei piccoli alunni, ma solo che la vista di una donna in pantaloni potesse “confondere la loro visione dei ruoli sessuali”.
Verso la fine dell’anno si ruppe l’anca e ci convocò per i consigli di classe a casa sua. Ci accolse il marito, che nel servirci delle bibite, fece cadere un bicchiere. La Preside, mai Preside come in quel momento, fu definitiva:-Sei il solito inetto.-
La Preside vestiva solo gonne.



lunedì 14 maggio 2007

cosa so delle donne/uno

Le donne sono forti.
Non conosco uomini che saprebbero affrontare tutti i problemi che quotidianamente affrontano e risolvono le donne.
So bene che neanche la vita degli uomini è facile e hanno tutta la mia umana comprensione.
Ma di vita gli uomini ne affrontano solo una.
Le donne invece si battono su molti fronti e continuamente se ne aprono di nuovi davanti a loro.

Alle donne, soprattutto alle giovani donne, vorrei dire: ce la farete.
Ce l’abbiamo sempre fatta.
Siamo state selezionate per farcela.
Possiamo vincere tutte le nostre battaglie.
E ricordate che quando non riusciamo a vincerle, possiamo sempre raccontarci le nostre sconfitte.
Anche questo, gli uomini non lo sanno fare.

pardon

So che i miei post non sono esenti da errori.
Ho capito di aver scritto squash con la k, mentre dormivo, un mese dopo averlo scritto e mi sono accorta di aver scritto Vaughan con la w, solo ieri, mentre cantavo.
Cosa più grave stavo cantando il Crucifixus di Antonio Lotti!
Perciò correggetemi se vi va o abbiate fiducia e soprattutto pazienza, perché le mie sinapsi sono quelle che sono...

domenica 13 maggio 2007

help!

Qualcuno mi dica il nome del tango che fa da sigla a "Otto e mezzo", la trasmissione di Ferrara su la7.
In cambio vi regalo questi pochi versi di Mario Luzi


Tango

Poi sulla pista ardente
lontanamente emerse
la donna spagnola,
era un'ombra intangibile in un soffio
di musiche viola il suo sorriso.....



..musiche viola musiche viola musiche viola.. Come suona bene! Sembra un tango.

tempo

Dunque come sempre nella vita si trattava solo di farsi sentire!
L'osservazione appena apposta è stata regolarmente registrata, con due ragionevoli secondi di ritardo, con data e ora reali.
A ripensarci: che peccato, credevo di avere ancora tutta la notte del sabato davanti a me....

data e ora?

Osservando la data e l’ora che compare in fondo ad ognuna delle mie note ho scoperto che esse non sono veritiere.
L’osservazione fissata all’alba della domenica risulta invece scritta nella tarda serata del sabato e quella apposta nella notte del sabato risulta invece inserita nel pomeriggio del venerdì.
Questo, se non sempre, accade molto spesso.
Non ho ancora capito quale meccanismo renda possibile questo fenomeno.
Prima di venirne a capo (qualcuno con più esperienza forse potrà aiutarmi in questo) devo dire che impressione mi fa tutto questo. E’ come se quelle osservazioni mi arrivassero da un altro tempo, come se mi fossero suggerite da un passato sia pure recente.
Tho, guarda che cosa pensavo ieri..
E ieri è solo pochi secondi fa’.
Ma se pochi secondi fa’ era ancora sabato, se mentre sono le 7 e 45 di domenica, sono anche le 21 e 25 di sabato, allora significa che ho ancora uno scampolo di sabato da vivere, forse, concentrandomi molto, posso davvero vivere questa mattina di domenica come se fosse la sera del sabato, forse, nel magico mondo della rete, esiste la possibilità di rallentare il tempo e forse di arrestarlo e forse di tornare indietro e forse...
Sono indecisa se rallegrarmi, spaventarmi, protestare (con chi?), correre ai ripari (come?) o diventare inflessibile diarista apponendo data e ora al fondo di ogni mia riflessione.
domenica 13 maggio 2007 ore 8.02

sabato 12 maggio 2007

sinfonia

Le foci dei fiumi sono sorgenti del mare, ed il mare è sorgente
di nubi, e le nubi sorgenti di sorgenti. Così in sicuri
anelli intorno a noi si muovono spazio e tempo
finché domini l’eterno immutabile.

Margherita Guidacci
Le poesie
Editrice Le lettere Firenze

porta portese

Ogni città ha la sua Porta Portese, il suo cimitero degli elefanti,
dove finiscono i resti delle vite di tutti noi.
Non parlo di quei mercatini, cosiddetti di antiquariato o modernariato che spuntano come funghi nelle nostre città e dove può essere divertente passare un po’ di tempo la domenica mattina.
No, io parlo del grande mercato crudele, che tutto ingoia e tutto restituisce.
Vitale, pulsante, pericoloso. Dove gente di tutte le intenzioni ti scorre a lato e un cacofonico ampio spettro di umanità ti accoglie nell’indistinto.

Se ci si va a bighellonare, senza un acquisto preciso in mente, lasciandosi guidare dal flusso della gente e attirare qua e là dagli oggetti su cui si posa il nostro sguardo, si fanno scoperte divertenti: quel termos là di bakelite rossa, ne avevamo uno uguale in casa, ti ricordi? guarda, la stessa radio di tua mamma, guarda, sembra proprio il tuo portamatite...
All’inizio sono scoperte gioiose, poi si prova l’intensa sensazione che gli oggetti sui banchi, così simili ai nostri, siano proprio i nostri e che siano lì, esposti allo sguardo valutativo degli altri..

E infine è impossibile sfuggire il pensiero che davvero un giorno i nostri oggetti giungeranno lì, per vie che noi ignoriamo...
Infatti non dobbiamo credere che su quei banchi traballanti giungano solo oggetti appartenuti ad eredi senza cuore o senza memoria, a nipoti venali, a figli spregiudicati, a sorelle vendicative...
No, la più accurata e affettuosa conservazione degli effetti personali di un morto, lascia sempre qualche scoria, qualche cosa che ci si rigira tra le mani perplessi, di cui ci si chiede- che ne facciamo?- qualcosa magari in troppo cattivo stato per ripararla in qualche modo o inadatta a noi, ma in troppo buono stato per gettarla e che quindi si regala a qualcuno meno fortunato o qualcosa che invece si getta, proprio perché lo spazio nella nostre case è ridotto, siamo pieni di cose, perché non tutto si riesce a salvare, a conservare, perché.... per mille e un perché.

Dove finiranno tutti quegli oggetti?
La vecchia vestaglia donata ad una portiera, la portiera la conserverà per la vita? certo che no; la batteria di vecchie pentole che due giovani ragazze rumene hanno portato nella loro casa, prima o poi, andando meglio le cose per loro, passerà ad altre ragazze e poi ad altre e così via e un giorno prenderà la strada del vecchio mercato sempre affamato; i vestiti e le scarpe non riutilizzabili per motivi di taglia o di gusto e appesi nell’armadio di una vecchia cantina dalle figlie della proprietaria, i nipoti li conserveranno? O, morte anche le figlie, non affideranno a qualcuno il compito di vuotare la cantina? e quel qualcuno, non salverà quello che ancora abbia un valore venale e getterà tutto il resto?

E poi gettare nei cassonetti non garantisce la distruzione delle cose di cui ci liberiamo, oggi nei cassonetti è un continuo frugare da parte di gente che ha troppo poco e troppo bisogno, gente che un po’ usa e un po’ vende, cercando di fare il suo piccolo mercato e tutto prima o poi, trascinato da una corrente inarrestabile di caso e di intenzione, finirà lì su quei banchi...

Nessuno si illuda: la prosperità della propria condizione economica non mette al riparo da questa fine, anzi forse la rende più probabile: una cameriera, un autista, la segretaria di un ufficio, vedendosi donare qualcosa che è ormai inutile per il vecchio proprietario, la userà per un po’, ma appena potrà la sostituirà passandola a qualcun altro e così via..


Finiamo tutti lì...
Per me è impossibile andare la domenica a Porta Portese senza vedere le mie cose sui banchi, quasi fantasma osservo la mia vecchia tastiera, la chitarra, i libri, oddio, persino i libri, nella polvere e nel disordine, vedo come se li passano di mano, osservo il luccichio di interesse negli occhi degli avventori di domani, e come poi li lascino cadere, allungandosi sul banco per prendere qualcos’altro che ha attirato la loro attenzione....
All’inizio è tremendo, una stretta allo stomaco, ma io ho la fortuna di possedere una fede incrollabile nella persistenza, soprattutto nella rielaborazione, di qualunque esistente. Il gioco degli atomoi di Democrito oltre a convincermi mi diverte, non mi fa paura...
Passato il primo istante di resistenza a cedere “la roba” come il Mazzarò di Verga, entro nel gioco, volo volo volo senza più paura...
Nel tempo a venire si può volare senza rete.

E poi, gli atomi sono atomi, i miei e quelli dei miei dischi, quelli della mia gatta e quelli dello specchio della mia stanza, legno o carne, ferro o plastica, tutto, ma proprio tutto si riaggregherà.....
Chissà che belle forme prenderà la mia vecchia giacca di pelle, chissà come si trasformerà la mia racchetta da squash, chissà con chi o con che cosa, con quali altri atomi, provenienti da chissà chi, da chissà dove, si mischieranno gli atomi-marina, chissà come sarà la loro nuova vita...

Porta Portese è quanto di più vicino alla dottrina democritea io possa immaginare.
Se Democrito vi fa paura o se la vostra filosofia è meno materialista della mia, lasciate stare Porta Portese, non fa per voi.....

tu/io

Un poeta può esprimere un complicato concetto scientifico (quello dell'io opposto all'altro) con un solo verso.
"..il confine è non poter soccorrere chi s'ama".
Umberto Saba citato da Simona Argentieri.

fila 8 posto 16

Nell’ambito della seconda edizione del festival della Filosofia di Roma si è tenuta questa mattina all’Auditorium una tavola rotonda intitolata: Oltre la coscienza.
Il dibattito era condotto dal filosofo Mario De Caro e i tre relatori, tra i massimi esperti italiani di “coscienza”, erano Simona Argentieri, psicanalista, Edoardo Boncinelli, biologo e Giovanni Jervis, psichiatra.


Arrivando ho constatato con soddisfazione che gli dei erano con me, dato che il mio posto era il primo di una fila esterna a pochi metri dall’uscita.
La sala si è rapidamente riempita.
Entrati i relatori, mentre guardavo le porte chiudersi, con il solito piccolo segnale di allarme nella testa, improvvisamente mi sono ricordata che venivo sì chiusa dentro, ma perbacco, lo ero con il mio psichiatra a due passi da me! E’ stato quindi con una piacevole sensazione di tranquillità che mi sono predisposta all’ascolto.

Ed infatti eccolo là, il Professore, nella sua più classica tenuta. Descrivere il Professore senza rischiare di mancargli di rispetto è difficile. E’ un uomo anziano, molto alto, molto magro, molto curvo, ha lunghissimi piedi e mani enormi e nodose e veste, come direbbero a Parigi, come un asso di picche. Normalmente i pantaloni gli cadono addosso e vengono tenuti su da bretelle ormai ben poco elastiche, con il risultato che i polpacci restano scoperti, le camicie, con colli alti e stretti lasciati sbottonati, vengono dritte dagli anni settanta, al posto delle giacche ha giubbotti di tessuti e colori difficilmente definibili, e porta con sè le sue cose in un tascapane in tela.
E’ quasi completamente calvo e ha un viso irregolare, lungo e magro, molto ossuto, baffi scuri e spessi occhiali da miope in una grossa montatura nera degli anni cinquanta.
Se lo incontrassimo sull’autobus, cosa peraltro improbabile perché il Professore gira esclusivamente su un vecchissimo Liberty rosso, gli lanceremmo una seconda occhiata.
Al suo ingresso, mentre qualche applauso salutava lui e gli altri relatori, ha sollevato la mano in un piccolo cenno di saluto e ci ha sorriso.

Intanto anche gli altri prendevano posto e alla fine, seduti sulle eleganti poltroncine rosse, costituivano un quartetto davvero interessante. Del professore ho già detto, lasciatemi dire qualcosa degli altri.
Il neuroscienziato, Edoardo Boncinelli, benché in abiti più recenti si è presentato trasandato quanto e più di Giovanni Jervis. E’ un uomo corpulento, di media altezza, con un’aria di disordine che va dalla faccia non rasa, ai capelli scomposti, al vestito stazzonato senza cravatta, alla camicia aperta sul collo che lascia intravedere una canottiera. Si è lasciato cadere con soddisfazione sulla poltroncina allungando e allargando le gambe davanti a sè.
La psicanalista, Simona Argentieri, brillava invece per la sua eleganza. Alta e morbida, in bianco e nero, con una vaporosa ma ordinata corona di capelli biondi, ha preso posto con grazia e compostezza. Qualcosa di impeccabile e rassicurante emanava dalla sua persona e il sorriso misurato con cui ci ha salutati sembrava dire “Tranquilli, va tutto bene”. Molto professionale.
Quanto a Mario De Caro, aveva deciso di smentire tutti i luoghi comuni sui filosofi. Niente giacca di velluto a coste, niente maglioncino trasandato, niente selva di capelli disordinati, lui no, in un bel completo grigio da manager, con impeccabile cravatta rosso scuro su una camicia bianca accecante, liscia la faccia, impeccabile il corto taglio di capelli.
Quei quattri erano uno spettacolo prima ancora di cominciare a parlare.

E poi si è iniziato.
Il filosofo era il padrone di casa e ha aperto i giochi con una breve storia della fortuna dell’idea di coscienza nei secoli, dichiarando da subito come questo concetto, che le neuroscienze stanno aggredendo, sia invece ancora portante per i filosofi che solo fino ad un certo punto sono disposti a farsi da parte di fronte alla corsa tumultuosa della scienza.
Ha quindi dato la parola a Simona Argentieri. Asciutta fino alla reticenza la Signora della nostra psicoanalisi, cui piace sicuramente più ascoltare che parlare, ha brevemente ridisegnato i tre livelli freudiani di coscienza, l’inconscio, il preconscio e il conscio, preparando sì il terreno all’ironia guascona di Boncinelli (che infatti ha poi parlato di conscietto, conscino e conscione...) ma chiudendo con una piccola osservazione tagliente: ognuno di noi lì nella sala, conferenzieri compresi, era sicuro di sapere il motivo per cui vi si trovava, ma lei tendeva comunque a considerare la nostra presenza lì, in quella splendida mattinata marinara, un sintomo.
Beccatevi questo.
Nessuno di noi si è offeso, credo, riconoscendole, in cuor suo, un po’ di ragione.

La parola è passata a Giovanni Jervis e a quel punto mi sono ricordata che il Professore ha anche due occhi, piccoli neri e morfologicamente insignificanti. Ma l’intelligenza, l’acume, la vivacità di pensiero che esprimono quando parla, li trasforma in due luci sottilissime e penetranti cui sembra non poter sfuggire niente.
Il Professore, che è meglio non invitare a nessun dibattito, se non si ama essere carezzati contro pelo, ha esordito con un esempio di saggezza popolare americana, ricordando i tre consigli che una madre impartisce al figlio che va a vivere solo:
-non giocare a poker con qualcuno che si chiami Doc, -non cenare in ristoranti con la parola mamma nel nome, -non andare a letto con qualcuno più strano di te-.
A questi ha aggiunto il suo personale quarto consiglio: -non comprare libri nel cui titolo compaiano le parole ” oltre, al di là, mistero” e diserta analoghi dibattiti perché una tavola rotonda dal titolo “oltre la coscienza” è, testualmentee, “pura aria fritta”. Alé, aperte le ostilità tra lo scienziato cognitivo e il filosofo.
Con pochi asciutti esempi ci ha poi aggiornati sulle ultime certezze raggiunte dalla psicologia cognitiva nel campo della coscienza, che io riassumerò con il massimo della sinteticità: le azioni che crediamo di compiere per effetto di una decisione consapevole, in uno stato di coscienza, sono il frutto misterioso di una infinità di cause, alcune prossime, altre remote, che si affastellano o si intrecciano caoticamente.
“I nostri atti sono dovuti a fattori non consapevoli al soggetto.”
Concetti quindi come libero arbitrio o volontà o colpa escono di scena come rozzi e illusori. Sola resiste la responsabilità.

E’ a questo punto che ha preso la parola Edoardo Boncinelli che con il tono meno solenne di questo mondo, per metà scanzonato, per metà provocatorio, ha dichiarato morto ogni concetto di coscienza, parola che a lui “fa sempre pensare alle macchie di grasso sul brodo di pollo”. Benché il filosofo fosse in guardia ha trasalito, perché, guardia o non guardia, il brodo di pollo non se lo aspettava.
L’individuo è prevalentemente non cosciente dice la neuroscienza, i momenti di coscienza sono pochi e ristretti e in continua scomposizione e ricomposizione proprio come le macchie di grasso sul brodo.
La coscienza è come la strozzatura di un imbuto, in cui il grande magma dell’inconsapevole e inintenzionale passa a piccole quantità e per attimi brevissimi. Questi attimi sono stati misurati: vanno da un quarto di secondo a venti secondi al massimo. La nostra mente è l’ultima a sapere i nostri atti: ne prende “coscienza” con mezzo secondo di ritardo rispetto all’inizio dell’atto stesso.
Buttato là sulla sua seggioletta rossa e ridacchiando soddisfatto Edoardo Boncinelli non ha perso neanche per un istante la presa sul fluire del suo discorso, accompagnandolo con cifre, dati, esempi, citazioni, fatti. Ha magnanimamente concluso con un esempio riferito a se stesso, dichiarando che, pur credendo di sapere che aveva partecipato alla tavola rotonda per sottrarsi alla “insulsa” giornata pro o contro i DICO, doveva riconoscere che era del tutto all’oscuro della catena di eventi che lo aveva portato lì.

Breve il commento di Simona Argentieri: -come psicanalista ero venuta per difendere il concetto freudiano di inconscio e mi trovo scavalcata dalla scienza che dichiara che tutto è inconscio. Finirà che sarò io a dover difendere quel po’ di conscio che pure resiste nella nostra vita psichica-.
Ha così rincuorato tutti noi che cominciavamo a sentirci inconsapevoli oltre il limite dell’affrontabile.

E’ stato il filosofo a concludere, riscattando la dura sconfitta subita, (non-coscienza batte coscienza 3 a 1) con la battuta finale: di fronte alle domande intorno alla coscienza poste dal senso comune, il filosofo può solo ripetere quello che sempre dice: -la risposta è univoca : dipende-.

Nell’uscire, la soddisfazione per le due ore passate insieme a quelle menti brillanti era visibile sulle facce della gente.
Scendendo le scale, al volo ho sentito lo scambio di battute fra una ragazza e un ragazzo, probabilmente di Psicologia. -Tu credi che lo sappia? -Chi, Jervis? Scherzi, anche se la coscienza non esiste quello è cosciente di tutto!-
Non so di che cosa parlino, ma sorrido.

venerdì 11 maggio 2007

rondini

Poiché è maggio, poiché vorremmo tutti che le rondini tornassero sempre a trovarci e poiché Franco Marcoaldi è un poeta con uno sguardo acuto e una penna fluida, questa è la poesia di questo mio mattino.

Rondini in allarme

Nelle sere di maggio, quando
il sole s'arrossa nel suo lento
declino, per me si prospetta
un gradito rendez-vous familiare.
E' in arrivo la rondine, essenza
e principio dell'idea di volare.
Non v'è nulla ch'ella non faccia
volando: bere, giocare, cacciare, bagnarsi, costruire, mangiare.
Ed è ancora volando che adotta
una linea vincente di mutuo
soccorso contro il grande nemico
di sempre, l'uccello da preda.

Un grido, un allarme ed è subito
un nugolo di becchi e di artigli
che soffoca il temuto rapace,
costretto-di fronte a tante rondini
in armi-a implorare la pace.

Franco Marcoaldi "Animali in versi" Einaudi 2006

tracce

In questo periodo viene vuotata, per essere messa in vendita, la casa in cui ho vissuto dalla mia infanzia e che lasciai sposandomi.
Come è facile immaginare, questo è un lavoro doloroso, che non si fa a cuor leggero, ma in cui è possibile che si alternino lacrime e risate. O almeno, per me e le mie sorelle è così. Una è più incline al pianto, un’altra al riso, una raccoglie quello che un’altra butta, ogni tanto perplesse ci chiediamo l’origine e la funzione di un oggetto, più spesso è un coro di -Guarda! te lo ricordi questo?-
Stante la mia posizione ambigua nei confronto del ricordare, anzi nei confronti del conservare gli oggetti che possano farci ricordare, arrivate alle foto e ai documenti di famiglia, li ho affidati alle mani della sorella “piccola” che ha l’incarico di esaminarli e di conservare quello che ritiene importante. Benché io l’abbia pregata di buttare o se vuole di trattenere per sé tutto quello che abbia a che fare con me, man mano che avanza nel suo lavoro, mi consegna piccoli fasci di foto, cartoline, lettere, appunti.
E ogni volta mi lancia terribili minacce ove io osassi distruggere quello che lei faticosamente ha sottratto al caos che ogni vita lascia dietro di sé.
Non contenta, poiché ha già letto o almeno scorso ogni minimo pezzo di carta, me ne riassume brevemente la natura e lo colloca nel tempo. Riconosco che si è assunta un compito gravoso (la casa contiene le tracce di una famiglia di cinque persone dal 1940 al 2006!) e cerco di non deluderla più dell’indispensabile.
Al ritorno a casa poi, mi disfo di tutto.

Proprio di tutto no. Ho trovato un bigliettino della mia maestra delle elementari, Ida Schiatti, nel quale invoca "per me le più elette benedizioni”. Della Schiatti, come per generazioni è stata universalmente chiamata, ricordo in particolare il grosso anello, sormontato da una gigantesca pietra rossa incastonata in un groviglio libertyggiante di argento, che lei usava per colpirci sulla testa. Detto così sembra una pratica crudele, invece quei colpetti secchi in capo avevano davvero la capacità di riportare subito la concentrazione nelle nostre teste vagabonde.
La signorina Schiatti era rigorosissima nel suo insegnamento della lingua italiana e dalla sua scuola si usciva a dieci anni con la perfetta conoscenza della grammatica e una seria impostazione della sintassi. Un suo scolaro di allora potrebbe affrontare tranquillamente la stesura di una tesina liceale, almeno dal punto di vista formale e lo farebbe sicuramente con più proprietà linguistica. Liberatami di questo rospo, passo al secondo documento che ho conservato.

Porta la data dei miei nove anni e dice semplicemente: “Cara mamma, so che mi punirai perché sono tornata tardi da un posto così vicino ma Gabriella aveva tanti libri.”
Il posto effettivamente era molto vicino (il piano di sotto); sicuramente sono stati i libri a trattenermi oltre il consentito e sicuramente sarò stata punita. L’ho conservato perché mi piace il fatto che non porto giustificazioni per la mia infrazione, ma ne do solo una spiegazione che per me doveva essere perfettamente accettabile per chiunque. Mi piace anche la stoica affermazione: so che mi punirai. Avevo del carattere a nove anni.

Il terzo documento è una cartolina del luglio del ’51, a me indirizzata nella località delle Dolomiti dove ci recavamo d’estate. In essa mio padre mi si rivolge con questa domanda: -Perché non scrivi al tuo papà?-
La ragione probabilmente risiedeva nel fatto che passavo le mie giornate immemore tra balle di fieno, vitelli, boschi e prati, in un paradiso di libertà e di sogno da cui non volevo distogliermi.
Ma la domanda che mi arriva da così lontano nel tempo, risuona per me come attuale e pressante. Così ho pensato di gettare nella buca delle lettere una cartolina con destinatario ma senza indirizzo, con la risposta: -Quando potrò farlo, ti scriverò.-
E perché la domanda cominci a produrre i suoi frutti, la cartolina l’ho messa tra il computer e la tastiera, da dove anche in questo momento mi guarda.

giovedì 10 maggio 2007

U.F.O.

Borbotto, lamentandomi fra me e me per l'incomprensione di alcune amiche.
-Non lo fanno apposta. Ricordati che sei un'aliena- lancia lì mio marito.
Un'aliena.
Se mi incontrate non mancate di segnalare l'avvistamento alla Società di Ufologia.

diconondico

Dissonanze nel coro.
Un anziano tenore, nell’entrare alle prove: - Qualcuno di voi sabato viene alla manifestazione?-
Tre contralti e un soprano, vivacemente: -Noi-
Due, tre bassi di età diverse e un paio di baritoni: - Anche noi-.
Si aggiunge il giovane tenorino: - Dove ci vediamo?-
E la soprano: - Potremmo vederci all’Argentina, così prima ci prendiamo un caffè-
Insorge l’intera sezione dei bassi più l’anziano tenore: - All’Argentina?!? Ma come!? Voi non venite a S. Giovanni? Andate alla manifestazione per i DICO?!?
Contralti, baritoni, il soprano e il giovane tenorino fra lo sdegno e l’avvilimento: -Perché? voi andate al family day?!?
Sconcerto nel coro, mai così dissonante.
Come sempre è il maestro a riportare l’armonia: -Ragazzi, sabato pomeriggio tutti alle prove. Domenica c’è il concerto.-
E i coristi tornarono concertanti.

raconter

Parigi 1988. Comodamente seduta ad un tavolo del Flore. Café au lait e croissant.
Apro alla prima pagina il nuovo romanzo di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, appena acquistato alla libreria italiana di rue Varenne.
Qualcuno tamburella sul mio tavolo per attirare la mia attenzione. Mossa molto azzardata, quando mi appresto a leggere.
Un uomo grande e grosso, esuberanti capelli neri, grossi baffi, mi chiede scettico: -Le piace?-
Faccio presente che sto appunto tentando di capirlo. Ride e passa allo spagnolo. Il mio accento ha tradito me come il suo ha tradito lui.
Si sposta rapidamente al mio tavolo e parte per la più focosa, convinta e demolitrice critica dell’opera letteraria di Umberto Eco, passata, presente e futura.
Poiché non mi tocca nei miei sentimenti letterari e non ne ho di patrii, lo ascolto con interesse cercando di capire bene le sue ragioni. Sinteticamente si potrebbero riassumere così: Eco non è un narratore. Scrive storie, non le racconta e la differenza risiede nel piacere di raccontare. Il narratore lo ha, lo scrittore di storie no. Dal che risulta evidente che Eco non è un narratore. Dal che? Obietto che manca un passaggio logico. Il passaggio logico secondo lui è rappresentato dalla sua sensibilità che gli dice, senza ombra di smentita, che Eco non prova il piacere di narrare. Lui lo sente, lui lo sa. Il concetto comincia a fare breccia in me e mi chiedo se effettivamente nel leggerlo io abbia mai percepito da parte di Eco il piacere di narrare. Cavolo, no! Comincio a guardarlo con più rispetto. Nel frattempo si è preso il mio libro e allunga la mano verso il croissant. Allontano il piattino. Neanche se ne accorge perché è troppo preso con il secondo capo di accusa nei confronti di Eco. -I suoi libri non sono indispensabili- afferma. Questa mi sembra davvero ingenua. -Sono migliaia se non milioni i libri non indispensabili pubblicati in ogni tempo e in ogni paese- gli obietto- E poi, un libro superfluo per lui può contenere almeno un rigo rivelatore per me-.
Mi dimostrerà che i libri di Eco sono più superflui di altri –afferma-Mi citi un passo che l’ha commossa ne Il nome della rosa- chiede perentorio. Bhe- gli contesto- commossa no, non è scritto per commuovere. -Spaventata allora -Spaventata? No, spaventata no.-C’è almeno un passaggio che ha desiderato trascrivere da qualche parte?-
Effettivamente io ho l’abitudine di trascrivere brani che mi sembrano di particolare bellezza o risonanza, che mi parlano in modo speciale. Frugo nella mia mente. No, di Eco non ne ho trascritti mai. Al più avrò sottolineato qualche passaggio dei suoi saggi.
-Lo vede?- fa trionfante -Libro inutile- Benché colpita tento una debole difesa d’uffico del nostro scrittore del momento. -Il suo è un romanzo storico, descrive un mondo, un tempo, un ambiente e nel farlo riprende una questione..
Non faccio in tempo a finire la frase. -Una questione? Qui cara signora si sta parlando della necessità di un’opera di letteratura e non di filosofia!- Resto colpita dal disprezzo con cui pronuncia la parola filosofia. Glielo faccio notare, ma tronca la faccenda sul nascere dichiarando che i filosofi devono fare i filosofi e lasciare la letteratura ai poeti. Effettivamente anche io penso che il mondo sarebbe più ordinato se ognuno facesse per bene ciò per cui è nato, ma insomma, sperimentarsi in nuove attività resta un diritto anche dei filosofi.
Questo lo fa quasi infuriare. -No, no e poi no. Solo ai poeti è consentito scrivere letteratura e tutti gli altri quando hanno smanie letterarie vadano a baiser.- Sussulto ma ignoro. Comunque gli sfilo dalle grosse mani il mio libro e dichiaro che adesso comincerò a leggermelo con calma e se un giorno ci rincontreremo gli farò sapere il mio parere. Sembra non raccogliere l’invito ad accomiatarsi e per tutta risposta si ordina un caffè.
-Secondo lei- mi interpella- che cosa faccio io nella vita? -Vous casséz les couilles aux gens-. Bhe, se l’era voluta. Ma lui ride fragorosamente dichiarandosi d’accordo. -Io scrivo madame! Io narro. Je ra-con-te!
E che cosa scrive? Poesia? Romanzi? Entrambi. E con una insospettata urbanità mi porge la mano, presentandosi. Jorge Asìs. Argentino. Mi dichiaro colpevolmente all’oscuro della sua opera letteraria. Non sembra raccogliere l’ironia velenosa che metto nel mio tono. -Non ho niente di mio con me-dice- ma glielo farò recapitare domani stesso dal mio editore francese.- E si appresta a scrivere il mio indirizzo sul menu.
-Troppo gentile -faccio- mi dica semplicemente il titolo di un suo libro e me lo procurerò da sola-.
Si riprende il libro di Eco e senza neanche darmi il tempo di una protesta, scrive trionfante sulla prima pagina: Jorge Asìs Flores robadas en los jardines de Quilmes. Poi torna a frugarsi nelle tasche e mi porge un biglietto da visita. -Ecco, come vede non sono un Casanova.- Proprio così. Piccata lo fulmino. -Su questo non avevo il minimo dubbio-. Ma quell’uomo è inattaccabile dal sarcasmo. La sua missione è difendere la causa dei narratori, tutto il resto non conta.
Arriva il suo caffè. Ma l’invasato si alza. -Venga con me, andiamo a comprarlo. Voglio che legga il mio libro.- Punto i piedi- Non andiamo a comprare proprio niente. Lei beva il suo caffè e domani io comprerò il suo libro. -Allora lo comprerà a mie spese- e tira fuori dei franchi masticati. Quando è troppo è troppo. Furiosa, incespico sulle parole, non mi viene quella giusta -lei è un gran cafone- finisco in italiano. La parola lo colpisce, ne ignora il significato ma il suono gli piace –cafone- cafone- ripete.
Per un attimo penso di tirargli il caffè ma il piacere evidente con cui assapora quella nuova parola mi smonta del tutto. -Adesso devo assolutamente andare.- Mi alzo, si alza con me, mi tende la mano. -Prometta che lo leggerà e poi mi scriva, mi faccia sapere che cosa ne pensa- e va in cerca del cameriere per pagare. Che paghi almeno! Ma mi ha messo allegria e il pomeriggio stesso vado alla Fnac in cerca del suo libro. Non trovo il Flores robadas en los jardines de Quilmes ma ne trovo altri tre. Sono in spagnolo e nella quarta di copertina Jorge Asìs viene presentato come “uno de los autores mas notables de la actual narrativa argentina”. Ne scelgo uno con la sua foto in copertina: ha la faccia corrucciata. Starà pensando a Eco mi viene da dire. Il libro è Diario de la Argentina editado por Editorial Sudamericana Buenos Aires 1985.
Nella prima pagina si dichiara brevemente che “todo lo que se cuenta en estas paginas es un producto de la imaginaciòn lisergica del autor”. Lisergica! Ora capisco!
Ma un mese dopo, terminata la faticosa lettura del libro, sono pronta a testimoniare: Jorge Asìs è un narratore.
Quanto alla mia copia de Il pendolo di Foucault, a mio parere, la cosa migliore che c’è scritta sopra è: Jorge Asìs Flores robadas en los jardines de Quilmes.


A tutt'oggi nessun libro di Jorge Asìs è stato tradotto in italiano. Io aspetto.