lunedì 4 giugno 2007

professò/bellegra/uno

Poiché la verità va detta fino in fondo: non solo sono stata una insegnante ma sono stata anche una buona insegnante. C'è il rischio che io sia stata addirittura un'ottima insegnante.
Eppure ho iniziato senza nessuna vocazione. Avrei voluto lavorare in un giornale, ma non sapevo da dove cominciare e poi l' insegnamento era il sistema più rapido per diventare economicamente indipendente.
Ma la prima volta che entrai in una classe (Scuola Media di Bellegra, provincia di Roma, un 5 di ottobre) e vidi di fronte a me quei venticinque ragazzini con le loro facce piene di curiosità e aspettativa, mi innamorai della scuola. E di tutti loro. I miei alunni li ho amati tutti, nessuno escluso. Anche quelli che mi erano antipatici. Questo è complicato da spiegare, dovrete credermi sulla parola.
Comunque io li ho amati e loro hanno amato me. Nei ventidue anni in cui ho insegnato ho ricevuto una quantità smisurata di amore. E mi sono divertita pazzamente. Mi sono anche sfiancata di fatica malgrado quello che comunemente si crede degli insegnanti.

La mia prima scuola era a 70 km da Roma e a 500 m. di altitudine, io mi svegliavo all'alba per prendere la corriera delle 5 e 45 da Porta Maggiore. Tre volte a settimana la corriera non arrivava fino a Bellegra. Mi lasciava invece al bivio per il paesino di Roiate, e da lì proseguivo a piedi, su una salita che tagliava le gambe, per un chilometro e settecento metri.
Eravamo in due a venire da Roma in corriera. L’altra era la mia amica Nuccia, compagna di banco al liceo, compagna lungo tutta l’università ed ora collega.
Se il preside era di buon umore incontrandoci mentre arrancavamo ci dava un passaggio, se invece era irritato passava rapido sulla sua alfetta e ci attendeva sulla porta della scuola guardando nervosamente l'orologio. L’alfetta del preside era il sogno proibito che ci accompagnava lungo la salita, non solo perché ci poteva risparmiare quei millesettecento metri da percorrere con ogni tempo, neve non esclusa, ma anche perché conteneva una vaga promessa di caffé. Infatti il nostro preside ne era un adoratore e teneva sempre un pacchetto di caffè macinato di fresco sul cruscotto. Era così che profumava l’auto.

Bellegra era un paese minuscolo con una economia fatta di poche cose.
Poca agricoltura, il terreno era scosceso, allevamento di ovini e un vino molto meno buono di quello di Olevano perché i vigneti ricevevano meno sole.
I miei primi alunni erano un po’ selvatici, “ruspanti” li chiamava Nuccia, ma svegli e curiosi.
Mi portavano dei fossili bellissimi che raccoglievano portando le loro pecore al pascolo. Li ho ancora, forme di pesci, di conchiglie. Ma portavano in classe anche i pugni di ferro. Io non ne avevo mai visto uno e presto ne sequestrai una decina. Anche quelli li ho ancora. Così come ho ancora i pettini intagliati nel legno e poi dipinti che mi regalavano. Esattamente gli stessi che ho poi trovato nelle campagne intorno a Teheràn e se non sapessi la storia di ognuno di loro potrei confonderli.
Nella forra intorno a Bellegra vivevano ancora i gatti selvatici, non gatti fuggiti o spersi e tornati ad una vita vagabonda, no, proprio il felis sylvestris.
I miei alunni tentavano di catturarli, era una delle prove di coraggio per i maschi, ma non mi risulta che ne abbiano mai preso uno.

Da Bellegra veniva il mio cane Buck. Un ragazzino portò a scuola sette cuccioli, affranto dalla minaccia del padre di affogarli.
Ce ne distribuimmo sei fra colleghi e per un po’ di giorni tenemmo nella scuola il settimo nascondendolo al preside. Era tutto un cospirare, tutto un tacito discutere su una possibile soluzione.
Una mattina il preside entrò nello stanzino del bidello mentre questo dava al cucciolo della mollica di pane imbevuta di latte.
-Ma che fai? Questo cane va allattato!- E se lo portò a casa.
Il mio primo preside era un burbero benefico, era umorale, collerico, ma buono come il pane. Con o senza latte.
Aveva perso una figlia molto giovane e disse subito apertamente che io gliela ricordavo. Qualche volta mi trattava proprio come una figlia: -dove va senza cappotto-? ma lei non mangia mai a merenda? -Nelle ore di buco mi lasciava leggere in Presidenza, l'unico ambiente riscaldato; ma qualche altra volta ricordandosi dolorosamente che non ero sua figlia mi aggrediva: -che cosa fa qui? vada da qualche altra parte! Sparisca!

Eravamo tutti insegnanti a tempo determinato. Non potevamo fare più di cinque giorni di assenza per malattia in tutto l’anno scolastico, pena la perdita del posto.
Io non li ho mai utilizzati. Non per moralità ma per puro terrore.
Ogni volta che mi ammalavo pensavo che era meglio tenere i cinque giorni per un male più grave e con qualunque malanno andavo a scuola.
Tutti si andava a scuola comunque, anche in caso di scioperi dei mezzi, frane, terremoti, smottamenti, alluvioni e incursioni di alieni.
Niente mai giustificava una assenza.

E’ così che Nuccia ed io una volta arrivammo a scuola su un camioncino scoperto che trasportava del bestiame. Dietro, assieme al bestiame stesso. Faceva un freddo cane, noi ci tenevamo attaccate ai bordi per non cadere, ma nelle curve il camioncino sbandava facendoci scivolare contro le pecore. Ridemmo fino a sentirci male, ancora oggi quando vogliamo tirarci su reciprocamente basta che una dica all’altra: ti ricordi quella volta a Bellegra sul camioncino...
E’ anche così che una volta arrivai a scuola seduta accanto all'autista del carro funebre che saliva a Bellegra a prendere un morto. Eppure, mai stata viva come a quei tempi.

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