sabato 29 settembre 2007

vivere in cucina

La vita è come una polenta. Se l’acqua sul fuoco è troppa ne risulta una broda scivolosa, una pastella acquosa e immangiabile, priva di consistenza e di sapore.
Se di acqua ne metti troppo poca, ne esce un blocco pesante, grumoso, secco e viscoso, indigeribile.
Nozioni base. Chi non le sa?
Eppure evidentemente qualcuno, che poi è quello che mette l’acqua sul fuoco, non le sa.
Ma chi è che mette l’acqua sul fuoco?



La vita è come una marinata.
Puoi metterci il limone o l’aceto, il vino, la birra persino. Naturalmente l’olio. E poi un po’ di sale e qualche erba o spezia. Con lo zenzero è molto buona e anche con i semi di cumino. Ma insomma se sbagli il rapporto tra la sostanza lievemente corrosiva e l’olio, o sarà insipida o sarà acida.
D’accordo. Siamo ai fondamentali.
Ma lo sa quello che mette l’aceto?
E chi è che mette l’aceto?



La vita è come un soufflé.
Se i chiari di uova non sono montati a neve, il soufflé si affloscerà, crollerà sotto il suo stesso peso. Se le uova sono troppe e i chiari troppo battuti, uccideranno il delicato sapore del formaggio o del prosciutto cotto, e un soufflé varrà l’altro, il sapore base sarà di frittata.
Qualunque chef ve lo confermerà. Semplice routine.
Sì, ma qualcuno lo ha detto a chi batte le uova?
E poi: chi è che batte le uova?



La vita è come un Mojito. Abbondante rum cubano, qualche foglia di menta, un po’ di zucchero di canna e succo di lime.
Attenzione con lo zucchero. Se è troppo il mojito diventerà dolciastro, perderà persino il nerbo del rum e non riuscirà a sciogliersi tutto.
Ma se lo zucchero sarà troppo poco il lime prenderà il sopravvento. Il risultato sarà aspro, da brivido.
Preparare un mojito non è difficile. Si fa quasi ad occhi chiusi.
Allora perché l’addetto allo zucchero non rispetta le dosi?
Ma chi è questo che mette lo zucchero?



La vita è come qualunque altro piatto. Equilibrio, misura, niente di troppo né di troppo poco. D’accordo, conosciamo la ricetta. Ce la caviamo nell’esecuzione.
Il problema, con la vita, è capire chi è che fa le porzioni.

venerdì 28 settembre 2007

single e ansiosa





DIVIETO DI FERMATA
Vieta la sosta e la fermata o comunque qualsiasi arresto volontario del veicolo. In assenza di iscrizioni integrative il divieto è permanente. E' sempre disposta la rimozione del veicolo.

Ho deciso di chiedere il divorzio. Per addebito grave.Voi direte:- a questa età? Meglio tardi che mai- rispondo io. E poi ci sono colpe imperdonabili. Irredimibili.
Molte cose si possono tollerare, ma ho tollerato il tollerabile. Adesso basta! Come diceva la buonanima.
Ho prestato la mia 500 a mio marito, il quale è un cittadino al di sotto di ogni sospetto, automobilisticamente parlando. Io ricevo continuamente multe, prese da lui, che alle mie rimostranze risponde che i vigili sono degli..... e che sì, la macchina era in divieto, ma non dava fastidio a nessuno e sì, il semaforo era rosso, ma la strada era vuota, lui non è mica un incosciente, prima di passare guarda, lui!
Questa volta l’ha parcheggiata, come il suo solito, alla porcodinci, perché secondo lui i posti dove non si deve parcheggiare non sono quelli indicati con apposito cartello di divieto o le curve ecc, ma quelli in cui a suo dire la macchina non dà fastidio a nessuno. Infatti non si sente né dispiaciuto, né colpevole, ma arrabbiato con il vigile. Morale della favola: la mia macchina è stata portata via dal carro attrezzi e, cosa più grave, non avendo io provveduto in tempo, colpevolmente, alla debita revisione, (avevo iniziato la pratica IERI) verrà fermata, la dovrò portare alla motorizzazione e rischio di perdere punti sulla patente. Naturalmente denuncerò immediatamente che era il fellone alla guida, ma la rogna resta gravissima. Quando potrò di nuovo girare con la mia macchina? A me serve due volte a settimana per andare al coro, che si riunisce allo sprofondo. Mi farò pagare il taxi invece degli alimenti.
Sono furiosa? No, di più. Lo ucciderei? Solo dopo averlo torturato.
Intanto mi considero single.





Ad integrazione: il problema della mancanza temporanea della mia 500 è che la sola alternativa per raggiungere la sede del coro sarebbe la metro, che però per me non è un'alternativa praticabile.
E questo mi dà lo spunto per raccontarvi una piccola, recente scoperta.
Sembra che la prudenza avversativa ci salvi la vita.
La prudenza avversativa non è altro che la fobia..
O, altrimenti detto, l’ansia patologica.
Non quel vago malessere che prende tutti noi in qualche momento della nostra giornata per le più diverse ragioni o senza un’apparente ragione.
No, qui non si fanno dilettantismi. Stiamo parlando di ansia vera, senz’altri aggettivi.
E l’ansia vera salva la vita.
Può rovinartela, naturalmente, ma intanto te la salva.

Scambiare erroneamente un segnale neutrale per un segnale pericoloso (falso positivo) ha un costo infinitamente minore che lo scambiare un segnale pericoloso per un segnale neutrale(falso negativo).
(Giovanni Jervis Pensare dritto, pensare storto. Bollati Boringhieri 2007)



Se rifletterete su questa citazione vi sarà facile rendervi conto che le persone troppo ansiose, in moltissime circostanze, sopravvivono più facilmente delle persone troppo poco ansiose.
È ancora Jervis a dircelo: “Non tutti si rendono conto che, in occasione di incidenti e calamità (o anche al volante di una potente automobile) le persone troppo ansiose sopravvivono più facilmente delle persone troppo poco ansiose.”
L’ansia ci costringe alla prudenza, ci suggerisce accortezze, ci insegna protezioni e scappatoie, che il non ansioso non appronta, andando incontro beatamente al suo destino.
La mia vita è costellata di falsi positivi che dalla lettura del libro ho provveduto a rivalutare.
Ho quindi riflettuto sul paradosso per cui, mentre la fobia sembra toglierti quelle sicurezze che tutti i comuni mortali hanno, in realtà te ne dà altre non meno importanti.
Per esempio io so già di quale morte non morirò mai. Quanti di voi possono dire la stessa cosa?
Non morirò nel tunnel sotto la Manica, né in quello sotto il Gran Sasso ma, se è per questo, neppure in qualunque altro tunnel del globo, che sia più lungo di un chilometro.
Non morirò in un ascensore, dimenticata in un week end ferragostano. Non morirò precipitando nell’Oceano Atlantico con un aereo, né in uno scontro ferroviario. Non è che io voglia spaventarvi, ma sembra che i treni vantino pericolosi record di incidenti. Bhe, a me non mi avranno.
Non morirò neanche su uno di quei palazzi chiamati navi da crociera, e naturalmente neanche in una metropolitana. Nessuno avrà l'opportunità di spingermi sotto il treno. Non morirò neanche su una funivia. Se la morte voleva ghermirmi su una funivia doveva pensarci prima.
Ne ha perse di occasioni per avermi, la nobile signora!
L’aereo piccolo come un aquilone, svolazzante tra le correnti termiche dell’Hindukush, e quello formato famiglia che il comandante, come l’autista di un bus, guidò da Tozeur e Gadès tenendo disinvoltamente il braccio fuori del finestrino aperto.
Nelle opprimenti tombe della Valle dei Re, non mi coglierà alcun malore mortale, né resterò bloccata in caso di incidente nel tunnel sotto i Vosgi.
Uscitane viva una volta non vi rimetterò piede e anche questa morte è evitata.
Non che io voglia fare del terrorismo, ma la beata incoscienza con cui percorrete le vie del mondo o con cui vi chiudete in locali angusti o in ambienti le cui porte non potreste personalmente aprire, vi espone a rischi che io non corro più da tempo.
Se penso a tutte le volte che nel passato ho corso i terribili rischi che correte voi oggi, mi sento morire. Dal sollievo naturalmente.
Al termine di una manifestazione non verrò portata via in uno di quei bagni di fortuna formato supposta gigante, dimenticata a picchiare sulla porta mentre intorno risuonano slogan ed inni.
La porta rotante di una banca non diventerà la chiusura del mio sepolcro, perché avrò cambiato banca in tempo e più di una volta.
Naturalmente la vita di gente come me è costellata di piccole scomodità.
Comporta il dover improvvisare scomode e fantasiose soluzioni per esplicare le sue pratiche igieniche e nel frattempo tenere accostata la porta di quei luoghi maleodoranti che i gestori dei servizi pubblici chiamano bagni.
Comporta rischiare il collasso per fare a piedi anche sette od otto piani di scale negli edifici pubblici.
Comporta anche rischiare furti e al limite aggressioni personali piuttosto che chiudersi, la notte, in una stanza di albergo.
Comunque quando non si riesce ad ottenere in un albergo una stanza entro il quarto piano ci si può sempre consolare pensando che in caso di incendio od altra calamità si sarà tra quelli che faranno in tempo a salvarsi.
E pazienza se non vedrò mai Roma dall'alto del nuovissimo ascensore di cristallo collocato sull'altare della patria, continuerò a guardarla dal Gianicolo, all'aria a perta.
Naturalmente il rimpianto per la propria libertà di un tempo resta, in me e nella gente come me.
Gente che magari ha preso treni, navi e aerei, aerei grandi come navi e aerei piccoli come passerotti, e navi grandi come città e piccoli battelli sul cui fondo soffocante ci si ammassava in confusione.
Gente che stava bene al chiuso e all’aperto, in alto e in basso e in diagonale, che si muoveva nell'orbe terracqueo con qualunque mezzo e con la stessa tranquillità. Ma quando cambiano le carte si gioca una partita diversa.
Scusate, mi ero distratta, tocca a me?


giovedì 27 settembre 2007

fuori tempo massimo

Nei confronti di Beppe Grillo ho una prevenzione negativa che discende dal fatto che non l’ho mai apprezzato come comico e che mi ispira una antipatia di tipo irrazionale, istintiva e quindi poco affidabile. Detto questo per amore di sincerità, capirete perché mi sono astenuta da ogni giudizio sulla nota giornata del vaffa.
Ho letto sì, nell’immediatezza dei fatti, i giornali ed i commenti in diversi blog, ma, sospettosa come sono delle mie istintive antipatie, mi sono vietata di esprimermi prima di essermi fatta una opinione più documentata. Adesso credo di aver raccolto sufficienti elementi per dire la mia e pazienza se arriva un po’ fuori tempo massimo.
Ho ascoltato il comizio di Grillo dell’8 settembre prima a Matrix di Mentana e ad Anno Zero di Santoro e poi l’ho riascoltato in internet.
Beh non mi è piaciuto niente di quel comizio, né la forma né la sostanza.
L’apertura è un’affermazione violenta e storicamente falsa. “Siamo qui l’8 di settembre in ricordo dell’8 di settembre del 1943, quando l’Italia fu lasciata allo sbando dai Savoia, perché da quell’8 di settembre non è cambiato niente.” (Per inciso, Finazio, studiare la storia, come sembra che Grillo non abbia fatto, può invece essere utile, almeno a non dire castronerie.) Quel giorno l’Italia si divise in due parti belligeranti, una vera e propria guerra civile, come ormai ogni storico riconosce, che insanguinò il paese, sotto un’occupazione militare e ci vollero due anni anche di lotte partigiane ed operaie per riportare libertà e indipendenza nel nostro paese. Da quel giorno è cambiato tutto, caro Grillo, non niente! Qualcuno glielo avrebbe dovuto dire.
Ma quello che mi ha fatto sussultare è la reazione entusiasticamente convinta della platea, circa 50mila persone esplose in grida di consenso e approvazione.

Per restare al contenuto: l’idea che persone condannate, per i reati più vari, vengano accomunate nella categoria di persone prive del diritto di sedere in Parlamento, mi trova assolutamente contraria. All’interno di quell’elenco per esempio c’è Lino Jannuzzi, vecchio giornalista che nella sua vita professionale, per aver scritto sui servizi segreti cose gravi e dimostrate, ma anche cose che non in toto ha potuto dimostrare, perché costituivano la sua opinione in merito ai servizi segreti stessi, è stato condannato. Questo è un reato di opinione e che si vada in galera prima e si perdano i diritti civili poi, per un reato di opinione mi è intollerabile.
Qualcuno sempre avrebbe dovuto dire a Grillo che la sua ffermazione dal palco, che Previti ha pagato per aver corrotto un giudice(parte dimostrabile) per fare un favore al “nano bavoso, che invece è ancora là”, (parte che non riuscirebbe a dimostrare), lo potrebbe in caso di processo mettere nella stessa identica situazione di Jannuzzi. Condannato per un reato di opinione e non elegibile.
Come ogni altra generalizzazione, questa dell’elenco è cieca, sciocca e pericolosa.
E qui passo alla forma. Ho trovato bruttissima la gogna sul grande schermo, la lettura di quell’elenco di nomi (per nessuno dei quali provavo particolare simpatia, anzi) gridato dal palco, accompagnato da un commento irridente, mentre sullo schermo passava la relativa foto e Grillo e la folla al seguito gli lanciava il vaffanculo.
Torno al contenuto. La proposta di legge di iniziativa popolare. Sul punto dei due mandati mi trovo in disaccordo. Anche qui è la generalizzazione che è pericolosa. Ci possono essere parlamentari che sarebbe bene tenerci nel nostro Parlamento finché ce la fanno. Di questo tipo ne abbiamo avuti talmente tanti nella storia della nostra repubblica.
Qualcuno potrebbe obiettare che quelli di oggi sono diversi. A parte che nel parlamento siedono anche persone serie e preparate ed oneste, magari poche ma ci sono, siamo anche noi che siamo cambiati, in peggio come i nostri parlamentari e noi ce li abbiamo mandati.
Questa mia affermazione viene negata da Grillo perché le liste bloccate hanno impedito a noi cittadini di scegliere all’interno della lista proposta dai partiti.
In molti casi sarebbe bastato votare per un partito diverso o, trovando ripugnanti tutti i candidati, non votare. Ciò non toglie che la modifica di questa parte della legge elettorale è l’unico punto per il quale la raccolta delle firme mi sembra sensata.
Ogni tanto qualche cosa di sensato Grillo l’ha detta, secondo me, cose pratiche (l’importanza dell’open source, la de-privatizzazione dell’acqua,il rispetto delle sentenze della Corte Costituzionale su Rete Quattro).Purtroppo però, quello non era il fulcro del discorso, ma erano cose che venivano dette così, en passant.
Il fulcro era un altro, era il disprezzo e il discredito su tutta la classe politica, indiscriminato e per ciò stesso secondo me preoccupante.
Ad un certo punto i suoi bersagli sono state le vecchie storie sui socialisti di venti anni fa (che coraggio a gridarlo ora!) e se l’è presa con De Michelis perché non è morto al posto di Pavarotti. In questa fase ha fatto un’altra di quelle affermazioni, che costituiscono la sua opinione e che in un tribunale non potrebbe dimostrare, come nessun pm infatti è riuscito a dimostrare e che potrebbero costargli una condanna e l’esclusione dal Parlamento.
Quando ha detto che Amato questo nano faceva il cassiere del partito socialista.
Vorrei chiarire che né Jannuzzi, né Amato, né De Michelis né gli altri vaffanculati godono della mia stima né della mia simpatia.
Un’altra cosa che non mi è piaciuta è stato veder criticare, attaccare e deridere la gente per le sue caratteristiche fisiche, né se si tratta del nano bavoso né se si tratta di prozac prodi né se si tratta di Amato nano. Non mi piace all’interno di un discorso politico, per il resto le trovo frasi perfettamente legittime anche se poco divertenti.
Non mi è piaciuta neanche questa divisione tra i buoni, gli onesti, i puliti, i democratici, raccolti su quella piazza e attorno ai banchetti delle firme e tutti gli altri, corrotti, antidemocratici, parassiti.
Questa è una nuova Woodstock ha gridato, solo che questa volta i drogati ed i figli di puttana sono dall’altra parte. Il che, se ho capito bene, significa che a Woodstock a radunarsi erano drogati e figli di puttana.Anche il modo di dire drogati, non mi è piaciuto. La folla entusiasta ha applaudito e gridato.
E non mi sono piaciute le frasi di autoesaltazione. So che si usano nei comizi per galvanizzare gli animi, ma li trovo un pessimo artificio retorico se nel popolo sulla piazza non c’è una maggioranza di presenti con una stessa identità politica sociale, perché in tal caso ci si galvanizza intorno alla frase più a effetto, non sorretta da una qualche convinzione forte di fondo.
Frasi come dovranno dar conto a noi o anche sono finiti, ormai ci siamo noi mi ha portata a chiedermi: Noi chi? chi sono quei noi? cosa li accomuna? Quale progetto politico, quale idea di società? Senza queste cose, senza almeno una di queste due cose, siamo alla “qualunque” e la qualunque mi inquieta. Gridare noi sulla base solo di un rifiuto dell’esistente, non mi piace affatto.
Ancora una piccola osservazione sui contenuti.
Ad un certo punto ha auspicato la fine dei giornali, gli attuali perché mistificano e mentono, e in generale proprio la stampa, perché “verrà spazzata via dalla rete.”Evidentemente Grillo pensa che nel nostro paese la maggior parte dei cittadini ha dimestichezza con questo mezzo. Lo immagina attaccato in rete tutto e sempre. Ho pensato all’analfabetismo di ritorno nel nostro paese, alla bassa scolarizzazione, all’evasione scolastica, all’impoverimento della cultura di base, al fatto che, rispetto al 1975 il numero di parole che costituiscono il linguaggio di un giovane sono diminuite del 35%. Dov’è questo paese così avanzato che lui descrive e cui si rivolge? Pensa che tutti coloro che non leggono i giornali non li leggano perché si informano in rete? Ma dove vive Grillo? mi sono domandata. A chi parla Grillo?
Ho trovato molto interessante l’articolo di Ilvo Diamanti su La Repubblica. Dalla sua analisi risulta che i seguaci di Grillo sono per lo più persone con studi superiori.
Dei 300.000 firmatari della proposta di legge popolare il 58% sono persone di sinistra e centrosinistra, solo il 30% si dichiara di destra. Di quel 58% una parte consistente, scusate non trovo il dato sul momento, ma lo cercherò, proviene dalla sinistra radicale. E questo mi preoccupa ancora di più. Che Grillo sia riuscito a dirottare verso forme di protesta generica, perché generalizzata persone la cui radicalità è stata volta fin qui in direzione di concretissimi interventi sulla realtà del nostro paese, mi sembra un bruttissimo segno. Uno scadimento.

Per concludere dirò la mia impressione più generale, meno analitica: è stato uno spettacolo orribile. Mi è sembrato di assistere ad un varietà di seconda categoria, con battute di terzo ordine, che avesse come tema centrale la politica, e lo trattasse mettendo insieme tutti i luoghi comuni possibili per accattivarsi il pubblico e strappare l’applauso. Ho avuto netta la sensazione che la realtà venisse tagliata a grosse fette, così come viene viene e come fa più casino. L’oratore era un invasato, un esagitato, colto in un accesso di autoesaltazione, un incrocio tra il Savonarola e il primo Bossi, uno che allisciava il pelo alla gente per portarla ad applaudire e 50.000 applaudivano.
L’invito a strappare la politica dalle mani dei politici di professione e a riprendersela, meritevole di per sé, era di un tipo ingenuo e falso. La politica la facciamo noi sugli autobus, in fila a i senafori, al supermercato.
Io prendo gli autobus e vado al supermercato e la sento la politica che viene fatta in questi posti. Dicono, è vero, le stesse cose che dice Grillo. La delusione, il disgusto e il disprezzo per la classe politica sono diffusi e vengono espressi nelle stesse forme generiche e prive di distinguo che usa Grillo. L’unica differenza tra la linea 85 e il comizio di Beppe Grillo è che sull’autobus nessuno applaude.
Grillo ha captato l’umore diffuso di delusione e condanna verso la classe politica e lo ha trasformato in spettacolo e gogna. Questo mi preoccupa.
Intercettare umori anche violenti della cittadinanza va bene, ma vanno riportati a ragionamento e discorso, altrimenti sono gli umori che guidano la politica o chi li sa usare. E invece di avere politici migliori che portano verso soluzioni accettabili e condivise le istanze politiche, avremo umori che ci guideranno. Verso cosa?
Tutto questo che dico non è in alcun modo la difesa di nessun uomo politico. Sono delusa e arrabbiata anche io. Non sopporto la autoreferenzialità di gran parte dei nostri politici, il loro occuparsi essenzialmente dei loro giochi di potere, la mancanza di sobrietà e buon gusto, la loro presenza ossessiva e nulladicente sui nostri teleschermi e potrei continuare....Ma non farò di tutt’erba un fascio, perché il risultato può essere che si faccia davvero un fascio.
Gaber cantava che la libertà è partecipazione. Mi è sempre piaciuto molto questo verso. Mi domando oggi: partecipazione a che?


mercoledì 26 settembre 2007

il loto d'oro

Ci sono giornate così: solo umor nero e poesia. E la seconda fa compagnia al primo. Lo lenisce? Non sempre, ma lo specchia, lo
contiene e lo svela. E lo restituisce meno singolo, meno individuale.
Dire che voglio bene a Sylvia Plath, può sembrare ridicolo. Eppure non saprei come altro spiegare il mio sentimento. Quando diciamo che amiamo un poeta o uno scrittore, diciamo che amiamo la sua opera, che essa ci ha parlato e che la sentiamo vibrare dentro di noi. Ma capita che alcuni autori riescano a farsi amare da noi anche come esseri umani e che la loro arte, qualunque essa sia, non si separi mai dentro di noi dalla creatura, in carne ed ossa, che ce ne ha fatto dono. Mi sembra si possa dire che a questi artisti vogliamo bene, perché un affetto fatto di vicinanza e confidenza ce li fa sentire come un amico, come una creatura tra le altre che frequentiamo, anche se è vissuto sotto altri cieli e in altri tempi. Con Sylvia Plath per me è così.






Io sono

Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
così da poter brillare di foglie ad ogni marzo,
né sono la beltà di un’aiuola
ultradipinta che susciti gridi di meraviglia,
senza sapere che presto dovrò perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero è immortale
e la cima d’un fiore, non alta, ma più clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.

Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo, ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo più perfetto
-con i miei pensieri andati in nebbia-.
Stare sdraiata è per me più naturale.
Allora il cielo e io siamo in aperto colloquio,
e sarò utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.




Anche tra le fiamme più furiose il loto d'oro può essere piantato

tradurre senza tradire

Sul post di ieri ho sostituito la traduzione di Autunno di Emily Dickinson con una molto più bella, della mia amica Mariateresa, traduttrice ma, soprattutto, persona di grande sensibilità.
La riporto qui perché i versi hanno acquistato grazia, come tutto quello che Mariateresa tocca.


Sono più miti le mattine
e le noci abbrunano.
Le bacche hanno guance più rotonde.
La rosa è fuori città.

L’acero indossa una sciarpa più gaia,
i campi una gonna scarlatta.
Per non essere fuori moda
anch'io metterò un bijoux.

(traduzione di Mariateresa Barbieri)

dai e dai

Lo so , l'ho capito benisimo, che non amate la poesia. Ma, un verso oggi, un altro domani, riuscirò a farvela amare.
Questa mattina mi ha presa per mano Margherita Guidacci, che avete già incontrato sul mio blog, perché è una poetessa che amo molto.



La prima poesia di questa mattina dipinge perfettamente, secondo me, certi momenti tristi, o anche solo scontrosi, che tutti conosciamo. Quando stare con gli altri ci pesa e ci pesa anche stare soli.
Margherita Guidacci ha rintracciato questo momento in una situazione particolare. Era in una clinica psichiatrica ed esitava tra il bisogno di incontrare una persona cara e il desiderio di restare chiusa nel suo dolore e nella sua solitudine.
Come succede sempre però, ognuno di noi può scorgere in questi versi il disegno esatto di un suo stato d'animo.
Io ho il mio riferimento, ma non ve lo dirò. Quando si tratta di poesia sono molto riservata.


....La porta oscilla nei due sensi,
sempre sulla medesima tristezza
e tu non sai se la vuoi aperta o chiusa:
tu cui la solitudine
è la peggiore compagnia
come la compagnia
è la peggiore solitudine.


La seconda poesia, sempre di Margherita Guidacci, è stata scritta però in un periodo diverso della sua vita.
Si rivolge ad un uomo, famoso poeta anche lui, lontano da lei, sia nello spazio che nella relazione.

Lascia sia il vento
Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d' ogni immagine,
che l'uno all'altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.

Se volete leggerla come una storia d'amore, sappiate che ha avuto, ma temporaneamente, come sempre accade negli amori, un lieto fine.

martedì 25 settembre 2007

giorno, mese, anno, secolo

Riflettendo sul mio tempo, questi due secoli a cavallo dei quali sono vissuta e ancora per un po’ vivrò, ho scoperto che il mio tempo mi sta bene.
Forse per mancanza di immaginazione, non mi vedo vivere in nessun’ altra epoca. Certo qualche cosa dei secoli passati mi piacerebbe avere sperimentato, qualche avventura avrei voluto viverla, qualche figura avrei voluto incontrarla.
Ma si distendono in secoli diversi e, a meno di sognarmi immortale, e certamente non è così, trovo che dovendo scegliere un unico tempo, il mio mi sta più che bene.
In questa convinzione, una parte grandissima ce l’ha il fatto che sono una donna ed è stato il mio secolo che ha sottratto la donna alla sua invisibilità sociale e alla sua schiavitù privata. Almeno in parte, sento di dover aggiungere, e almeno in alcuni luoghi.
Chiarito questo, restano, come dicevo, alcuni brividi nell’evocare periodi storici anche molto lontani. Ad esempio mi sarei vista volentieri a combattere con Simon Bolivar per la liberazione del continente americano. Avrei cantato: Simon Bolivar, Simon, razon del pueblo profunda.... Lo so che sono gli Inti Illimani, ma forse questo verso lo avrei scritto io, fantasia per fantasia, chi può escluderlo?
A proposito di Simon Bolivar: intorno ai ventidue anni, credo, sono stata in Venezuela e a Caracas, sua città natale, ho toccato con mano il culto straordinario che che vi si porta al Libertadòr.
Gli è dedicata una delle più belle piazze della capitale venezuelana, e al centro del giardino c’è una splendida statua equestre di Bolivar. Il cavallo s’impenna e il Bolivar, testa scoperta, guarda lontano con uno sguardo imperioso. Fin qui siamo nel classico, direi, di un monumento dedicato ad un eroe nazionale.
Ma quello che c’è di straordinario è che gli uomini che attraversano quella piazza, debbono (o almeno lo dovevano intorno al 1965) indossare la giacca, in segno di rispetto.
Nella mattinata soffocante per il caldo, io notai questo strano traffico di uomini che s' infilavano la giacca, o si toglievano la giacca, al margine della piazza e ne chiesi spiegazioni al caraqueño che ci accompagnava. Fu lui a illustrarmi la regola rigorosa che nessun uomo si sarebbe sognato di infrangere.



Anche al Gianicolo c’è un bel monumento equestre, quello di Garibaldi, meno magniloquente, perché il cavallo è fermo, ma l’Eroe dei Due mondi porta il suo bel poncho e, naturalmente, anche lui guarda lontano. Ciò nonostante nessun romano, né negli anni sessanta né tanto meno oggi, si sognerebbe di mettersi la giacca per passargli davanti.
Un altro bel monumento equestre dedicato a Simon Bolivar si trova a Parigi, sul Lungosenna di fronte alla spianata des Invalides ed io, che vi portavo il mio cane Orso ogni mattina, avevo il mio daffare per evitare che lo screanzato lo battezzasse irrispettosamente.
Va beh, passons...
Oltre che combattere con Bolivar mi sarei occupata volentieri della biblioteca di casa Leopardi a Recanati. Per Giacomo poi, avrei fatto qualunque altra cosa.Se mi avesse consentito di vederlo scrivere, magari di leggere le sue cose o di copiargliele, e di ascoltarlo parlare dei suoi zibaldoneschi pensieri, gli avrei stirato le camicie, lavato le canottiere e, gobba o non gobba, lo avrei amato.
Anche per questa esperienza sono nata troppo tardi.



Mi sarebbe anche piaciuto essere la governante di Emily Dickinson, areare la sua stanza, coglierle i fiori in giardino, fare per lei tutte le piccole commissioni che, reclusa in casa per decenni, non poteva sbrigare personalmente.
Ma anche qui, too late...



Insomma, sogni e fantasie a parte, questo XX barra XXI secolo mi stanno bene.
Mi sta bene anche la mia data di nascita, il primo di ottobre.
Mi sta bene il primo del mese. Sono una persona ordinata, cominciare con ordine mi tranquillizza. Niente scampoli, resti, riporto di..
Primo del mese e vai.
Mi sta bene l’ottobre. Bel mese. Nella mia città poi è semplicemente splendido. Le ottobrate romane sono state descritte da scrittori di mezzo mondo e di tutti i tempi.
E poi l’autunno mi piace.
I suoi colori, i suoi sapori.
E il riprendere le attività dopo l’estate sonnolenta.
E’ un mese vitale come sono io. Va bene, mi sono un po’ allargata.
Ma è anche un mese appena pungente di malinconia, e un po’ pensoso. Come sono io. E qui ci siamo.
L’autunno è una stagione molto utile, molto comoda per chi scrive.
Fornisce tante di quelle metafore! Ma a me sembra che i poeti non l’abbiano trattata proprio bene. Sì, ci sono alcuni bei versi sull’autunno, ma meno di quanti ne meriterebbe, secondo me.

Naturalmente c’è

Les sanglots longs
des violons d’automne
blessent mon coeur
d’une langueur
monotone....
di Verlaine

e

Autunno, già lo sentimmo venire
nel vento di agosto
nelle piogge di settembre
torrenziali e piangenti...
di Cardarelli


Ma almeno un piccolo capolavoro l’autunno lo ha meritato. È una poesia della mia amata Emily Dickinson e questa la trascrivo tutta.




The morns are meeker than they were.
The nuts are getting brown.
The berry’s cheek is plumper.
The rose is out of town.

The maple wears a gayer scarf,
The field a scarlet gown.
Lest I should be old-fashioned,
I’ll put a trinket on.


Sono più miti le mattine
e le noci abbrunano.
Le bacche hanno guance più rotonde.
La rosa è fuori città.

L’acero indossa una sciarpa più gaia,
i campi una gonna scarlatta.
Per non essere fuori moda
anch'io metterò un bijoux.

(traduzione di Mariateresa Barbieri)

Tornando al mio tempo, avrei qualcosa da ridire sul decennio. No, non per il motivo un po’ banale che mi piacerebbe essere più giovane. Cosa che comunque non è così vera come si potrebbe credere. Questo lancinante rimpianto per una nascita più tardiva, mi coglie solo quando incontro per le strade romane queste giovani donne in giacca e shorts, veri mini-tailleur!
Che già ai famosi “miei tempi” avevo sognati e immaginati, ma che erano ben al di là di essere ipotizzati dai nostri couturiers e che, se io avessi voluto audacemente introdurli, come pure mi passò per la testa, mi avrebbero fatta qualificare donna di malissimo affare. Una svergognata, diciamolo pure. Ecco, questo davvero mi fa rabbia. Vorrei fermarle, una per una, e dir loro: "Guarda carina, che questo disinvolto modellino l’ho pensato io negli anni sessanta e solo a causa della sorte malvagia e ria non ho potuto indossarlo e, senza offesa, credi: lo avrei indossato moolto meglio di te!"
Invece taccio, mastico amaro e naturalmente tiro innanz...

lunedì 24 settembre 2007

arrivare ad Herat

Salta un battito il mio cuore quando la parola Herat viene pronunciata.
E la nuvola del sogno si posa su di me. L’arrivo ad Herat si ripete nel mio ricordo, continuo da sempre ad arrivare ad Herat e l’emozione palpita nella mia gola.
Attenti, perché Herat non si vede, potreste superarla, dicevano tutte le guide.
E’ vero: Herat giace, non si erge, giace nella pianura desertica e nel passato.
Io sto ad occhi spalancati, fremente. Ci siamo lasciatia alle spalle la frontiera afgana e corriamo da un’ora, sulla strada dissestata, nell’ocra e nella polvere.
Siamo attenti e silenziosi. Poi l’ocra si fa verde ai lati della strada, verde brillante e intenso. Il grano si piega e ondeggia. Dopo tutta quell’aridità, quella secchezza disperata, il verde del grano è come una carezza, come un bacio sulle palpebre.
Siamo vicini, vicini. Su una curva una vecchissima pompa di benzina di quelle a mano e accanto una stradina di terra rossa che piega verso destra. La imbocchiamo come chiamati, è qui, deve essere qui.
La stradina si allarga, diventa un viale e il viale ad un certo punto è fiancheggiato da pini altissimi. Sono maestosi, si allineano in due file per lato, nascono direttamente dalla terra rossa e soffice, sulla quale le ruote della macchina affondano un po’, incipriandosi.
Poi appare la prima casa. Mura di terra e paglia, lavorate a disegni geometrici, colorate di turchese e rosa spento. La terra è ancora terra rossa, non c’è asfalto ad Herat. Le case basse, si susseguono. Nell’aria si sente l’odore dei pini e gli uccelli che curiosano sulla strada si sollevano in volo davanti a noi. Due mucche bevono nel djub.
Poi cominciano ad apparire le prime persone: uomini nei larghi pantaloni verdi, lilla, marroni, bianchi, pedalano lungo la strada. Il viale corre per diversi chilometri, tra i pini e le case basse. Man mano che avanziamo, nel silenzio tranquillo si intensifica la presenza di uomini e bambini su asinelli che trotterellano. Ancora non abbiamo incontrato neanche una donna. Gli uomini si girano a guardarci mentre avanziamo a passo d’uomo, ci salutano con un gesto della mano, ci sorridono. Accolti da quei sorrisi, da quel silenzio, dal primo illanguidirsi della luce del sole, penetriamo nella città. È tutta così Herat, viali di terra rossa scanditi dai pini solenni, niente luce elettrica nelle strade e niente asfalto, non il più piccolo tratto asfaltato, e sulle porte delle case lumi di petrolio appesi. Nell’aria l’odore di resina e di ginestra e quello di legna fresca. Cataste ordinate stanno accanto alla case. La gente si muove a cavallo, sugli asini o in bicicletta. Le case sono di fango e paglia, piccole o grandi, modeste o lussuose, decorate con arabeschi complicati o versetti del Corano o con semplicissimi fregi, tutte fango e paglia. Al secondo piano hanno verande aperte, che aggettano sulla strada, sono senza vetri o imposte e uomini e donne guardano in giù, sulla strada, bevendo il tè e conversando.
Grandi drappi di stoffe colorate avvolgono i pali di legno che sostengono le verande, e si agitano fluttuanti nell’aria. Si sta facendo sera, ma è una sera come un’alba: una luce dolce, morbida, colpisce la leggera polvere rossa che si solleva da terra. Ogni tanto i viali sono interrotti da picccole piazze che hanno al centro un giardino di un verde brillante e uomini e donne siedono sulle sedie di casa e parlano.
Il solo mezzo di trasporto pubblico che si scorga sono le carrozzelle, condottte da cavalli infiocchettati e decorate con decine di campanellini tintinnanti. Sulle carrozzelle viaggiano le donne, dietro le grate dei loro burqa gialli, viola, verdi, rossi e si girano a guardarci bisbigliando tra di loro. Ad un tratto un cavaliere passa al galoppo, sollevando la terra rossa. Cavalca a pelo. L’uzbeco dal berretto multicolore continua a passare al galoppo accanto a me, e io continuo a seguirlo con lo sguardo. Da trent’anni lui galoppa e nel superarmi si piega un po’ sul collo del cavallo e volge indietro il capo a guardarmi. Da trent’anni io lo seguo con lo sguardo.
E sto ferma di fronte alla Moschea del Venerdì. Immensa, solenne, posa direttamente sulla terra rossa e rifulge di verde e turchese. In cima al minareto volto ad occidente, brilla un fuoco. È scesa la sera e poiché la vita è buona, nel cielo azzurro fondo di Herat, la luna si è alzata. La vela appena il fumo che si alza dai camini a legna.
Da trent’anni continuo ad arrivare ad Herat e mi fermo davanti alla Moschea e la guardo con gli occhi sgranati di un bambino e l’emozione è tale che mi porto una mano al seno a contenere il cuore.



La guerra strappò Herat al secolo diciannovesimo in cui allora viveva e la fece approdare nel nostro tempo. Un secolo vale l’altro, lo so, non esistono le età dell’oro, il dolore, l’ingiustizia, la violenza, rotolano attraverso i secoli e attraverso le regioni del mondo. Herat non era l’Eden. L’Eden non esiste, lo so.
Ma mi concederete che esistono momenti speciali, piccoli miracolosi momenti, in cui elementi diversi si accostano e si compongono, e stanno là in equilibrio perfetto, in una nicchia protetta del tempo.
Chi ha vissuto uno di questi momenti non li dimenticherà mai e li chiamerà con il solo nome appropriato: felicità.

domenica 23 settembre 2007

lo specchio

Piroetta, piroetta, piroetta. La figura ruota nello specchio e la lunga gonna di raso lancia schegge di luce. Sprofondato nella poltrona il professore la contempla soddisfatto, come l’avesse creata lui.
E in fondo è così. Razzolava sull’isola, scroccando cene e brevi soggiorni nelle belle case sul porto. Poi spariva negli inverni romani. Per ricomparire ai primi di giugno, appena gli aliscafi riprendevano le loro corse.
Vendeva i frullatori Bimby nelle case, ma questo non lo sapeva nessuno dei suoi amici estivi.
Lui invece lo sapeva ma a lei non lo aveva mai detto. Avrebbe dovuto confessarle di aver chiesto un dettagliato rapporto su di lei, alla più capace delle agenzie investigative di Milano.
Innamorarsi di una ventiduenne senza origini certe, era un conto, ma portarsi in casa che so, una troietta, magari malata, tutto un altro.
Capriccio, la chiamava tra sé e sé, ma la verità era che lo faceva star male solo con uno sguardo. Sua moglie, cioè, la ex moglie, era stata perspicace come sempre, la schifosa: “Hai perso la testa, va, quella di te ne fa polpette”.
E invece no, lei non chiedeva mai niente, era sempre pronta a seguirlo ovunque, lo aspettava in casa anche per giorni, quando lui era all’estero e mai una volta che l’avessero sorpresa con un altro. Perché, certo, almeno i primi tempi della loro relazione, la sorveglianza era continuata. Beh, era il minimo della precauzione, a dimostrazione che era meno fesso di quanto sua moglie, cioè, la ex moglie, credesse.
Sorrise soddisfatto, mentre lei ancora piroettava e poi gli si buttava addosso, nell’entusiasmo per quel vestito da sera.
Lo avrebbe indossato nella festa sullo yacht. Festa di fidanzamento, sì. Lui lo aveva deciso all’ultimo momento: era ora che la vedessero tutti, il periodo di prova era finito e che crepassero di invidia. Parleranno, certo, altro che! parleranno e sparleranno, ma intanto eccola là, ventidueenne e roba sua. Con quel seno così eretto, quella dolcezza nella pelle e quel modo di fare sesso, ridendo, come un gioco. Parlate, parlate pure. Io la mia perla l’ho trovata e me la tengo. Si alzò, con un sospiro di soddisfazione. Ancora agile, ancora fermo. Sessantasei ma portati molto bene. Non sfiguravano insieme. Anche se Delia, sua figlia, era stata velenosa: "Non sembra tua figlia, sembra la mia". Del resto, era comprensibile. Si preoccupava per la sua posizione di figlia unica. "Ti scodellerà mica un figlio, quella"? L’aveva tranquillizzata. Niente figli, quella fase della vita era passata. Adesso voleva godersela. Alla faccia di tutti, colleghi e amici. E della moglie, cioè, ex moglie.
Tre mesi dopo erano sposati. "Non voglio feste e cazzi vari- lui le aveva detto e lei tranquilla: "Va bene, che m’ importa?" Si erano sposati a Trevignano, in Comune, testimone per lui la sua segretaria, per lei il fratello. In viaggio di nozze erano andati a New York. Le trasvolate ormai lo stancavano un po’, ma lui aveva voluto portarcela lo stesso. New York era la città adatta a lei, vitale e frizzante proprio come lei. E vederla felice era diventato il suo unico obiettivo. Non la chiamava più “capriccio”, ma “pupina”. Gli era uscito una sera, così, dopo aver fatto l’amore, in un momento di tenerezza e di gratitudine. E Pupina aveva sorriso e lo aveva spettinato.
Tornati a Roma la vita aveva ripreso i suoi ritmi di sempre. Lo studio, i congressi, il poker. Ma tutto quello che lo allontanava da lei lo infastidiva. L’ex moglie, sì esatto, l’ ex moglie, lo aveva incontrato in aeroporto. "Ma sei un cencio- gli aveva detto la maledetta. "Arranchi, eh?" Che stronzona! e poi che credeva, di essere rimasta uguale, lei? Lifting o non lifting, era andata. Glielo disse: "Sei andata e non solo di testa". Ma lei aveva riso: "Sì, andata, ma almeno non mi devo guardare le spalle."
Questa cosa del guardarsi le spalle non gli era piaciuta. Lei aveva sempre avuto la spiacevole caratteristica di arrivare a capire le cose prima di lui. Il crollo delle Parmalat a lei non l’aveva fregata, ed era stata lei a metterlo in guardia su Federici, quella piccola cimice arrivista del suo aiuto, quando tentò di fargli le scarpe.
Così ogni tanto ci ripensava: che voleva dire con questa storia del guardarsi le spalle? Fu preso dalla tentazione di richiamare quelli dell’agenzia investigativa, ma scacciò l’idea. Anzi la trovò ripugnante. Pupina gironzolava per boutique, parrucchieri, aveva un paio di amiche tra quelle che una volta l’accoglievano nelle loro case sull’isola. Ci teneva a fare lei la padrona di casa, adesso, e lui era contento. Niente di più, lo sapeva, era sempre a casa al suo ritorno. Guardava un po’ di televisione. Le piaceva il tennis. Stava prendendo lezioni. E andava in piscina. Ma la accompagnava ovunque l’ autista e aveva l’ordine di aspettarla. E poi quasi sempre c’era anche sua figlia Delia. Frequentavano lo stesso circolo. Figuriamoci se sua figlia non la teneva d’occhio. No, la vecchia strega era gelosa, ecco tutto. Sorrise soddisfatto. La vecchia è sola, pensò e io ho una moglie giovane e bella. E innamorata. Sì, innamorata, perché no, dopo tutto? Era ancora un bell’uomo, elegante, un po’ appesantito forse, ma insomma, la sua parte ancora la faceva, no? Davanti allo specchio si dette qualche piccolo schiaffetto sulla guance prima di raggiungerla nella sua stanza. Era solo per sentirsi più sicuro che prendeva il sildenafil, solo una piccola garanzia in più ecco. Aveva cominciato a prenderlo all’inizio della loro relazione, quando era più incerto e non voleva correre il rischio di qualche fiasco ed ora continuava, così, per non scadere nelle sue prestazioni. L’aveva abituata bene, pensò con un risolino. Forse avrebbe potuto diminuire un po’ le dosi, non che ne facesse un uso spropositato, ma quei piccoli fastidi erano seccanti. La vampa che lo avvolgeva dal collo fino alla testa, quel rossore, che lo imbarazzava anche. Ma lei rideva, lo prendeva in giro. "Diventi tutto rosso!" Piccoli inconvenienti, niente di grave, e ne valeva la pena, quella picola peste era imprevedibile, le scappavano voglie improvvise. Sorrise, indulgente e orgoglioso insieme. Evidentemente le piaceva, no?
Ma lui non esagerava nell’assunzione, no, del resto stava bene, in perfetta salute, si controllava periodicamente, tutto a posto. Si sorrise nello specchio, ammiccando a quel se stesso così accorto e così fortunato e prima di spegnere la luce buttò giù le due pillole azzurre.
Lo trovò una mattina la cameriera, un po’ storto sul letto. Pupina stava già facendo la colazione e, accorsa, chiamò la segretaria di lui perché le mandasse di urgenza un medico. Ma non c’era più nessuna urgenza. Lei non pianse ma apparve confusa, scossa. Non ci volle molto al giovane collega per capire cos’era stato. La confezione era ancora lì sulla mensola del bagno dove andò a lavarsi le mani dopo aver esaminato il corpo. Scosse la testa: Fesso -pensò -il professore.
Mentre la segretaria, precipitatasi in lacrime, iniziava a fare le telefonate d’uso, lei andò nella sua stanza, aprì la cabina armadio e si fermò indecisa. Poi prese un abito nero, ne scosse un po’ il tessuto morbido. Lino e seta, senza maniche, una piccola scollatura rotonda e la gonna che terminava con un plissé fittissimo.
Sarebbe andato bene, pensò. A lui non piaceva, -Troppo classico per te- le aveva detto, ma lei ci teneva ad avere anche qualcosa di classico. "Può sempre servire." Lo infilò rapidamente -tanto, ormai, lui non poteva dispiacersi-e prima di raggiungere gli altri di là, si fermò davanti allo specchio. Piroetta, piroetta, piroetta.

sabato 22 settembre 2007

domande che tutti ci assillano

che palle!

Su “Nature” i risultati di una ricerca condotta da sedici scienziati provano che “cellule staminali del tutto identiche a quelle embrionali si trovano nel testicolo e possono essere prelevate con una biopsia.”


Questa storia delle cellule staminali nelle palle è fantastica!
Di slancio ho detto a mio marito: ma è stupendo, finalmente anche voi servirete a qualche cosa!
Di fronte alla sua faccia ho dovuto aggiungere qualche spiegazione.
“Intendevo solo dire che noi contribuiamo alla ricerca già da tempo, con varie parti del nostro corpo: e la placenta e l’ombelico e i nostri ovuli e i feti usciti dal nostro grembo.”
Ma ho rovinato tutto aggiungendo: “insomma era ora che le vostre stupidissime palle svolgessero una qualche funzione sociale.”
Ironico ha commentato: “beh, senza le nostre palle la placenta non ce l’avreste.”
Ecco, questo davvero mi fa incazzare. Non il suo commento, figuriamoci, l’ho liquidata con un’alzata di spalle, la quisquilia.
È proprio il fatto che ancora non abbiamo imparato a riprodurci da sole che mi scoccia.
Ma mia figlia giura che ce la faremo e allora il mondo sarà perfetto.
Immagino che creda in una riconversione della eterosessualità verso una generalizzata omosessualità. In fondo tutto è possibile. Non eravamo scimmie? e prima ancora amebe nel brodo primordiale? Ed ora non siamo, noi donne intendo, la luce radiosa dell’universo?
Diventeremo le nostre innamorate. E le nostre amanti.
Può darsi che la sessualità dipenda dal modello di procreazione e non viceversa: il giorno in cui il maschio non servirà più per la riproduzione perderà anche ogni appeal.
Sì, mi convince.
Li sento i vostri mugugni, care signore, come sento le risatine beffarde dei cari signori. Comunque, tranquillizzatevi: non prevedo tempi stretti.
E in ogni caso, ogni tanto, qualcuno deve pure avanzare qualche teoria veramente rivoluzionaria e non le solite pappine riscaldate.
Pubblicherò su “Nature” anche io.


venerdì 21 settembre 2007

liaisons dangereuses



Avendo disturbi del sonno (insonnia è poco tecnico e nemmeno molto preciso) porto uno speciale affetto alla luna, che impassibile, ma presente, tiene il suo occhio di perla su di me.
Per il resto la notte mi scoccia. Non vedo l’ora che tutto si rianimi, che la vita riprenda ad andare ed io con lei.
Ho invece conosciuta una vera adoratrice della notte. Ammesso che fosse solamente questo. La conobbi a Parigi, negli anni ottanta. Era una signora che non aveva una vita sociale, bensì, come diceva lei, una vita mondana. Era molto ricca, molto elegante, molto sofisticata, molto simpatica.
Circa la sua ricchezza: il marito collezionava auto d’epoca, vecchie Bentley, Jaguar, Bugatti, Lancia, compresa una Isotta Fraschini. Alternandole, per mantenerle sempre funzionanti, un autista accompagnava la signora nei suoi giri in città. Circa la sua eleganza: solo seta e cashmere, completi birmani, o audacissimi Paul Gautier, un solo gioiello alla volta ma favoloso. “O porto un anello, mi spiegò, o una collana o gli orecchini o un bracciale. Così ne bastano meno-aggiunse modestamente.
La incontrai in un circolo di bridge, che avevo scelto perché sulla porta c'era scritto: prima di entrare preparatevi a sorridere. Prendemmo a giocare in coppia. Il club era tenuto da un famoso campione di Francia, Jaques Delorme, soprannominato “le roi des coeurs” . Un ex bello, che io maltrattai, tanto per non perdere l’abitudine di azzuffarmi con qualche francese. -Decidez vous, enfin! gli dissi dopo avere atteso non meno di dieci minuti che studiasse la sua mano. -È così che è diventato re, per sfinimento degli avversari?- Marie-Louise, così la chiamerò, si scandalizzò, ma piacevolmente: era un’alta borghese atipica.
Il re mi perdonò. Non per meriti miei, solo perché italiana.- Ah les italiens! Vous avez l’istinct du bridgeur.- Fece una tale pubblicità all’italienne che mi si contendevano come partner. Ma io cercavo in ogni modo di tornare alla mia eccentrica madame, l’amante della notte. Scherzavamo molto sulla sua ricchezza e sulla sua collocazione sociale. -Le risulta che certe persone lavorino per mantenersi? le chiedevo. Lei sorrideva ed era così gentile e signorile da fingere che la mia domanda non fosse una scanzonata provocazione. -Sì, sì, lo so- rispondeva seriamente.
Una sera mi invitò a cena a casa sua. XVI arrondissement naturalmente, palazzetto di proprietà, altrettanto ovviamente. Mi introdusse in un piccolo salottino, dove la tavola era già preparata. -Va bene per lei, mia cara, se ci serviamo da sole? Quando torno a casa non mi piace avere intorno la servitù. -Purché non diventi un’ abitudine- le risposi. Lei rise divertita, come sempre alle mie battute.
Cena leggera, ma squisita, che lei accompagnò con una conversazione varia e in un certo senso organizzata. Capii che non poteva essere casuale. Quella donna teneva le conversazioni su un equilibrio perfetto perché ne conosceva l’arte. Glielo chiesi. -Le è stato insegnato a mantenere sempre viva una conversazione?- Naturalmente- rispose. Ma con me era facile, disse gentilmente, non ci voleva nessun impegno. Mi trovava interessante, probabilmente perché esulavo dalle sue normali frequentazioni. Le piaceva di me la mia “disinvoltura un po’ anarchica”, così disse. Anche il fatto che la prendessi un po’ in giro, secondo me, il fatto che la trattassi come una grande officiante e negassi realtà al suo intero mondo.
Dal canto mio, mi affascinava. Conduceva una vita assurda, ma lo faceva con una tale naturalezza, e una tale grazia, che soggiogavano. Mi disse che non dormiva mai. Mai di notte, comunque.
Di giorno si concedeva quattro ore di sonno. Preferiva così,vivere di notte e dormire di giorno. Il giorno era volgare. E banale.
Confusione, tinte accese, rumori, nessuna possibilità di meditare. Era molto intelligente, acuta, perspicace. Non ho mai capito, veramente, perché ci piacessimo tanto. Eravamo così diverse. Arrivai a pensare che anche queste persone, così nullafacenti, servano alla società. Sì, ma a che cosa? Non lo so. Ma come rinunciarvi? Avemmo un’ amabile conversazione polemica sul rispettivo valore del giorno e della notte.
"La notte è un pozzo e ogni pozzo nasconde un tesoro-disse -Se lo immagina un tesoro sciorinato su un tavolo al sole?"
“Assolutamente sì e poi ancora sì- le obiettai. -Lo apparecchio io, il tavolo-le dissi. -Tovaglia bianca, un vaso di papaveri, no, non tulipani, papaveri madame, come li chiamate? ecco, appunto, coquelicots. C’erano anche spighe, ma ne sono rimaste poche tracce, sulla tovaglia, il vento le ha portate via quasi tutte e poi il tesoro, madame: un grosso cocomero spaccato. Non tagliato, madame, la prego, spaccato. Il tesoro.”
"Oh, un cocomero, e poi spaccato, niente da scoprire, no, no! Immagini invece delle ragnatele sottili, sulle pareti del pozzo e la luce della luna le sfiora. Questo è il tesoro"
"Che mi ha dato da bere? Questo è un dialogo fra sordi e una conversazione da ubriachi- le dissi io.
Lei: "La notte parlo con la mia ombra. "
E io: "Di notte lei non ha ombra. E’ il sole che crea le ombre.-"
“Ma di giorno la mia ombra si nasconde, per uscire la notte. Così non ha bisogno di gridare per farsi sentire. Tutte quelle voci, tutti quei corpi. Mon Dieu!"
Ma io non la mollavo: "Quei corpi sono i miei simili. Io li voglio incontrare. Quelle voci, io voglio ascoltarle. E se di notte tacciono, è perché sono stanche.”
“Lei vuole ricordarmi che non lavoro?”
“ Ma no, lo fa talmente bene! Voglio solo dire che la stanchezza delle voci mi commuove. Non mi piacerebbe disturbarle.”
E lei: “La notte mi siedo accanto alla finestra e guardo verso il parco. La strada è come un’ ala, bagnata o no, per me la strada è un’ala lucente e mi porta.”
“Lei è una poetessa, madame”.
“Ma se è lei che scrive!”
“Appunto. Lei è una poetessa, io scrivo. La differenza è lì.” Negò, modestamente.
Scriveva di notte, leggeva e prendeva appunti, disse. E ascoltava musica. Solo leggere, scrivere e ascoltare musica. Non faceva altro nella vita. Ah, sì, poi c’era la sua vita mondana.
Mise della musica. Lirica, in mio onore, la Callas. Il suo impianto era nascosto nella parete. Me lo mostrò. Io avrei giurato che fosse solo una parete color crema, nuda.
Era troppo riservata per dire anche un solo fatto della sua vita, ma parlò per un paio di ore dei suoi sentimenti, della vita segreta del suo pensiero.
“Ha pubblicato qualcosa, di quello che scrive? Pensa di farlo?” Le chiesi.
“Oh no, assolutamente. Porto un nome che non lo consente.”
Dovetti chiederglielo, ma senza polemica: “Come concilia questa vita interiore con la sua vita mondana, madame?”
“La mia vita mondana è un regalo che faccio a mio marito. E mi diverte. Sono vanitosa, mi piace essere ammirata.”
Era molto piccola, bruna, pelle chiarissima, volto perfettamente rotondo.
Aveva fascino e un corpo morbido, piccole curve armoniose.
“Secondo me, anche se piccolina, in lungo lei sta benissimo, le dissi.
Rise. “Lo porto bene- ammise.”
“Anche i decolletèes, porta bene, n’est pas?”
Sì, mi confermò, mi piace portare poco tessuto”. Testuale. Non ho mai più sentito definire così un modo di vestirsi: portare poco tessuto.
Sul tardi arrivò il marito. Baciò la mano ad entrambe. Lei gli disse quanto mi avesse colpito il suo modo di parlare della notte e quanto a lei, il mio di parlare del giorno. “La signora ha il calore- sintetizzò lui- vous, ma chère, vous le mistère.
Certo che un marito che ti dice che hai il mistero e ti dà del lei, è conturbante.
Ma, benché affascinata, ora che erano due, mi davano anche un certo prurito, spazzolavano contro pelo una parte del mio carattere. Lui soprattutto, troppo bello e troppo galante.
“Siamo dentro un romanzo? -domandai. -D’Annunzio? Proust?”
Risero entrambi. “Se proprio- fece lui- Choderlos de Laclos, Le amicizie pericolose. Lo conosce?”.


Il film in quegli anni ancora non era uscito e del libro ricordavo poco, solo che era raffinato e che conteneva storie di triangoli amorosi e amori libertini.
Mi passò rapidamente per la testa che quei due fossero una coppia di seduttori, che si divertissero a giocare con me. Due bellissimi gatti con un me, topo. Pur trovando la mia idea semplicemente ridicola, guardai l’ora. "Devo andare" feci, appena un po’ brusca. Protestarono, lui si offrì di farmi accompagnare dal suo autista.
“Preferisco un taxi, davvero.” Lo chiamò per me. Mentre aspettavamo, lei mi disse che aveva chiuso con il circolo del bridge. Non sarebbe più venuta. “Lei era la sola persona interessante”. Non capii che cosa volesse dire, ma non feci domande.
Baciamano di addio da parte di lui, breve abbraccio profumato da parte di lei.
Ed ero fuori. Davvero non tornò più al bridge. Mi sono sempre chiesta se non girasse ambienti diversi per incontrare donne da dividere con il marito, o da offrirgli, così come gli faceva regalo della sua vita mondana.
A quei tempi Internet non c’era, ma chiesi a Denise, un’amica francese, se il cognome che Marie-Louise portava fosse davvero così importante. Trasecolò. "Storico, ti dico! Ma dove l’hai conosciuta?!" Sembra che Madame frequentasse l’altissima società parigina e internazionale e che certo non avesse bisogno di recarsi ad un circolo di bridge per passare le serate. Decidemmo così, ridendo, che il giorno sì, Marie-Louise dormiva, ma le notti non le passava sempre e solo alla finestra, a guardare verso il parco.
Quanto a me, continuo a preferire il giorno.

giovedì 20 settembre 2007

a memoria

Soffro purtroppo di cefalee, ma se ne parlo non è per lamentarmene. Solo per segnalare un piccolo espediente per quando il mal di testa non è ancora intollerabile, ma è comunque troppo per guardare la tv, o per leggere o anche per tenere la luce accesa, o per fare qualunque altra cosa. Si può solo stare sdraiati al buio e attendere che passi.
Se non si ha sonno anche nel dolore ci si può annoiare.
Io mi intrattengo recitandomi delle poesie.
Non mentalmente, ma proprio con la voce. Non le declamo, non grido, piuttosto me le sussurro.
Un po' come se, da sola, mi raccontassi delle fiabe. O mi consolassi, o, semplicemente, mi facessi compagnia.
Mi recito le grandi classiche, apprese nella scuola (ai miei tempi si imparavano poesie a memoria, e ne sono così felice! Che età privilegiata ho vissuto!)
Il più amato, innanzitutto, Leopardi. E poi anche alcune bellissime di Carducci. Sì proprio Carducci e anche Pascoli, che nella scuola non hanno saputo far amare perché facevano leggere le loro poesie più sciocche o le più magniloquenti. Ne hanno scritte di straordinarie, invece.
A me ne suggerì la lettura il mio professore di greco e anche per questo quell' uomo merita tutti i miei grazie.
Poi passo a Pavese, ma in genere dopo sei, sette, otto poesie sussurrate alla mia anima, il mal di testa rallenta, sbiadisce, non passa, ma allenta la sua stretta. Succede anche che posso riaccendere la luce e mettermi a leggere, risanata dalla poesia.
Non vuole essere un consiglio (poi Seneca chi lo sente!), solo una piccola testimonianza, su quanto possa essere salvifico conoscere delle poesie a memoria.

appena un po' di poesia

Risveglio notturno

Quando ti desti, la notte, c'è sempre un cane lontano che latra,
O un ubriaco che passa per la tua strada cantando,
O il vento che fa gemere i vetri in lunga nota di uccello di sventura,
O queste tre voci insieme, né sai decidere quale sia la più triste.
(Margherita Guidacci)

E ora un piccolo dialogo a distanza fra due poeti

Dice Osbert Sitwell (1892-1969)
..La farfalla è condannata per le
sue ali, che sono antieconomiche.

risponde Margherita:
Tutti i vostri strumenti hanno nomi bizzarri
e difficili, ma io vedo chiaro
e so che in fondo sono solamente
metri e gessetti con cui misurate
e segnate-segnate e misurate-
senza stancarvi.

Sfilate spilli tra le labbra, come una sarta:
me li appuntate sull'anima
e dite:"Qui faremo un bell'orlo.
Dopo starai meglio."

Io non voglio che mi tagliate un pezzo d'anima!
Se ne ho troppa per entrare nel vostro mondo,
ebbene, non voglio entrarci.

Sono un poeta: una farfalla, un essere
delicato, con ali.
Se le strappate, mi torcerò sulla terra,
ma non per questo potrò diventare
una lieta e disciplinata formica.


Neanche io diventerò mai una lieta e disciplinata formica.

mercoledì 19 settembre 2007

la prima battaglia di persia

Quando mio marito ed io decidemmo di partire per l’Iran, l’idea di lasciare Buck, il nostro cane lupo, in affido temporaneo ad un membro della famiglia ci sfiorò, lo ammetto. Ma non per liberarcene. Era l’idea di dovergli fare affrontare quel viaggio, che ci pesava. Io sapevo da mio padre, comandante Alitalia, quanto soffrissero gli animali che viaggiavano per ore nella stiva. Niente pressurizzazione, il freddo dell’altitudine, il rumore, senza bere per ore. Buttati in un’ avventura terrorizzante senza la possibilità di una spiegazione, di una rassicurazione.
Quando mio padre sapeva che su un suo volo, un medio o lungo raggio, viaggiava un cane, al primo scalo lo faceva sbarcare, lo dissetava e lo passeggiava personalmente sulla pista.
Non avrebbe potuto, ma oltre ad un grande amore per i cani, aveva un carattere difficilmente domabile. O per essere più sincera indomabile, tout court.
Al disagio del volo aggiungete che il cane andava consegnato alla compagnia aerea con un anticipo di otto ore su quella della partenza, e se ne restava lì, chiuso nella sua gabbia metallica, a latrare e a tremare.
“Ma, -come disse mio marito, -anche Buck farà la sua parte”. Il mattino della partenza, verso le sei, gli uomini Bolliger passarono a prenderlo. Scese le scale già in stato di allarme. Dalla finestra lo vidi salire sul camion dove lo aspettava la sua gabbia speciale.
In quel preciso momento cominciò la mia passione.E la sua.
Non ricordo con precisione l’orario di partenza del volo Roma-Teheràn, grosso modo si partiva nelle primissime ore del pomeriggio, e si arrivava dopo quattro ore. Lì era già buio, erano circa le nove di sera.
Non c’è stato un secondo durante quel volo in cui io mi sia potuta liberare dall’opprimente consapevolezza che sotto di me, nella pancia dell’aereo, il mio Buck, chiuso nella sua gabbia, penava. La mia mente era allagata da quel solo pensiero.
Mia figlia ed io sbarcammo, passammo il controllo dei passaporti, ritirammo i bagagli. Ad ogni tappa facevo presente che sul volo si trovava il mio cane e chiedevo quando e come mi sarebbe stato consegnato. Sorpresa. Un po’ di ilarità. Molta vaghezza. Nessuna comprensione. Seppi dopo che un cane era considerato negess, impuro. Che me ne fossi portato uno dall’Italia e che fossi così ansiosa di rivederlo, era motivo di sconcerto. Uscimmo infine dall’area off limits e trovammo ad attenderci mio marito. Mia figlia era eccitatissima, io già agitata. Ma mi dissi che mi trovavo a Teheràn e che dovevo avere pazienza, che i loro tempi erano sicuramente molto più lunghi dei nostri e che prima o poi dalla porta dei bagagli la gabbia di Buck sarebbe comparsa.
Aspettammo, aspettammo e ancora aspettammo. L’ansia mi faceva friggere. Passò un’ora e ne passò un’altra, tra domande e lunghi silenzi, concitazione da parte mia e perplessità da parte loro. Chiesi a tutti quelli che passavano e poi decisi di tornare dentro la sala dei bagagli per vedere se lo avessero scaricato assieme alle valigie. Due poliziotti mi fermarono. Insistetti. Furono irremovibili. Il loro inglese era precario, il mio, all’epoca non molto migliore del loro, diventava sempre più raffazzonato man mano che l’ansia si impadroniva di me. Aspettammo ancora. Mia figlia ciondolava dal sonno. L’aeroporto si stava svuotando. Tornai alla carica con i poliziotti. Di nuovo mi fermarono, ma questa volta attesi che si allontanassero nei loro giri a vuoto e di slancio scavalcai la sbarra che divideva la sala di attesa dalla zona degli arrivi interdetta al pubblico in attesa. Mentre tentavano di intercettarmi ripercorsi a ritroso, correndo, il cammino fatto nell’uscire ormai più di due ore prima e risalii fino alla consegna bagagli. Buck non era neanche là e nessuno sembrava saperne niente. Si era mai imbarcato? Era vivo? lo avrei mai rivisto? Raggiuntami i poliziotti abbandonarono l’inglese e i modi tolleranti. Anche io abbandonai l’inglese, straccio ormai inutile e nel più surreale dei modi iniziammo un dialogo veemente, tutto fondato sui gesti e sulla mimica facciale. Gli Iraniani e gli Italiani potrebbero tranquillamente competere per il primo premio in un campionato mondiale di espressività gestuale. Lo imparai quella notte e il tempo me lo confermò. I due poliziotti ed io ne demmo una prova insuperabile. Mentre discutevamo in quel nostro modo primitivo ma efficace, mi passò a tiro uno dei facchini che scaricavano i bagagli e lo agguantai al volo. Tornai all’inglese ripetendo ormai solo una parola martellante “dog, dog, dog”. Il facchino la capì ma era forse l’unica che conosceva perché nel suo bell’idioma mi fece un lungo discorso al termine del quale mi prese per un braccio e mi trascinò con sé. Lo avrei seguito all’inferno. Passammo nel deposito bagagli e da lì uscimmo nella notte, sulla pista. E adesso? L’uomo continuava a parlarmi e mi faceva segno di seguirlo. Si diresse verso un piccolo veicolo elettrico di quelli che portano i bagagli sotto gli aerei e mi fece cenno di salire accanto a lui. Non fiatai e salii.
Partimmo nella notte, lui improvvisamente ilare, io al limite del parossismo. Intanto pensavo all’ansia di mio marito che mi aveva vista sparire inseguita da due poliziotti.
Attraversammo la pista, passando tra due aerei, un Pan Am che ancora vedo svettare su di me, già con i motori accesi e un Iran Air. L’uomo rideva. Cominciai a pensare che fosse un folle. Lui manifestamente pensava la stessa cosa di me. Scuoteva la testa e rideva. Dall’ira io ero passata alla disperazione. Raggiungemmo una zona buia, un immenso deposito di container, centinaia di container allineati nel buio in file lunghissime. L’unica luce i fari del veicolo. Sembrava un film di spionaggio e secondo il copione uno dei due avrebbe dovuto tagliare la gola all’altro. Capii che per errore il mio cane era stato infilato in un container, che nessuno sapeva più in quale e che me lo sarei dovuto far dire da Buck stesso. Iniziammo così a percorrere su e giù, una fila via l’altra, i corridoi tra i container, mentre io gridavo nella notte Buck! Buck! e fischiavo nella familiare modulazione. Avanzare lungo una fila, lui ridendo e io gridando, girare a destra e tornare indietro lungo la fila successiva, io gridando e lui ridendo, girare a sinistra e via di nuovo lungo la fila seguente..
Quanto gridai? Quanto girammo? Infine lo sentii rispondere, rauco, quasi indistinto, rantolante di disperazione, terrore e sfinimento. Ormai piangevo e ridevo mentre quell’uomo, piccolo, sudato e maleodorante, assumeva per me le sembianze di un angelo, sovrana, squisita creatura che mi aveva portato da Buck! Ormai frenetica mi buttai giù, inciampai e caddi, ferendomi entrambe le ginocchia, mi rialzai mentre l’uomo si era ammutolito e mi avventai sul container che conteneva Buck nella sua gabbia. Lo vedevo a malapena, ma infilai una mano tra le sbarre e Buck me la prese tra i denti, stringendo forte, guaendo per trattenersi, facendomi un po’ male, rimproverandomi a suo modo per tutto quello che gli avevo fatto passare. L’uomo mi aiutò a scaricare la gabbia e finalmente l’aprii e Buck ne balzò fuori, come pazzo, e mi si buttò addosso, guendo e latrando insieme, mentre tentavo di tenermi in piedi e rinculavo, curva, sotto la sua spinta e lui, un po’ furioso, un po’ pazzo di felicità, un po’ sollevato e un po’ ancora offeso mi teneva il braccio tra i denti, stringendolo e bagnandolo, senza nessuna intenzione di lasciarlo andare. L’uomo assisteva in silenzio e un po’ discosto a quella scena che si protrasse per una decina di minuti almeno. Infine riuscii a sottrarmi all’abbraccio di Buck, a mettergli il guinzaglio che stringevo nelle mani da ormai tre ore, e risalimmo sul veicolo in tre, io sommersa da un cane di una ventina di chili almeno, che traboccava dal mio corpo e che dovevo continuamente ritirare su e che perdeva a tratti un po' di pipì, trattenuta ormai da una intera giornata. Per lo spavento e non certo per il rispetto delle norme igieniche della IATA. Rifacemmo all’indietro tutto il cammino, lunga zona buia, pista, deposito babagli, zona di consegna dei medesimi e prima di lasciarmi trascinare fuori dall’infallibile istinto canino per la libertà, feci appena in tempo a ringraziare il mio santo protettore iraniano. Il mio grazie italianissimo lo comprese certamente. Tutta la mia faccia lo ringraziava. E finalmente, per la seconda volta arrivai a Teheràn, trascinata da Buck, sporca, sudata, stanca, un po' "spisciazzata" ed emotivamente provata, ma felice.
La prima battaglia di Persia era stata vinta.



Buck a Teheràn

martedì 18 settembre 2007

seneca tanguero

I filosofi ci indicano la via. Noi possiamo seguirla o meno. Quando posso, ormai lo saprete, io seguo la via che mi indica Seneca. Talvolta non posso. E me ne allontano. È questo il caso del tango.
L’invito di Seneca a “non spendere la vita nel programmarsene una”, lo feci mio molti, molti anni fa’. Senza sforzo, per un intimo convincimento.
E ho sempre tenuto presente che “i tempi lunghi sono il peggior modo di sciupare la vita: ci fanno buttare via i giorni man mano disponibili e ci sottraggono il presente, promettendoci il futuro. L’aspettare è il peggiore ostacolo al vivere, perché è condizionato dal domani e perde l’oggi.”
Per quanto mi riguarda, non solo sottoscrivo, ma metto in pratica. I progetti a lunga scadenza non fanno per me. È vero che ho perso irripetibili concerti per il rifiuto caparbio di prenotare un posto un anno prima, ma ho vissuto un anno più sereno, meno ansioso. E per difendere questa mia radicata convinzione presso un severo e appassionato musicomane francese, mi ricordai di Seneca e delle sue parole.
Ma, fallibile come sono e come Seneca mi sa, esiste la mia eccezione.
Anche io ho predisposto uno, un solo progetto a lunga scadenza.
Un numero imprecisato di anni fa’, ragazza ancora, mi ripromisi di imparare, in un’età qualunque della mia vita, a ballare il tango.

Non mi feci mai distogliere da questo progetto, che la vita continuamente si incaricava di spostare avanti nel tempo.
Ma io non ho mai desistito e mai disperato. Anzi, tra le mie poche certezze, ha sempre albergato quella che avrei sicuramente, o prima o poi, imparato a ballare il tango.
Cosicché questa attesa non è stata neanche portatrice di ansia: il tango mi aspettava, e io aspettavo lui, si trattava solo di pazientare e ci saremmo trovati.
Ed ecco, ci siamo trovati.


So che Seneca amava la musica, non so se amasse anche la danza, ma non ho ragione di dubitarne. Sicché sono fiduciosa che capirà questa mia piccola im-pertinenza rispetto alla sua dottrina.
Comunque, per dimostrargli che il mio progetto a lunga scadenza non me ne ha allontanata troppo, porterò alle mie lezioni di tango le sue Lettere a Lucilio.
So per certo che da qualche parte, anche se non ricordo dove, ammonisce il suo giovane amico alla costanza nel perseguimento del bene.
È un po’ audace lo so, ma perché non estendere il concetto di bene anche al tango?

lunedì 17 settembre 2007

ricordi a confronto

Paola sul suo sito Tusitala, ha finalmente iniziato a parlarci del suo soggiorno teheranì.
Qui riporto il suo post e, di seguito, e per quanto è possibile, specularmente, le mie contro-osservazioni.
Secondo me il confronto è interessante, ma giudicate voi.
Mi scuso con Paola, ma le foto bellissime che ha inserito, non sono riuscita a copiarle.


Domenica, 16 Settembre 2007
Vita che fu

Ho lavorato ed abitato a Teheran dal 1975 al 1979.

Sono venuta via da quel paese il giorno in cui Komeinì rientrò dalla Francia. Ci salutammo in volo, io in fuga e lui esule al rientro in patria…

Ero salita sul primo dei due aerei speciali che l’Italia inviò a prelevarci, quando tutto ormai era perduto…ed arrivai a Fiumicino con un Pahlavi d’oro in tasca e quattro valigie. E la chitarra di Ilaria.
Allo scalo romano, ad attendermi vi era Puccio e moltissimi finanzieri peraltro molto molto gentili e collaborativi…

Ho cambiato almeno 3 alberghi, 2 guest houses e 3 abitazioni personali in quella città e sono pure stata ospitata nei principali ospedali, mannaggia !
Vi presento alcune delle persone con cui sono stata felice, a Teheran
- Ella, la mia prima segretaria all’Impregilo ed in assoluto la mia prima amica iraniana.
Quando sono partita Ella era in attesa del secondo figlio. Saranno ancora vivi ?
- La famiglia Caffari.
Se non fossero esistiti, avrebbero dovuto inventarli. Sul serio.
Difficile incontrare persone migliori.
- Puccio Fede, il bel fotografo ed un po’ l’imbucato speciale che arrivava di notte
portandomi il profumo Senso di Roberta da Camerino e ripartiva con i chili di
caviale che io avevo acquistato per lui dal rivenditore “non ufficiale”.
- Saverio Pepe, il ragazzo con cui convissi e che – ora – ringrazio
“sentitamente“
per essere fuggito con la figlia del nostro medico curante.
- Hacopian, l’agente per nulla segreto che amava, forse, gli altri agenti e
si dilettava nel leggere tutte le notizie che riusciva a trovare sui regnanti di ogni
parte del mondo. Lui e Moni, che coppia !
- La corrispondente dell’Ansa che chiedeva a tutti di portarle,
con una faccia tosta che aveva dell’indescrivibile
enormi quantità di parmigiano, di ritorno dall’Italia .
- Gay Graham, collaboratrice di Simin Barbour, era allora ancora perdutamente
innamorata di suo marito… E’ diventata la mia migliore amica e ora, indovinate,
è pianista, a Londra.
- Jean-Claude Vertenelle, paziente e saggio amico, compagno di mille avventure ed
ospite ineffabile. Io gli offrivo, la mattina in ufficio, il nostro caffè italiano e lui,
che importava “di nascosto” lo Champagne dalla sua Parigi, bicchieri di quel
nettare a cena.
Vorrei rivivere alcune delle cene con Jean-Claude nella sua casa iraniana
prima ed in quella di Parigi poi …
Credo che ora sia nel Burkina Faso.

Ero nei miei Twenties … allora
Vestivo con pantaloni a zampa di elefante e zeppe di 13 centimetri, i vestiti che mia sorella mi inviava una volta l’anno. Ne riempiva una valigia e la affidava al personale in partenza per Teheran così io mi trovavo, alle due o alle tre di notte, all’aeroporto ad attendere l’aereo dall ‘Italia e poi alle 8 dovevo essere già in ufficio.

Altre notti invece si andava all’aeroporto perchè la sorella di un nostro collega, hostess dell’Alitalia, atterrava portando con sè un termos di cappuccino italiano, quello di un famoso bar di via Condotti.

Con Randone, un mio collega, ho trascorso ore a farmi spiegare le sue teorie sulle banche, le banche “bone” e poi le “bancarelle”… mi insegnava come riconoscerle e io lo ascoltavo affascinata. Qualche mese dopo il mio rientro in Italia avrei seguito i corsi del Master in Business Administration alla Bocconi.

Certe sere ho ballato con Ignazio uno struggente “parlami d’amore mariù” allo Sheraton. Ero così gelosa quando lui gardava un’altra…una sera vi fu un grande scandalo perchè io gli diedi uno schiaffo…

E a volte, di sabato, il Kayan (chi ricorda il Kayan ? ) pubblicava una foto di Gabriella ritratta in costume da bagno ai bordi della piscina dell’Hilton. Era bella Gabriella.

Da Dessì ho imparato che “non ha più alcuna importanza quello che hai fatto sino ad ora, ma quello che farai d’ora in poi…”

Non c’era ancora la metropolitana, no
I taxi erano collettivi e si chiamavano urlando la direzione all’autista
Nei locali Iraniani si fumava tranquillamente il Narghilè
Le strade avevano tutte, ai lati, i Jubs (le fogne) scoperti
Vi erano solo tre tipi di Vino: uno bianco, uno rosso ed uno rosè.
Guidavo - imperterrita e da sola - sino a Shémiran, a Darband, a Vanak, e poi giù giù sino al telefono pubblico,
giù, ben oltre il Bazar, sino alla Stazione Ferroviaria
con la mia due cavalli color marrone. Ero felice così e non volevo l’autista.

Quante persone hanno visto “tutta” la Teheran che ho visto io ?


Ed ora tocca a me:

Non riuscii a lavorare: la mafia locale, italianissima, dava le cattedre a non laureati amici degli amici e io, che ero un’insegnante di ruolo ed ero risultata seconda in Italia nel concorso per l’insegnamento all’estero, mi vidi offrire delle supplenze temporanee.

Sono ripartita da Teheràn con un normale aereo di linea, senza il mio Buck ma con mia figlia ormai settenne. All’arrivo a Roma aveva quaranta di febbre ed iniziò un difficile periodo, durato mesi, per assisterla e guarirla da una inopinata nefrite.
Anche io rientrai con una chitarra: la mia, cui mi ero dedicata in giornate in cui la mancanza di un lavoro rischiava di mandarmi ai matti.

Mio marito, dopo avere onorato il suo contratto fino all’ultimo giorno, partì, ma per Istambul, con l’ultimo volo di linea che si alzò dal Meherabad. Al suo capo americano suggerì l’idea che lo Shah sarebbe presto caduto. Si sentì rispondere da quell’aquila: Be serious, Ugo, the Shah-y-Shah has a good control of the army! Un mese dopo lo Shah fuggiva all'estero.

Tranne i tre giorni di luglio in cui cercai casa non ho mai vissuto in albergo, a parte in quelli sui generis nei miei viaggi attraverso tutto il paese.

Non sono mai stata ospitata in un ospedale teheranì, ma vi ho dovuto accompagnare sia mia figlia che mio marito. In un caso si trattò dell’ospedale americano, nell’altro del più vicino.

Non ho conosciuto nessuna delle persone che nomini, sicché di me non avrai sicuramente avuto occasione di essere gelosa, fino a schiaffeggiarmi! Inoltre avevo dieci anni più di te, un marito ed una figlia! ;-))

Mi è capitato di incontrare probabili, molto probabili, agenti segreti.
Di uno di questi racconterò qualcosa sul mio blog.

Tutti chiedevamo a tutti di portarci il parmigiano dall’Italia, un bene introvabile e inestimabile.
A molti l’ho portato, come molti me lo hanno portato.

Il caviale lo comprava mio marito, anche lui da rivenditori anomali, dopo un po’ mi aveva stufato e sognavo tartine con burro e alici!

Facevo anche io visite all’aeroporto in piena notte per ritirare pacchi inviati dai miei. Era il personale Alitalia, la "famiglia" di mio padre, che me li portava.
In piena notte arrivavano anche hostess, amiche di mia sorella, che ospitavo per la notte. La passavamo in bianco a parlare di politica, sottovoce come due cospiratrici.
Al ritorno portavano sempre via con sé secchielli dello speciale Yogurth locale.

Prendevo i taxi collettivi, contro i quali mi gettavo per fermarli. Ma anche il taxi privato che, soprattutto quando mi muovevo con mia figlia, prenotavo telefonicamente da Rose Taxi. Talvolta lo mandavano, talvolta no. Allora mi gettavo contro quelli collettivi.

Oltre che il narghilé in alcuni locali si fumava l’oppio. Gli oppiomani erano censiti ed avevano speciali ricette per acquistare l’oppio nelle farmacie. Ma erano molti di più di quelli riconosciuti ufficialmente. Girava anche tanto “fumo” e una giovane rampolla di una ricca famiglia maltese si fece accompagnare più volte da me ad acquistarlo in scalcinati bar al sud della città. Finché “sgamai” che non stava affatto cercando di rintracciare un giovane locale per il quale aveva una cotta e smisi di farle da autista.

Dei canali sotterranei, i ghanats, risalenti all’incirca al 500 A. C., irrigavano artificialmente le aree agricole e le città, discendendo dalle grandi catene montuose che circondano gli altipiani. I ghanats di Teheràn, che scendevano dagli Elburts, erano collegati ai djub, canali che scorrevano a lato delle strade portando l’acqua corrente dove non esisteva. I djub che scendevano dalla parte alta della città, divenivano via via che si scendeva verso quella più bassa e più povera, delle vere fogne a cielo aperto, perché, oltre che prelevare acqua, la gente li usava per gettarvi i rifiuti. La mancanza di una rete di approvvigionamento idrico per la popolazione non privilegiata, aveva trasformato un geniale sistema di ingegneria idraulica che risaliva agli Achemenidi, in una fonte di possibile contagio di tutte le malattie infettive.

Dei tre tipi di vini del Caspio ricordo solo lo Chateau Sardast, ma in un momento di felicità sinaptica potrebbe venirmi in mente il nome degli altri due.
L’acqua minerale si chiamava Amolo, ne conservo una bellissima bottiglia. Vuota naturalmente.

Guidavo, da sola ovviamente, la mia Chevrolet rossa, da Shemiran, sia verso Darband che verso Vanak e più giù, ben oltre il bazar e la stazione ferroviaria, fino a Rey, che un tempo era stata la capitale della dinastia Seleucide, prima che i Mongoli la distruggessero ed ora era un miserabile villaggetto, dove avevano sede i laboratori di ricerca della Nioc, circondati da una miseria spaventosa e una spaventosa sporcizia. Il sangue degli agnelli macellati scorreva sulle stradine e lungo il djub le donne lavavano i tappeti, affidati dalle famiglie ricche.
Ogni tanto mi veniva prestato l’autista, un iraniano spregiudicato che trafficava Mercedes dalla Germania a Teheràn dove se le rivendeva. Le prime volte tentò di portarmi a fare acquisti nelle boutique di suoi amici per riscuotere la sua piccola percentuale. Fingeva di non capire le mie indicazioni e mi portava dove diceva lui. Dalla volta in cui gli ricordai che non ero americana e lo pregai di parlarmi solo in farsi, senza preoccuparsi delle difficoltà di comprensione, ci capimmo molto meglio e non ci riprovò più.

Non so se ho visto “tutta” la Teheràn che hai visto tu, come non so se tu hai visto “tutta” la Teheràn che ho visto io.
Con le città accade come con gli esseri umani: ognuno di noi ne conosce degli aspetti e nessuno di noi può dire di conoscerli tutti.

iran/prima di partire

Nelle letture che feci prima della partenza per Teheràn, entrò anche un piccolo libretto che la Esso consegnava a tutti i suoi dipendenti che partivano per l’Iran. Fu una lettura irresistibile. Nato per descrivere gli Iraniani era invece il ritratto dell’establishmente americano, dei suoi preconcetti, delle sue convinzioni e della sua propaganda. Un ritratto penoso.
Gli Iraniani erano visti come dei minus habens, gente un po’ losca, un po’ sciocca. I cittadini americani venivano messi in guardia contro la loro doppiezza:
An iranian may indeed mean “no” when he says “Yes”.
“Indirection” is part of iranian life.
Gente inaffidabile.

Con questa gente però gli Americani potevano sentirsi tra amici:
Basically iranians and americans get on well together, perché i due governi erano legati da un rapporto di generosa solidarietà. Così si descriveva il pesante controllo americano sulla politica del paese:
......our impact in iran had been mostly in the fields of education, medicine and agriculture. We asked nothing in return for our work in these fields except that they build a peaceful, progressive, independent country.

Questo per il presente. Quanto al passato, i macroscopici falsi storici non li spaventavano: la monarchia dello Shah, che così bene sapeva svolgere per l’alleato americano il ruolo del fantoccio, veniva presentata come la continuazione di quella di Ciro il Grande e l’impero attuale era “the oldest continuous one in the world...

Ci sono o ci fanno, mi chiedevo? Fifty fifty, come si capiva leggendo oltre.

Di Mossadeq si diceva che era stato infedele alla corona e che i royalist lo avevano costretto alle dimissioni.
Di Mossadeq invece c’è qualcosa d’altro da dire. Di cultura francese e di forti sentimenti liberali, si batté senza risparmio per trasformare l’Impero in una monarchia costituzionale, e soprattutto per attribuire al paese il controllo sulla sua risorsa più preziosa, il petrolio, controllata dalla Gran Bretagna. Giunto per vie democratiche al Governo, nazionalizzò la Anglo Iranian Oil Company e la sostituì con la NIOC, National Iranian Oil Company. Tentò una riforma agraria che realizzasse almeno una modestissima ridistribuzione delle terre, in mano a grandi proprietari terrieri e a congregazioni di mullah. La Gran Bretagna congelò tutti i beni del governo iraniano all’estero e attuò un feroce embargo che portò l’economia iraniana al collasso.
Ciò nonostante Mossadeq continuò la sua politica di cauta modernizzazione del paese, volta soprattutto ad alleviare le spaventose condizioni di vita della gran parte della popolazione. Istituì un sistema sanitario volto ai meno abbienti, instaurò una politica fiscale che per la prima volta faceva partecipare i pochi ricchissimi bazarì e le grandi congregazioni religiose al mantenimento dello stato, tentò di sottrarre allo Shah la politica estera, affidandola ad un Ministro degli Esteri e dispose una parziale distribuzione dei raccolti tra i contadini che coltivavano le terre per i mullah, in un sistema feudale tra i più rigidi.
Nel 1953 I servizi segreti della Gran Bretagna con il prevalente intervento della CIA organizzarono un colpo di stato che lo destituì. Processato, incarcerato, visse fino al 1967 agli arresti domiciliari. Intorno al suo ricordo e al suo nome ancora oggi si raccoglie il rispetto e la simpatia dei veri democratici iraniani.
Quando arrivammo in Iran, gli USA avevano sostituito la Gran Bretagna nel controllo delle risorse petrolifere e quindi del paese, sostenendo la dittatura feroce dello Shah Mohammed Reza Palhavi che sui nostri rotocalchi veniva rappresentato come un principe da favola e di cui si raccontavano gli amori infelici e le prodezze sportive.

Lo straordinario di questo libretto, che era manifestamente il risultato del lavoro degli analisti della CIA è, che mentre lo Shah e la Shahbanou, Farah Diba venivano presentati come un padre ed una madre “dedicated to solving the country’s problems....e si glissava elegantemente sui sistemi con cui questo padre e questa madre mantenevano saldo il trono su cui sedevano, gli estensori non potevano evitare di dare alcune pratiche indicazioni ai loro concittadini che si recavano a vivere nel paese.
Letters are censored. Some people advise scotch-taping letters; others say this only draws attention.

E più oltre: make no political comments of any kind whatsoever. This last is vitally important.
It is none of our busisness and-more important-you could unwittingly be harming the person with whom you are talking.
Political talk is not healthy in iran.


Un capitoletto era dedicato alle categorie di persone per le quali non era consigliabile recarsi in Iran
Who should not go to Iran: persone con:
marital or alcoholic problems
family problems, delinquent children, learning disabilities
real medical problem
if anyone is emotionally unstable, don’t go
if anyone has a block to learn the language they should not go


But, for those who are stable, happy people iran is marvelleous!

Fu questa affermazione che trovai la più esilarante? Non lo so erano talmente tante quelle che coprivano di ridicolo gli autori della Overseas Briefing Associates di New York! Devo dire comunque che l’idea di un paese che è meraviglioso solo per gente stabile e felice mi divertì pazzamente.

Non erano meno divertenti le pagine che davano indicazioni su cosa portare con sè per affrontare the first weeks:
hangers, soap, toilet tissue, sewing materials, a folding drying rack to use over e bathtub, small address books for everyone in the family, rags and cloths for cleaning, brooms and brushes e paint scrapers, toilet covers, pot holders and cooking gloves, plastic containers, e persino any special spices...Any special spices in Iran?!?
Comunque non era necessario portare food! Trassi un sospiro di sollievo: la mia famiglia ed io a quanto pare non saremmo morti di fame!

La faccio breve, altrimenti dovrei tout court trascrivere tutto il libro. Non c’era aspetto della vita pratica in Iran che non venisse analizzato e sul quale non venissero dispensati i più assurdi, pazzeschi e discreditanti consigli. Se non fossi stata una italiana mediamente informata e acculturata, ma una americana standard mi sarei sentita terrorizzata per metà e per l’altra metà orgogliosa di andare a compiere una meritoria opera di beneficienza. Sapevo invece che andavo a vivere in un paese dove un dittatore al potere sostenuto dagli USA conduceva contemporaneamente una politica di modernizzazione forzata della società nel campo del costume, lasciando intatti privilegi e mostruose ingiustizie sociali. Sapevo che lo faceva con uno spietato controllo di polizia e dei servizi segreti, addestrati dagli Usa, mentre si armava, con le armi più potenti allora in commercio, oltre che per ambizione personale nel quadro della prossimità territoriale, anche per avere una base di forza da cui sostenere in caso di ribellione il proprio potere. La vita professionale di mio marito, che addestrava giovani chimici nella ricerca di laboratorio e non agenti segreti, mi portava in un punto caldo del mondo, che veniva però descritto all’estero e creduto, quanto ingenuamente!, dagli Americani un possedimento sicuro.

Gli Americani che ho poi incontrato e da subito evitato di frequentare erano la personificazione di quel libretto. Le mogli dei colleghi americani di mio marito, dopo avermi invitata ad una gara di torte, (sic) non mi videro più e iniziai una vita di scarsissime frequentazioni internazionali e di appassionato studio di quel paese e di quella società. Più semplicemente: di quella gente.

domenica 16 settembre 2007

terra di persia

La prima volta che posai i piedi sul suolo iraniano era il 1969, ero in viaggio di nozze e sulla rotta Bombay/Bangkok facemmo scalo a Teheràn. Ricordo i pacchi di pistacchi comprati al duty free e naturalmente le donne in chador.
Nel luglio del 1976 sbarcai invece per cercare la casa che avrebbe dovuto ospitarci nei successivi tre anni. Mia figlia era rimasta a Ponza dove teneva in ostaggio mia sorella. Mio marito ed io, nel caldo choc di quelle tre giornate, visitammo le più pazzesche, sontuose, caleidoscopiche ville di Teheràn, con audacie architettoniche e decorative che mai avrei immaginato di vedere. Arredi di un gusto che mi procurò un vero choc culturale, ori, turchesi, porpore e argenti scialacquati ovunque e dappertutto, con effetti hollywoodiani da iperrealtà. Cercai di immaginare me stessa, mentre urtavo in tutte quelle tende e infrangevo tutti quei vetri colorati. Mi adagiai mentalmente nei miei jeans su quei divani serici di mille colori e mi vidi alle prese con i lampadari veneziani da cento candele. Inimmaginabile. Scelsi così una casa praticamente vuota ripromettendomi di arredarla personalmente. La struttura era però semplice ed elegante, ad un solo piano, il fronte tutto in vetro dava su un parco bellissimo, ricco,vario e curato proprio come ci si aspetta da un giardino persiano. Sul grande prato una piscina piastrellata di azzurro e dietro la casa la piccola costruzione per il personale di servizio. Mamma Esso era generosa, ma altrettanto esigente. A mio marito non fu fatto dono di niente.
Casa e parco erano circondati da un muro altissimo, interrotto da un enorme e pesante cancello di ferro. Era il numero 122 della Khiaban Hekmàt. Al momento di lasciare Teheràn definitivamente mio marito staccò la piastra metallica del numero civico e la portò con sé come souvenir: poco civico. Non il numero, ma il comportamento. Lo apprezzai però moltissimo: ora la placca poggia sul ripiano di una libreria a ricordo della campagna di Persia.
Partivo decisa ad apprezzare ogni singola molecola, minerale, vegetale o animale di quel paese. Nonostante i garbati tentativi di un collega di mio marito, al suo terzo anno a Teheràn, di mettermi in guardia contro possibili disillusioni. -Teheràn è brutta- mi ripeté più volte- una enorme città caotica, senza niente da vedere. Ma io ero sorda a qualunque richiamo alla realtà. Mi preparavo a partire per la Persia, la favolosa Persia! Quell’uomo era, secondo me, uno sciocco immalinconito dalla solitudine, non gli detti nessun credito. Ero decisa a scovare la bellezza che Teheràn sicuramente nascondeva.
Durante l’estate iniziai a studiare il farsi. A Ponza, sotto il pergolato d’uva della casa che mi ospitava, affacciata sulle piscine naturali, ascoltando i concerti per tromba di Haendel, studiavo la grammatica e provavo ad imparare le prime formule di cortesia. All’istituto italiano di lingue orientali mi procurai l’unico vocabolario allora esistente di italiano-persiano, pubblicato appena due anni prima dal reverendo Del Mistro, che da trenta anni viveva in Iran, nella doppia grafia, araba e latina. Presi anche a studiare la storia e la cultura di quel paese bimillenario con il metodo” a tappeto” che mi caratterizza in casi simili. La letteratura, l’arte, la musica, la poesia. Cercai romanzi, diari di viaggio. Non c’era molto, ma quel poco fu mio.
Di quell’estate ricordo Haendel, tutto quel pazzo studiare e i versi di Hafez e Sa’di, riportati nella Letteratura Persiana del Bausani, il nostro grande islamista e traduttore del Corano. Ed è nella sua traduzione che lo lessi, come pure il Divan di Rumi, il grande mistico del duecento. In questo studio incontrai raffinatezza, e i segni di rispondenze antiche tra quella cultura e la nostra. Fu Goethe a rivolgersi ad Hafez così: Hafez, è con te e con te soltanto che voglio gareggiare! Incontrai anche una storia che qualunque popolo porterebbe con orgoglio, una storia dura, e fattasi sempre più dura. Come una brava scolara, ma soprattutto come quella infaticabile lettrice che sono, divorai il divorabile e partii con la sensazione precisa che quel paese mi attendesse per farmi dei doni preziosi.
Quei doni ho dovuto guadagnarmeli, ma me li ha fatti.
Intanto mio marito si era già stabilito a Teheràn e aveva preso servizio. Il suo incarico consisteva nell’addestrare il personale tecnico, ingegneri-chimici e chimici, della NIOC, la National Iranian Oil Company, nei laboratori centrali della compagnia.
Alla fine di setttembre lo raggiungemmo. La mia bambina Francesca detta Picci, di cinque anni, il mio cane pastore Buck ed io. Era il 31 di Shahrivar del 1355 secondo il calendario mussulmano o 2534 secondo il conteggio imposto dal palazzo che faceva risalire la dinastia Palhavi a Ciro il Grande o il 23 settembre del 1976 dopo Cristo.
Vivere in tre secoli diversi e addirittura in due diversi millenni vi toglie una volta per tutte qualsiasi illusione sul senso stesso dello scorrere del tempo. Picci, Buck ed io partimmo di slancio verso quel paese fluttuante tra il presente e il passato.
I bambini e gli animali seguono gli adulti e gli umani con fiducia. Vanno dove vengono condotti. Nel portarli con noi nelle nostre avventure, la nostra responsabilità nei loro confronti cresce enormemente. Io la sentivo benissimo. La mattina in cui partimmo, nel tenere la manina di mia figlia, abbandonata come sempre fiduciosamente nella mia, sperai che questa decisione che avevamo preso anche per lei, fosse giusta e che io non dovessi mai pentirmene. Malgrado tutto, io credo che questa esperienza, che fu difficile anche per mia figlia, le abbia portato qualche cosa di importante nella vita. Tuffata così piccina in un mondo così diverso, imparò a trovare naturali le differenze, a considerarle assolutamente normali, a non farci caso, letteralmente. Buck invece pagò l’arretratezza del paese. Ammalatosi di un’infezione renale non fu curato appropriatamente e quando tentai di curarlo, interpellando telefonicamente il suo veterinario romano, era troppo tardi.
So che oggi Buck, comunque, non ci sarebbe più, ma averlo lasciato laggiù ancora mi dà dolore. Per consolarmi mi dico che in quei tre anni, nel grande giardino di Teheràn, godette di spazi e di una libertà che nel nostro piccolo appartamento romano non aveva mai avuto.
La mia prima battaglia di Persia fu appunto combattuta per Buck, ma non è ancora il momento di raccontarla.


Qualche verso di Hafez, "un granello sulla nostra soglia, un niente...."

Senza la guancia rosea dell’amata, chi può dire bella la rosa e senza una coppa di vino, chi può dire dolce la primavera?

Tu mi tormenti e tu mi manchi. Io vivo, io muoio del male di te. Il mio cuore si serra e si lamenta. Tutto questo non è senza una ragione.

Dolce immagine come hai potuto resistere nei miei occhi deserti? Il ruscello delle mie lacrime ti ha tanto lavata che temevo di vederti svanire.