giovedì 31 gennaio 2008

tempo di premi

Paola mi ha assegnato la targa "10 e Lode", ultimo parto della D abolica mente di d-mensione. Ringrazio Paola per la simpatia che mi ha dimostrato e passo a svolgere la parte burocratica.
Premio D eci e lode
“Dieci e lode” è un attestato di stima e gradimento per ciò che il premiato propone nel suo blog.
Come si assegna?
Chi ne ha ricevuto uno può assegnarne quanti ne vuole, ogni volta che vuole, come simbolo di stima a chiunque apprezzi in maniera particolare, con qualsiasi motivazione (è o non è abbastanza elastico e libero?!) sempre che il destinatario, colui o colei che assegna il premio o la motivazione non denotino valori negativi come l’istigazione al razzismo, alla violenza, alla pedofilia e cosacce del genere dalle quali il “Premio Dieci e lode” si dissocia e con le quali non ha e non vuole avere niente a che fare.
Le regole:
Esporre il logo del “Premio Dieci e lode”, che è il premio stesso, con la motivazione per cui lo si è ricevuto. E’ un riconoscimento che indica il gradimento di una persona amica, per cui è di valore;
Linkare il blog di chi ha assegnato il premio come doveroso ringraziamento;
Se non si lascia il collegamento a questo post già inserito nel codice html del premio provvedere a linkare questa pagina;
Inserire il regolamento;
Premiare almeno 1 blog aggiungendo la motivazione.
Queste regole sono obbligatorie soltanto la prima volta che si riceve il premio per permettere la sua diffusione, ricevendone più di uno non è necessario ripetere le procedure ogni volta, a meno che si desideri farlo. Ci si può limitare ad accantonare i propri premi in bacheca per mostrarli e potersi vantare di quanti se ne siano conquistati.
Si ricorda che chi è stato già premiato una volta può assegnare tutti i “Premio Dieci e lode” che vuole e quando vuole (a parte il primo), anche a distanza di tempo, per sempre. Basterà dichiarare il blog a cui lo si vuole assegnare e la motivazione.

Paola dei gatti, che tiene un blog che spesso mi reca sollievo dalle brutture della vita, mi ha assegnato questa targa honoris causa. Io la ringrazio ancora e passo subito la palla.
Poiché ognuno può attribuire il premio con la motivazione che più gli aggrada, lo attribuirò a Paul , che mi nominò per il Thinking Blog Award, con la seguente motivazione: Quel che è fatto è reso!

teheràn fashion

Quando vivevo a Teheràn mi capitava di restare a bocca aperta a guardare una donna in un supermercato o in fila dal fornaio: erano incredibilmente belle.
Intendiamoci, a Teheràn ci sono donne ed uomini belli, brutti e così così, come da ogni altra parte del mondo.( Anche se...posso dirlo? A me i Coreani sembrano bruttini assai. Lo so perderò diversi punti al gioco del politically correct, ma al proprio gusto estetico non si comanda.) Ma, quando una donna iraniana è bella lo è in un modo assoluto e quasi intollerabile.
Per tornare a noi, se dovessi indicare le caratteristiche estetiche che più mi colpivano nelle donne iraniane direi la dentatura perfetta, bianca e luminosa, l’intensità del nero degli occhi, il peso anzi il corpo dei capelli e la pelle. Sia che fosse bianchissima, sia che fosse scura aveva una grana liscia e tesa, setosa. E poi la vivacità degli sguardi, la loro mobilità rapida.
Quando vivevo a Teheràn nella città le donne giravano in differenti fogge: c’erano le ragazze in jeans e maglioncino con il chador svolazzante sopra o ripiegato sul braccio e c’erano le donne che nel chador si raccoglievano interamente; c’erano quelle che nascondevano la gonna corta sotto il chador e quelle che tenevano il chador nascosto nella borsa. C’erano le donne che incontravo sul volo da Roma, che indossavano tailleur eleganti, gonne corte e strette, camicette scollate. Poi scendevamo e non le riconoscevo più. Apparentemente scomparivano. In realtà dalle loro borse Fendi tiravano fuori il chador e lo indossavano per presentarsi allo sguardo attento di una madre o di una suocera. Mi ricordavano mia sorella che a quattordici, quindici anni usciva senza un filo di trucco e con le scarpe basse. Poi arrivata a casa dell’amica di turno si truccava, metteva i tacchi e ripiegava il giro vita della gonna per farla più corta. Poi usciva di nuovo, una ragazza nuova, da casa della sua amica. Tutto il mondo è paese.


Il panorama delle giovani donne di Teheràn era vario. Prevaleva il chador nero, ma era possibile incontrare donne in qualsiasi altra mise. Andare al bazar dai venditori di tessuti era una festa. Centinaia e centinaia di rotoli di tessuto, di ogni consistenza, pesantezza, trasparenza, trama, in tutti i colori. Con minutissimi disegni o larghi tracciati, a fondo chiaro o scuro, in seta, cotone, sintetico. In casa ho ancora dei tagli di quei tessuti, la cui fantasia sembrava inesauribile. E le sete di Yazd! Abbandonai marito e figlia al loro destino e mi dedicai ad un acquisto in quantità semindustriale, di metri e metri di seta, pesante, ruvida, aspra e frusciante in ogni possibile accoppiamento di colori. Negli anni successivi ne feci gonne da sera per mia figlia, comode tuniche per me. Alcuni tagli di stoffa ancora li conservo.
Ricordo anche le donne del mercato di Bandar Abbas. Sul volto portavano una mascherina, proprio come quelle del nostro carnevale; copriva gli occhi il naso; da alcune scendava un lembo a coprire anche la bocca. Ma erano qualcosa di fantastico!
Erano decorate con fiori, specchietti, coriandoli di colore, merletti, nastri e quanto altro di piccolo e colorato era reperibile. Da dietro quelle maschere occhi nerissimi, ridenti o incolleriti, seguivano le vendite. Faceva un gran caldo, caldo e umido, ma quelle donne vi erano abituate e senza nessun apparente fastidio per la loro mascherina discutevano con disinvoltura con l’acquirente di turno. A me piace andare con la mia faccia nuda e libera. A me piace esporla al sole, al vento e se del caso anche alla pioggia. Ma mi riempii di ammirazione per quelle donne che avevano saputo trasformare quella maschera in un miracolo, no, in centinaia di miracoli, ognuno diverso dall’altro, di gusto, fantasia e grazia.
La mia amica Zahra aveva diversi chador, quello nero integrale, uno blù a minuscoli disegni verdi ed uno bianco con rami gialli. Anche la piccola Zohre aveva il suo chador e Zahra ne fece uno per mia figlia Francesca. Ancora lo conserva. E’ in cotone, di un azzurro spento, con fiorellini bianchi. L’Imperatrice Farah Diba vestiva all’occidentale, portava talvolta un velo sul capo, ma in occasioni di celebrazioni religiose particolarmente solenni indossava il chador. Ne ricordo uno, ordinato alla Maison Dior in pizzo nero, chiffon e ricami di paillettes. Sul giornale del regime veniva ampiamente descritto e fotografato.
Quanto sarà costato? E quanto costeranno gli abiti sgargianti, le sete viola, rosse, gialle, verdi in cui si avvolgeva Giovanni Paolo II nei suoi viaggi in Africa?
Mi riesce difficile immaginare Maometto o Cristo contenti per quello sfarzo.
Ma in effetti, che ne so io di divinità?
Tanto più che è di moda che voglio parlare oggi.
Di moda persiana.



In dicembre si è tenuta a Theràn la seconda sfilata di Moda iraniana. Una moda pensata per rispettare le regole della religione islamica senza mortificare il desiderio femminile di sentirsi bella. Per il prossimo anno si prevede una sfilata internazionale.
Gli abiti che hanno sfilato, sotto gli sguardi attenti di donne in chador nero o con il corto cappotto marrone spento, sono effettivamente molto belli. Alcuni richiamano gli abiti della tradizione delle tribù nomadi, altri si impongono per la bellezza del tessuto o dei colori.















La più audace delle nuove stiliste è Simin Ghodstinat che lavora nel suo laboratorio nel nord di Teheràn.



Vissuta in Occidente Simin dichiara di provare disagio per il modo in cui le donne occidentali si rendono oggetti sotto gli sguardi altrui. Insegue una moda che sia comoda ma bella, che rispetti i precetti islamici e nello stesso tempo renda merito alle grazie delle donne iraniane. Alcuni dei suoi modelli li indosserei volentieri, anche se capisco che il mio spirito nell’indossarli sarebbe diverso da quello delle donne iraniane. Ma questi capi sono molto cari, rivolti ad una fascia sociale privilegiata.
Sinceramente non so che cosa pensino di questi modelli le ragazze di Teheràn che vanno all’Università, o al lavoro nei loro uffici,che sono presenti massicciamente in tutti i settori dell’economia. Non so quante e quanto soffrano le restrizioni imposte al loro modo di abbigliarsi. Mi chiedo anche se questo sia davvero un grosso problema per loro, o se perda di importanza di fronte agli ostacoli con cui si confrontano nella loro società.
Soprattutto vorrei andare a dare un'occhiata di persona.
Meno male che ho sempre il mio dialogo con Nazanin, attraverso il suo blog.
Nazanin è una giovane, intelligente e sensibile donna, moderna, colta, molto innamorata del suo paese per difendere il quale è pronta a gettarsi in ogni polemica.

mercoledì 30 gennaio 2008

ciò un blog/capitolo due

Riepilogo della puntata precedente: del diritto di avere un blog e di applicarsi a ricavarne un libro.

Sull’impronta e lo stile da dare al mio blog non avevo all’inizio le idee chiare. Ho deciso perciò di seguire il metodo galileiano e di procedere per prova ed errore. Ho così aperto non meno di tre blog sperimentali, su diverse piattaforme e con diverso stile grafico. Anche il post di inizio lo volevo molto diverso, andando dall’erotico estremo, al sentimental-romantico, al filosofico post-strutturalista.
La scelta del post- strutturalismo è stata decisa dal prefisso post.
Non che io abbia le idee molto chiare sul presente, ma se c’è una cosa che non mi è sfuggita è che solo essendo post si ha qualche speranza di esser in. Post-post è ancora meglio, ma una ricerchina in google non mi ha dato i risultati sperati. Ho trovato cioè il post-post-comunismo, e di questo mi risultano chiare le ragioni, ma nessuna corrente filosofica post-post. Ne ho dedotto che, o la filosofia procede molto meno velocemente della revisione storica o google non è poi questa gran figata. Comunque il post-strutturalismo da parte sua presentava anche un altro vantaggio: compariva in Wikipedia in una voce, concisa sì fino all’ermetismo, ma corredata di nomi esemplificativi.
All’inizio, nel leggerli, mi sono sentita abbastanza inquieta. L’idea di dover dare una scorsa a Lacan e Derrida per potermi spacciare per post-strutturalista mi sembrò infatti disturbante. Stavo orientandomi verso il neo-stoicismo, ammesso che esista, – infatti una corrente neo-qualchecosa è di prestigio almeno quanto una post-qualche cosa d’altro-quando ho scoperto che anche Foucault e Barthes erano post strutturalisti. Avendo letto "Critica di un discorso amoroso" di Ronald Barthes e il libro di un amico di Foucault, poi morto di aids, che accusa il filosofo di non avergli voluto procurare un farmaco rarissimo e costosissimo, lasciandolo così morire, pensai che a partire da queste scarne letture, grazie ad una spregiudicata capacità affabulatrice, qualcosa avrei sempre potuto imbastire e detti inizio al blog filosofico. Volendo ridare un’occhiata al libro per verificare che l’autore fosse poi effettivamente morto-cosa indispensabile perché il post avesse una qualche credibilità e un minimo di appeal- divenni matta nel tentativo di cacciarlo fuori dal mio data base. Per i miei libri io ho un catalogo tenuto da un data base sofisticatissimo, nella sua versione “punto 6”, di cui però io uso e male, solo qualche funzione elementare della versione punto 1. Questo comporta che per mettere in ordine i miei libri io debba spesso ricorrere all’assistenza di una mia amica , maga del File Maker come pure di ogni altra diavoleria informatica. Se il termine informatica sia stato da me utilizzato appropriatamente in questo contesto sinceramente lo ignoro, infatti, nonostante l’impegno, non riesco ancora a capirne a pieno il significato. O meglio, se spiegatomi, mi resta chiaro per pochi minuti, dopo di che svanisce nell’indifferenziato magma della mia ignoranza di ritorno. Quanto alla mia amica non ne scrivo il nome perché non vorrei correre il rischio che prendiate a rivolgervi a lei per i vostri dubbi informatici sottraendole tempo per risolvere i miei. Comunque alla fine scoprii che se non rintracciavo il famoso libro era perché non era catalogato sotto "All’amico che non mi ha salvato la vita", ma, attenzione, sotto “A’ l’amì qui non m’a pas sauvé la vie.” Questo per dirvi che donna sono io. Infatti non ricordavo di averlo letto in francese. So che questo potrebbe significare che mi sono spinta ormai troppo in là nella perdita di neuroni e sinapsi, ma, se ci pensate, può anche significare, come in effetti è, che io leggo indifferentemente in italiano ed in francese e che il francese mi è così congeniale ed ormai così connaturato, che aver letto un libro in italiano o in francese non comporta per me alcuna differenza. A questo piccolo particolare ci tengo. Poiché da questa mia opera deve uscire di me un’immagine apparentemente dequalificante ma sottesamente positiva, cominciare con lo stabilire che leggo in, almeno, due lingue mi sembra fondamentale.
Rintracciato il libro, che per inciso non vale proprio niente e anzi mi stupisco che Gallimard abbia potuto pubblicarlo, ho rapidamente verificato l’esattezza dei miei ricordi e ne ho tratto così il mio primo post post-strutturalista. Questo gioco di parole tra post, termine inglese per “messaggio testuale, con funzione di opinione e commento, inviato ad uno spazio comune su Internet per essere pubblicato, da to post, spedire” e post, “dopo, dal latino”, non è voluto, ma casuale; lo accolgo però volentieri e anzi ci sformo anche un po’ per non averci pensato io. Continua...

martedì 29 gennaio 2008

la 194 è in pericolo?

Giorni fa avevo lasciato un commento sul blog bioetiche tenuto da Chiara Lalli e Giuseppe Regalzi, un blog molto interessante e vario, che spazia liberamente anche al di fuori dei temi strettamente indicati dal suo nome.
Il loro post di ieri è una risposta esauriente ed articolata alla mia domanda.
Lo riporto per intero.


LUNEDÌ 28 GENNAIO 2008

L’aborto e il prossimo governo Berlusconi
Una commentatrice ci chiede: «Secondo voi quanto tempo passerà prima che il probabilissimo nuovo governo Berlusconi metta una mano pesante sulla 194?». Provo a rispondere in questo post.

Non credo che il prossimo governo Berlusconi (che a questo punto definirei certo, e non solo probabile) metterà mano direttamente alla legge 194/1978, che regola l’aborto. Questo non sarebbe nello stile dell’uomo, che non si è mai dimostrato granché sensibile ai cosiddetti temi ‘etici’ – glielo rimproverava di recente lo stesso Giuliano Ferrara – come del resto a qualsiasi cosa che non costituisca un suo interesse personale e diretto. Berlusconi eviterà dunque la grana, e lascerà per il resto che i suoi alleati integralisti continuino nell’opera di vanificazione indiretta della legge. La strategia è in corso da diversi anni, e il favore di un governo amico – o meglio: un po’ più amico del precedente governo di centrosinistra – non farà una grandissima differenza, anche se indubbiamente porterà a un’accelerazione. Ed è una strategia preferibile allo scontro frontale, che susciterebbe un’opposizione pericolosa; meglio, molto meglio addormentare gli animi con la rassicurazione che la legge non sarà toccata.
I caposaldi della strategia antiabortista sono tre:

la delegittimazione dell’aborto, descritto come un omicidio o addirittura come il peggior genocidio della storia. Il senso della «moratoria» di Ferrara è questo, al di là delle inesistenti possibilità di una sua applicazione pratica: creare una pressione sociale, una riprovazione morale fortissima e automatica. L’aborto deve ridiventare clandestino – ma non nel senso che tutti paventiamo, di ritorno all’illegalità e alle mammane: clandestino innanzitutto nel senso che le donne dovranno vergognarsi di praticarlo, e temere il giudizio del proprio ambiente. Quando l’aborto diventa qualcosa di indicibile, che non si può confidare a nessuno, diventa anche difficile da praticare: devi allontanarti dalla tua città, cercare un medico che non conosci, etc. La clandestinità vera e propria è la logica conseguenza di questa situazione – ed è una conseguenza voluta e scientemente perseguita. Aspettiamoci dunque nel corso della nuova legislatura un’escalation di condanne morali, che diventeranno sempre più parossistiche, coinvolgendo un gran numero di «convertiti» e occupando tutti i mezzi di comunicazione disponibili.
La compiacenza per la crescente obiezione di coscienza. Qui la missione degli antiabortisti consiste semplicemente nel non fare nulla: le tendenze in corso portano inevitabilmente a un numero crescente di medici obiettori, che già in alcune regioni rende quasi impossibile la pratica dell’interruzione volontaria di gravidanza. La pressione sociale agisce anche sui medici, e non stupisce dunque che nei confronti di una pratica ancora legale ma di fatto sempre più condannata dalle tendenze culturali in corso, molti sceglieranno di gettare la spugna. La legge 194, per la verità, prevedeva delle misure atte ad impedire questa situazione, come la mobilità del personale (art. 9); ma sono rimaste lettera morta sotto i cosiddetti governi «progressisiti», figuriamoci sotto un governo Berlusconi.
L’inserimento del Movimento per la Vita nelle strutture pubbliche. Le donne verranno incanalate nei pochi ospedali dove si praticherà ancora l’aborto, ma qui incontreranno i volontari «per la Vita», che cercheranno di persuaderle in tutti i modi a recedere dal loro proposito. Il Movimento assumerà inoltre man mano il controllo dei consultori – una posizione ancora più strategica per esercitare pressione. Fondi pubblici verranno stanziati per sostenere queste iniziative, come già avviene in certe regioni.
Lo scopo finale, ritengo, è di rendere l’aborto legale sempre più difficile: la pressione sociale, la difficoltà di trovare medici che lo pratichino, la prospettiva di affrontare la propaganda antiabortista, indurranno sempre più donne a rivolgersi alle strutture clandestine (con aumento vertiginoso dei costi, e in parte anche dei rischi), ad andare all’estero, o a rinunciare del tutto. Quando i numeri dell’aborto legale saranno calati drasticamente – anche se ci vorranno molti più anni di quelli concessi al governo Berlusconi – verrà il momento dell’attacco finale alla 194, con la scusa che il fenomeno è ormai divenuto quasi irrilevante, e quindi «controllabile».

Si può fare qualcosa per contrastare questa strategia? Purtroppo molto poco. L’attacco culturale in corso è quasi incontrastato: gli stessi cosiddetti «progressisti» danno involontariamente una mano, indugiando sempre più (per un meccanismo prevedibile di difesa) nella retorica dell’aborto come «tragedia».
L’unica possibilità consisterebbe nell’introduzione della pillola abortiva, che spostando l’aborto in una dimensione maggiormente «privata» potrebbe contrastare almeno in parte le mosse degli integralisti – dai quali non a caso è sempre stata avversata in modo virulento. Proprio in queste settimane l’Agenzia italiana del farmaco dovrebbe terminare l’iter dell’autorizzazione all’immissione in commercio; se si arriverà a un esito positivo (ma qualche dubbio è ancora lecito), vedremo quasi certamente un tentativo del prossimo governo di rovesciare in ogni modo la decisione. Se questo non sarà possibile (molto dipende dalle competenze regionali), assisteremo a una gigantesca campagna terroristica sugli effetti collaterali della pillola, e all’imposizione di misure draconiane per la sua somministrazione, in particolare con lunghissime degenze ospedaliere, che ne vanificheranno ogni carattere di novità.

Questo il futuro prevedibile, per come appare a me. Spero di rivelarmi cattivo profeta – possibilmente non per eccessivo ottimismo...
POSTATO DA GIUSEPPE REGALZI ALLE 17:21

Devo dire che le argomentazioni di Giuseppe Regalzi mi hanno convinta. Ma non rassicurata. Una forma strisciante e sottocutanea di svuotamento della legge infatti renderebbe difficile anche una possibile mobilitazione da parte del movimento delle donne.

lunedì 28 gennaio 2008

a proposito di felicità



Diceva Snoopy: La felicità è un cucciolo caldo
Io mi associo.

felicità/uno/il mondo greco

Dopo avervi afflitti con la storia del mal di vivere e della depressione, vorrei rialzare il tono dell’umore generale, presentando una storia della felicità. A puntate anch’essa.
Sto infatti leggendo proprio “Storia della felicità” di Darrin McMahon, il cui tentativo di tracciare una possibile storia di questo sentimento così sfuggente, può forse inserirsi in quella nuova corrente di studi storici che si chiama Storia delle emozioni.

L’esergo posto ad inizio libro è bellissimo. È di Albert Camus e recita così: “La lotta stessa per raggiungere le altezze è sufficiente a riempire il cuore di un uomo. Dobbiamo immaginarci Sisifo felice.”

Quindi, concentriamoci molto ed immaginiamo Sisifo felice.

L’oggetto dell’indagine è difficile da definire, essendo la felicità qualcosa di essenzialmente soggettivo, come Freud già un secolo fa’ ebbe ad affermare.
Ma resta che il fine ultimo dell’uomo, su questa terra, è proprio essere felice. Almeno a credere a William James. Ed io sono portata a credergli.
Ma il modo di intendere la felicità varia moltissimo da una cultura all’altra e da un’epoca all’altra.

IL MONDO ANTICO
Quando gli esseri umani uscirono dalle tenebre della semplice animalità e cominciarono a chiedersi e a darsi spiegazioni sul loro destino, cominciarono anche ad abbozzare un quadro della possibile felicità. Ma il quadro della felicità, ahimé, non era felice. Per qualche secolo gli uomini si dissero: la felicità non dipende da noi. La nostra volontà è ininfluente.
Tutte le civiltà del Mediterraneo, Asia Minore, Egitto, fino alla Persia e Mesopotamia, hanno la stessa concezione fatalistica. Anche la Grecia ha della vita questa concezione tragica e ineluttabile: sono gli Dei a decidere della nostra felicità o infelicità e, al di sopra degli Dei stessi, il Fato.
Eppure è in Grecia, come sempre, che comincia a farsi strada l’idea che la felicità possa essere conquistata dall’uomo, che la sua azione, individuale e collettiva, possa avvicinarlo a questa meta.
È Socrate a porsi, per primo,” il problema delle condizioni necessarie alla felicità”.
Socrate era un filosofo molto pratico. Mentre gli altri pensatori dell’antichità si concentravano sullo studio delle scienze naturali, e si interrogavano sulla natura del mondo e sulla possibilità di conoscerlo, Socrate inventava l’etica, che allora significava semplicemente lo studio della condotta umana, e indagava il modo migliore per vivere la nostra vita. Così cominciò a parlare di felicità.
Ma quando Socrate parla di felicità non pensa al semplice edonismo; il suo ideale di felicità è più alto, più nobile del semplice soddisfacimento dei nostri sensi e del godimento dei nostri beni.
Platone (è sempre di lui che dobbiamo fidarci, quando si parla di Socrate) nel Simposio gli fa affermare che la felicità dipende da noi, ma non va cercata nelle direzioni in cui uomini e donne si sentono spinti a cercarla dai propri desideri mal controllati: il piacere, il potere, la ricchezza, la fama, persino gli affetti familiari. Cioè l’effimero, ciò di cui approfittare al momento, nel mondo tragico dominato da altre volontà che la nostra.
Al posto di tutte queste cose Socrate predica la Filosofia, sostenendo che solo un’anima ben ordinata e l’elevazione di Eros, il desiderio, può avvicinarci alla nostra meta. Eros, che è a metà strada tra saggezza e follia, può essere disciplinato e la sua forza può essere diretta verso il vero bene e la vera bellezza: la norma morale custodita dentro di noi, il rispetto della nostra voce più autentica, la disciplina del desiderio e l’ordine dell’anima portano felicità. Questo dice Socrate e con lui Platone.
E Platone ci propone di ri-orientare i nostri desideri, per cambiare la parte più pesante ed opaca della nostra natura umana. Socrate e Platone puntano il loro sguardo in alto.
Sarà Aristotele a riportarlo sulla terra.

Aristotele osserva le cose di questo mondo con molta più indulgenza.
Nell’Etica Nicomachea afferma che ogni creatura persegue un suo fine. Quello della creatura umana è coltivare la facoltà che ci distingue da tutte le altre creature, il ragionamento, e agire di conseguenza. Essere un uomo buono significa vivere secondo la nostra particolare virtù umana: la ragione. E l’uomo buono è un uomo felice.
La felicità è una “attività dell’anima conforme a virtù”. Non sembra una grande apertura rispetto alla lezione di Socrate e Platone, e invece lo è.
Aristotele rifiuta infatti l’idea di Socrate e Platone che la virtù sia sufficiente ad assicurare il raggiungimento del fine ultimo della creatura umana. “Qualcuno potrebbe possedere la virtù ma soffrire i peggiori dei mali e delle disgrazie del mondo.Costui non può essere felice, dice Aristotele. E pensare che mi era tanto antipatico!
Una felicità sia pure approssimativa può consistere per Aristotele anche in salute, sicurezza, piacere e prosperità, onori e riconoscimenti, buoni amici e buona fortuna. Di questa felicità però non bisogna accontentarsi, l’uomo deve tendere ad una felicità più completa, la sola che rappresenti lo scopo della sua presenza al mondo.
E chiunque, attraverso l’apprendimento e l’attenzione alla sua ragione, potrà raggiungere questa felicità superiore. Aristotele è incoraggiante. Questo sforzo porterà ad essere felici la maggior parte degli esseri umani.
Però c’è un però.
Tutti coloro che per loro natura siano mancanti di ragione e quindi della capacità di usarne per raggiungere la virtù, non raggiungeranno mai la vera felicità aristotelica. Tra questi privi di ragione per Aristotele ci sono: gli schiavi, le donne, i bambini e coloro che sono privi dei mezzi necessari per avere del tempo libero da dedicare alla riflessione, all’istruzione e all’esercizio della loro ragione.
La felicità in pratica era riservata ai maschi, liberi e dotati di mezzi!


Chi invece sembra mosso a pietà dalle sofferenze degli esseri umani e dal loro destino e dichiara senza mezzi termini che una filosofia che non allontani le sofferenze dell’anima è come un medicamento inutile per il corpo, è Epicuro.
Gli esseri umani sono responsabili della loro propria felicità, ma in accordo alla loro natura. È questa la parola chiave: natura. A partire dalla sua concezione fisica radicalmente materialistica Epicuro insiste sulla centralità del piacere, ponendosi in contrasto con Socrate, Platone e Aristotele.
Secondo Epicuro l’universo è composto interamente dalla combinazione di materia e vuoto, atomi e nulla. Gli dei beati e immortali non si occupano del mondo o dei suoi abitanti.
Gli esseri umani sono semplici aggregati di materia e le sensazioni sono la fonte di ogni esperienza e di conseguenza la fonte di ogni bene e di ogni male.
Ma a dispetto di tutte le nostre volgarizzazioni e dell’uso comune di edonismo ed epicureismo come termini pressoché sinonimi, la dottrina epicurea è una dottrina ascetica, che comporta una precisa regolamentazione dei desideri.
Il piacere di cui parla Epicuro non è edonismo spiccio, ma ASSENZA DI DOLORE FISICO (aponia) e ASSENZA DI ANGOSCIA O ANSIA MENTALE (atarassia). Questi sono i veri fini, non eccessi di piacere o sottrazioni della coscienza.
In un frammento Epicuro lo dice esplicitamente.
Lettera a Meneceo:

“Quando diciamo che il fine è il piacere, non parliamo del piacere degli edonisti o dei sensuali, come pensano gli ignoranti(...), ma della libertà dal dolore fisico e dalla sofferenza spirituale....”



Per Epicuro i desideri veramente necessari sono estremamente limitati: la felicità richiede poche cose. Cibi e bevande frugali, un rifugio e un minimo di sicurezza dovrebbero bastarci, se teniamo in ordine i nostri desideri. “Colui che non è soddisfatto di poco non è soddisfatto di nulla”.
In fondo Epicuro era uno statistico: la nostra felicità dipende dalla percentuale di soddisfazione dei nostri desideri. Riducendo drasticamente il numero dei nostri bisogni noi ci assicuriamo la possibilità di soddisfarli interamente, divenendo anche più liberi. Il compito dell’insegnamento filosofico di Epicuro è quello di addestrare a quest’opera di limitazione dei nostri bisogni.
Epicuro pensa che tutti possano raggiungere la felicità adottando la sua filosofia: accetta donne e schiavi nel giardino dove tiene le sue lezioni e predica la fratellanza tra tutti gli esseri umani.


Mentre i loro grandi filosofi discettavano sulla felicità e sul bene, i Greci tentavano di strappare alla vita qualche sorriso.
Quello lieve dei κυροι,



le grandi statue di giovani fiorenti che ancora ci incantano nelle sale dei musei.
E qualche sorriso più carnale, quello di Dioniso e delle sue feste.
Poiché in qualunque momento gli Dei potevano mostrare la loro faccia crudele, tanto valeva approfittare dei loro brevi momenti di distrazione.
Le feste dionisiache si svolgevano a primavera e se culminavano con la presentazione di nuove tragedie, erano comunque una chiassosa, allegra celebrazione del dio del vino.
Si beveva, si danzava, si portava scherzosamente in processione un gigantesco fallo; dopo la tragedia si assisteva alla rappresentazione di un “dramma satiresco”, una farsa leggera in cui un coro di satiri si esibiva tra le risate del pubblico.
Oltre le Dionisiache numerose altre feste e processioni religiose consentivano, dopo i giorni di digiuno e di astinenza, scoppi di allegria, festeggiamenti pubblici, danze, canti e gare sportive. C’erano anche feste più private, banchetti, simposi, con musica, danze, abbondanza di cibo e la presenza di etere e flautisti ad ornamento della serata e per la sua conclusione orgiastica. Questi simposi sfrenati però non erano la regola. Gli eccessi insospettivano i Greci e il simposio “temperato” (dal vaso di Colofone) era quello cui si dedicavano più comunemente. Del resto lo stesso simposio sfrenato aveva una sua ritualizzazione, ancora oggetto di studio.
E infine l’amore, cantato da tutti i lirici greci, consolava, allora come ora, delle pene quotidiane. Naturalmente finché durava!

domenica 27 gennaio 2008

al tramonto

Giornata della memoria



Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.
Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

sabato 26 gennaio 2008

sabato del villaggio

È sabato. Il ritmo da cardiopalmo di queste ultime quarantotto ore finalmente si placa. Butto il bicchiere di Nutella con cui ho addolcito il mio addio al Governo Prodi e torno alle mie quotidianeità.
Ma prima lascio per chi eventualmente si trovasse a passare un piccolo brano da leggere.


...Da ragazzo ero anarchico, adesso mi accorgo che si può essere sovversivi soltanto chiedendo che le leggi dello Stato vengano rispettate da chi governa. Da ragazzo amavo la Repubblica come idea, adesso come sostanza. Spesso penso che il nostro paese affronta amare sorprese per un’incapacità dei suoi abitanti a sentirsi liberi, e una tendenza a lasciar correre: a Roma dicono “ad abbozzare”...

È Ennio Flaiano ed è il 1957.

venerdì 25 gennaio 2008

Politica & prostata

Il mio venditore di articoli per animali e il mio idraulico di fiducia, ridono e scherzano sulla porta del bar. Nel passare saluto e l’idraulico mi fa: “Lo prende anche lei un caffé per festeggiare?” “Festeggiare cosa?” domando ipocritamente. “La caduta del Governo!” fa l’idraulico. “Non mi sembra che ci sia niente da festeggiare”, faccio io, mentre la temperatura della comitiva comincia a scendere. “A signò-fa Marcello l’idraulico- ‘sto governo ce stava a rovinà, co tutte quelle tasse... “E a lei che gliene importa Marcé? Lei non le ha mai pagate le tasse! In 50 anni che ha lavorato per mia madre, per me, per mia figlia, non ha mai fatto una ricevuta. E mi devo pure preoccupare di farle trovare i soldi in contanti perché non accetta assegni, per evadere più comodamente!” “Io lavoro da quando avevo 15 anni! esclama indignato. “E allora? Vuol dire che sono cinquant’anni che non paga tasse! Lei si è operato di prostata al san Giovanni senza pagare un euro, no? Mi pare che ha preso da questo Stato più di quanto gli abbia dato. Buongiorno”. E me ne vado. A prendermi il caffè in un altro bar.


Entro dal giornalaio per fare il pieno di cattive notizie, mentre il mio edicolante, rosso in faccia, esclama all’indirizzo di uno pseudo restauratore a suo tempo attacchino dell’MSI e tra i più scalmanati fascisti di zona Colle Oppio. “La verità è che tecnicamente questo è un paese di merda!” En passant ricordo che una volta sentii dire allo pseudo restauratore che negli anni settanta si cercava solo donne di sinistra per “potersele scopare con più gusto”.
Prendo i miei giornali mentre quello ride “T’incazzi eh?- fa provocatoriamente al giornalaio-ve ce rode eh?” Mi vanno gli occhi su una bottiglia che tiene tra le mani. “Vernice acrilica” c’è scritto.
Tendo i soldi al giornalaio e mi rivolgo direttamente al fascista: “Lo sa che le vernici acriliche fanno venire il cancro alla prostata?” dico indicando la bottiglia che tiene in mano. Il sorriso gli muore sulla faccia. Apre la bocca per rispondere ma lo precedo: “Auguri!” ed esco strizzando l’occhio al mio giornalaio.


Fa freddo e decido di fare un bel brodo. Aspetto il mio turno dal macellaio e passa il veterinario che ha lo studio a pochi passi. Ci salutiamo, lui guarda il giornale che ho in mano e commenta: Che paese! Già, concordo sinteticamente io.
Il mio macellaio, che è un filosofo e anche una bravissima persona di destra, chiosa “Tanto passano tutti”. Salta su inviperita un’ anziana signora: Eh no, questi passano! Berlusconi non passa, lui al governo ci resta altri vent’anni.!”Faccio per aprire bocca, senza sapere minimamente che cosa la mia bocca stia per dire, quando il veterinario, uomo mitissimo, la investe con un fulmineo: “Non credo proprio, col tumore alla prostata al massimo governa altri cinque anni.”
-Ripasso dopo- dico al macellaio e mi butto a ridere fuori del negozio!
Questa è la mattinata della prostata!

Prima Regola di Sopravvivenza

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimé quante ferite,
che lividor, che sangue! oh qual ti veggio,
formosissima donna! Io chiedo al cielo
e al mondo: dite dite:
chi la ridusse a tale?



Caro Giacomo, io non dubito neanche per un secondo che tu sia qui accanto a me a ripetere i tuoi versi mentre io me li ripeto.
Li conosco a memoria, perché la mia Prima Regola di Sopravvivenza recita: conoscere a memoria i Canti di Leopardi per poterseli recitare in caso di bisogna.
Tu sai che la bisogna si presenta spesso per me. Io so che funzionano.
Tutte quelle storie Giacomo, tutte quelle discussioni tra critici, per stabilire se il tuo famoso pessimismo fosse cosmico, esistenziale, e bla e bla e bla. Che perdita di tempo!
Non sentono la semplice energia che nasce dai tuoi versi? La sferzata, che nessuna immagine penosa riesce a smorzare, con cui investi chi ti legge?
Dai, ripeti con me, Giacomo, ho inventato per te una voce e la sento chiara se non bella, dietro di me. Non avevi nulla di bello Giacomo, scusa se te lo dico.
Eri solo straordinariamente bello tu. Ecco.
Adesso ce lo ripetiamo un paio di volte, il tuo All’Italia, eh Giacomo e poi rinfrancata me ne andrò a dormire.
No, non lo riporterò tutto, troppo lungo, troppo solenne, forse per alcuni troppo scolastico. No, davvero, non avertene a male.
Dunque, dove eravamo arrivati?
Ah, sì ....E questo è peggio,
che di catene ha carche ambo le braccia;
sì che sparte le chiome e senza velo...

giovedì 24 gennaio 2008

Attenzione!

A tutti i PROVOCATORI: sappiate che, alla notizia dell'avvenuta votazione al Senato, ho attuato la mia Trasformazione in Power Ranger Mystic Force!




Tenetevi per avvertiti!

ThyssenKrupp

Dal Manifesto:

Banca popolare etica, IBAN IT40 K050 1803 20000000 0535 353
Il c/c è intestato a "Solidarietà vittime ThyssenKrupp, via Bargoni 8, 00153 Roma.

E' qui che, se vogliamo, possiamo far arrivare un bonifico, anche modesto, per le vittime del rogo della ThyssenKrupp.

segnalazione

Su Azzurroho trovato una notizia che riguarda, creo, tutti i bloggers.
Ringrazio Ivan, senza il quale l'avrei ignorata.

morale laica

C’è un altro piccolo libro che vorrei segnalare. “Essere laico” dei tascabili Bompiani. In esso Alain Elkann intervista Umberto Veronesi.





Sollecitato dalle domande garbate, ma precise e stringenti di Elkann, Veronesi racconta la sua vita, da quando resta orfano di padre a soli cinque anni, fino all’oggi e al suo impegno nella battaglia per sconfiggere il cancro ed insieme in quella per venire incontro a molti dolori, non solo del corpo, di donne ed uomini del nostro paese.
Naturalmente, come dichiara il titolo, il tema del rapporto tra la religione e la scienza, è al cuore dell’incontro e secondo me l’immagine che ne esce di Veronesi è quella di un uomo molto religioso. Di una religiosità che si chiama empatia, solidarietà, partecipazione alla sofferenza della famiglia umana.
A mio avviso le sue parole, ma la sua vita stessa, dimostrano che concetti come spiritualità, religiosità e moralità vanno al di là della partecipazione a questa o quella dottrina religiosa. Sono, o non sono, iscritte nella coscienza di ogni uomo.

All'ultima domanda: "Professore, lei ha trascorso un'infanzia cattolica e una vita adulta da laico. Pensa che la vita si attraversi meglio con la fede o senza fede?"
Veronesi risponde:
"La fede in Dio e la conseguente sottomissione alla Sua volontà rappresentano una limitazione alla nostra libertà di pensiero. Rompere questo vincolo è un atto di coraggio che si deve accompagnare però a una nuova consapevolezza sulle responsabilità che si uniscono a questa conquista.Essere laici significa quindi essere liberi, ma eticamente responsabili, non più nei riguardi di Dio, ma nei riguardi dell'umanità. A queste condizioni la vita diventa più piena e più ricca."

Io mi permetto di aggiungere alla umanità, anche le altre creature animali.

con cautela



Si legge in due ore, a patto di restare in punta di piedi e di tenersi, per precauzione, un po’ in superficie. Se no ce ne vorrebbero quattro volte tante. E se ne uscirebbe un bel po' ammaccati.
Si chiama “Diario di un dolore” ed è di C.S.Lewis, l'autore delle Cronache di Narnia. Edito da Adelphi.
È un piccolo libro che parla a tutti coloro che abbiano provato il dolore della perdita di un caro. Lewis parla della morte della moglie e di come il dolore si muova e si formi e si disponga dentro di lui e delle “figure” che assume.
L’osservazione e la riflessione sono accompagnate da una serie di domande che interpellano la sua fede cristiana.
L’approdo pare a me una dignitosa accettazione degli impegni assunti come cristiano.
Ma non sono la persona adatta per commentare questo aspetto. Invece, per quanto riguarda l’analisi del dolore, è così dettagliata e attenta, senza abbandoni e senza patetismi, che assume il carattere di un trattato. Scritto però sul proprio dolore pulsante.

mercoledì 23 gennaio 2008

Fratelli d'Italia

Voi direte, ma che c'entra?
E invece c'entra, c'entra...

ancora sui fatti della Sapienza/tre

Dall' intervista a Stefano Rodotà apparsa sull'Unità on-line

Rodotà: «L’Angelus non può essere un’adunata politica»
Bruno Gravagnuolo

«Questo Papa si comporta come un leader politico ed è anche percepito come tale. Nessuna meraviglia quindi che ci siano reazioni contrarie: è la democrazia. E vittimismo e appelli integralisti sono fuori luogo». È netto Stefano Rodotà, ex garante per la privacy, giurista «bioetico» e studioso dei diritti nell’era della tecnica: la chiamata a raccolta all’Angelus dei politici non fa che confermare una tendenza «regressiva». Che confonde, senza residui, politica e religione, agire pubblico e agire religioso. Generando un cortocircuito arcaico che è la negazione di ogni laicità. Come nel caso della visita del Papa organizzata a Roma. Dove, sostiene Rodotà, «si è voluto mediaticamente rilanciare l’Istituzione dell’Anno Accademico con un’iniziativa incongrua e pasticciata». Fino a criminalizzare chi dissentiva su un’intervento non certo da libero pensatore tra gli altri. E «reclamando Voltaire solo per Ratzinger». E non per i docenti che avevano espresso contrarietà a quel tipo di visita. Sentiamo Rodotà.

Politici, sindacalisti, parrocchie. Tutti all’Angelus del Papa, in risposta all’appello di Ruini. Un’adunata politica in stile esercito della Santa Fede?

«È la conferma di un dato su cui non si riflette abbastanza. E cioè: non è solo questione di percezione sociale. Bensì di un atteggiarsi del Papa a leader politico che chiede solidarietà e consenso. Non è una forzatura. Già prima della storia dell’Università, c’era stato un attacco durissimo del Pontefice alla gestione di Roma, alla presenza di Veltroni e Marrazzo. Seguito da una procedura tipica della peggior politica. Una trattativa sotterranea tra gli staff, volta a “rettificare” strumentalizzazioni e travisamanenti di stampa. Procedura quasi berlusconiana, per lanciare avvertimenti e poi modificare le carte in tavola. Con le dietrologie del caso sui dissensi tra Ruini e Bertone».

La Chiesa si comporta come un partito, ma poi reclama tutele...

«Esatto, come all’Università di Roma. Le cosiddette reazioni politiche di chi ha reagito alla visita, sono state il contraccolpo di un’azione papale che muovendosi in chiave politica deve poi sottostare alle regole della democrazia. Regole che includono anche la contestazione del Papa».

Ma quella del Papa era una visita pastorale, l’intervento in un dibattito, un suggello all’Anno Accademico, o che altro?

«Tutti hanno invocato Voltaire. Ma solo per Ratzinger, non per Marcello Cini e i dissidenti! Se il Papa ha il diritto di esprimere la sua opinione, a maggior ragione lo hanno Cini e Bernardini, che parlavano in casa propria, dove non c’è un’autorità gerarchica. E dove anche una sola opinione ha valore. Aggiungo che l’occasione era stata ideata in maniera goffa. Prima una prolusione, poi il negoziato su un discorso dopo l’inaugurazione di una cappella. C’erano tute le premesse perché la vicenda finisse male».

Nessuna oltranza da parte dei laici?

«No, ma una legittima manifestazione di opinione. Meno che mai tale, perché non si potesse venire all’Università. Le condizioni di sicurezza erano garantite dal Ministro dell’Interno. E che ci si potesse imbattere in studenti che erano contrari, era del tutto all’interno delle regole democratiche, le quali prevedono dissenso e conflitto. Ed è incongrua, da questo punto di vista, la pretesa di distinguere tra Ratzinger mite teologo e un Papa leader politico che tuona contro la scristianizzazione e vuole rilanciare dall’Italia la riconquista cattolica del mondo».

Laici subalterni dinanzi a questa offensiva?

«Molto subalterni. Anche se c’è un uso esagerato del termine “laicità”. No, ci troviamo di fronte alla necessità di rispettare regole democratiche minime: il diritto di tutti a esprimere opinioni. Il Rettore invita il Papa all’Università, e alcuni professori dissentono. E poi: il Papa si immerge nella contesa politica? Si comporta da leader ideologico e politico? Ovvio che possa esserci una reazione, specie da parte di studenti e professori attenti ai diritti civili».

Torniamo all’Angelus. In fondo è una svolta senza precedenti, nemmeno nel 1948 era così...

«Non c’è dubbio che c’è una regressione clericale. E la discrezione richiesta tante volte alla politica, la sobrietà e il distacco, vengono clamorosamente violati. Uno studioso non certo anticlericale come Adriano Prosperi ha detto: attenti al ritorno del Papa Re! E una politica seria e responsabile, a destra come a sinistra, avrebbe avuto il dovere di criticare come impropria una tale chiamata alla solidarietà, in un’occasione liturgica come l’Angelus. Qui c’è una confusione di piani inaccettabile, che dimostra la debolezza strutturale di una politica ormai senza legittimazione, e che va a cercarsela fuori. Proprio come all’ Università di Roma. Si è pensato di poter rivitalizzare l’obsoleto avvio dell’Anno Accademico, allestendo un palco mediatico. E svilendo sia la presenza del Papa sia la cerimonia»

Ma c’è una «teoria democratica» di tutto questo: ruolo e rilevanza pubblica della religione. O no?

«Alla carta dei valori Pd, su questo punto, dobbiamo dare il giusto significato. Ovvero: anche il punto di vista religioso deve potersi esprimere nella sfera pubblica. Ciò detto, la religione entra nella sfera pubblica accettandone le regole democratiche. E non dettando le regole. Nessun privilegio, nessuna primazia. Ecco la lettura corretta e coerente della Carta dei Valori. Che infatti respinge la pretesa di ravvisare nelle “radici cristiane” il fondamento dell’Europa.

Ma la laicità è un puro terreno neutro di incontro, oppure è un’istanza di valori positiva e fondante?

«Assolutamente un’istanza positiva, non oppositiva al clericalismo. Quell’istanza coincide con la democrazia stessa e le sue regole. La tolleranza, il confronto, il rispetto dell’altro, sono consustanziali alla laicità della democrazia. Il che implica un’assoluta parità tra i diversi soggetti in gioco, con tutte le conseguenza del caso. Che si possano pretendere trattamenti privilegiati, che la religione sia una pretesa civile, è contrario ai princìpi fondamentali della democrazia, a cominciare dal principio di eguaglianza».

segnalazione/ancora sui fatti dell'Università/due

E' sempre Mariateresa che mi segnala la possibilità di firmare una petizione online di solidarietà ai famosi vituperati 67 docenti della Sapienza.
Ecco dove
La mia firma è la quindicimila zero quattro.
Non poche, no?

ciò un blog/capitolo uno

Ciò un blog ovvero Come trasformare un bla bla immateriale in un libro inutile a maggior gloria della odierna editoria.

Capitolo primo.

Ciò un blog. Stabiliamo preliminarmente che quel 'ciò' non significa 'questa cosa', non è cioè il pronome dimostrativo, ma la grafia che più mi aggrada per dire 'io ho'. Potrei e forse dovrei scriverlo c, acca, o, 'c’ho', ma a me quella c così sola, irresistibilmente mi suona dura sicché il 'c’ho' io lo leggo 'co'. Forse a voi non succede, ma a me sì e in fin dei conti l’autore sono io, no? L’autrice veramente.
Sono autrice e ciò un blog. Ci tengo a farvelo sapere perché il blog segna l’apice della mia sfacciataggine autoriale. Perdonate la nuova digressione, ma se i patti sono chiari l’ amicizia si prolunga, sicché.
Il termine autoriale, è oggetto di una controversia linguistica, tra chi lo vuole scritto con la i, come ho testè fatto io e chi lo vuole scritto senza la i, autorale.
Mi sembra che i due caposcuola siano, rispettivamente, Giuliano Ferrara e Sabina Guzzanti, di cui ricordo una disputa televisiva a botte di “incolta” e “grassone”. Noterete che mi sono schierata con Giuliano Ferrara. L’ho fatto per questioni di peso, in un corpo a corpo anche dialettico mi triturerebbe. Per tornare alla mia sfacciataggine, e al mio blog, ho deciso di tenerne uno, non perché io abbia qualcosa di urgente e significativo da dire al mondo, ma per farmi compagnia in giornate piatte e avvilite e risolvere, senza troppa fatica, un vecchio problema di realizzazione.
Infatti scrivere un blog è molto meno difficile che scrivere un libro e non prevede la necessità di sottoporre il proprio lavoro allo sguardo selezionatore di un editore. Si scansa così il rischio mortificante del rifiuto e dell’insuccesso, il terribile rischio dell’annichilimento di tutte le proprie ambizioni e della propria ragione di essere. Nessuno può legittimamente dirti, no questo blog fa cagare, non puoi pubblicarlo. Tu lo butti là nel maremagnum we-we-webbico e chi si è visto si è visto. Inoltre potrai sempre dire di aver scelto un modo post-post-moderno, democratico e globalizzato di comunicare. Una scelta che dovrebbe da subito collocarti nella parte avanzata del mondo delle lettere. E nelle cene in società potrai sempre dire: ciò un blog. Che poi, a dirlo a voce, nessuno si rende conto se questo "ciò" lo stai pensando con l’acca e l’apostrofo oppure proprio così come lo pronunci.
Ho fatto cenno alla globalizzazione perché il mio blog io, ce l’ho in due lingue, italiano e inglese e sto studiando la possibilità di farmelo tradurre in un’altra lingua ancora. Però tentenno. Infatti non ho ancora capito bene se, ai fini dell’essere all’avanguardia e post-post moderni convenga che io me lo faccia tradurre in cinese o in arabo. Vecchie simpatie politiche mi farebbero propendere per il cinese, come pure la possibilità di avere lettori a miliardate, ma devo dire che l’arabo ha a sua volta le sue ragioni. La scelta dell’arabo infatti suona molto provocatoria, molto scontro-di-civiltà e inoltre il traduttore prende meno. Il perché non lo so. Sembra che i cinesi che bazzicano in prossimità del mio quartiere abbiano tutti una floridezza economica che li porta a considerare la traduzione un lavoro di seconda scelta, cui piegarsi solo con condiscendenza. E con richieste tariffarie decisamente alte per le mie finanze. Gli arabo-parlanti invece, sono decisamente più sfigati e si accontentano di molto meno pur di avere un lavoretto che non li costringa a trascinarsi enormi lenzuolate di souvenir dall’Esquilino al Ponte Sant’Angelo.
Voi vi chiederete che garanzia abbia io che il cinese o l’arabo in questione non si limiti a ingarbugliare caratteri alla carlona senza darsi davvero la pena di tradurre fedelmente e con un minimo di vivacità le pagine del mio blog. Non ne ho nessuna al momento, ma pensavo di ingaggiare un secondo cinese o un secondo arabo, cui far fare una supervisione del lavoro di traduzione del primo cinese. O del primo arabo.
Spero che le puntualizzazioni non vi annoino perché debbo farne un’altra. Riguarda il termine ‘alla carlona’. Io ho creduto per molti anni che questa espressione usata da mia madre si riferisse al modo trascurato e approssimativo di sbrigare le faccende domestiche di mia sorella Carla, che, essendo un po’ troppo florida ai tempi, poteva verosimilmente essere chiamata Carlona. Solo recentemente ho scoperto che l’espressione si riferisce invece all’Imperatore Carlo Magno, e al suo tratto semplice e bonario. Ora lo sapete anche voi. Del resto è pur vero che voi non conoscete mia sorella Carla e forse il quesito non ve lo sareste posto. Però io ci tengo ad essere precisa, questo è il mio primo libro e la scrittura deve essere, come sento spesso dire, meditata. Io la medito e all’occorrenza la chioso.
Il blog invece non lo chioso e, se è per questo, neanche lo medito. Infatti trovo che non ne valga la pena. Quando ho deciso di aprire un blog mi sono fatta una passeggiata esplorativa sui blog già presenti in rete nella mia lingua. La mia lingua, se aveste dei dubbi, è l’italiano. Non posso dire di averli esaminati tutti, ma dopo averne scorsi una cinquantina ho capito che quello che si richiede ad un blogger non è di avere qualche cosa da dire- e da questo punto di vista io sono perfettamente in linea- ma di mettersi a disposizione per uno scambio di commenti incrociati con altri blogger che parimenti non hanno nulla da dire. Non mi sfuggì che i commenti sono intinti nel miele ma la pasta è fatta di acida competitività.
Poiché ho spalle sufficientemente ampie per raccogliere commenti aggressivi e una lingua sufficientemente tagliente per ricambiare, sento di stare nel mondo blogger a buon diritto e con pari dignità di tutti gli altri.Continua...

martedì 22 gennaio 2008

segnalazione/ancora sui fatti dell'Università/uno

Al seguente indirizzo troverete la voce di uno dei 67 firmatari della famosa lettera al Rettore Guarino. Meriterebbe una risposta da tutti coloro che hanno utilizzato la loro civilissima forma di dissenso per armargli contro una indegna crociata. Ma immagino che nessuno si prenderà la pena di rispondergli.Almeno qui vorrei testimoniargli la mia solidarietà più convinta.

c'era una volta...

C’era una volta la giovinezza. Aveva lo sguardo scontroso di un ragazzo di vent’anni e il passo elastico di una ragazza di diciotto.
In quegli anni la giovinezza si portava di nascosto, come pure l’amore.
E’ controverso di chi fu la colpa e persino se colpa ci fu, ma quel primo amore fu dichiarato ufficialmente morto.
La ragazza volse altrove il suo passo elastico, lo sguardo del ragazzo, momentaneamente più ombroso, cercò altri sguardi.
Nei decenni che seguirono, nessun cenno, nessuna parola. Pensieri,forse.
Quando diverse stagioni della vita erano ormai trascorse, per effetto della dirompente modernità, il ragazzo e la ragazza, non più tali, tornarono a parlarsi.
Si interrogarono sulla persistenza di quell’amore e arrivarono a dubitare che fosse mai veramente morto.
Indubitabile era invece la morte della giovinezza.

lunedì 21 gennaio 2008

luoghi







Questa piazzetta l’attraversavo ogni giorno e salivo lungo la bella scalinata che ruotava tra i palazzi anni venti e trenta.



Andavo e tornavo dalla scuola elementare che portava e ancora porta il nome di Ruggero Bonghi, patriota, filologo, professore Universitario di Letteratura Latina, Ministro della Pubblica Istruzione dopo l’Unità di Italia, uomo di destra, liberale attento ad ogni nuovo fermento culturale. Il suo ritratto solennizzava la stanza della Direttrice.


Non so se sia ancora là. Conto di andare a gettare un’occhiata quando, nel prossimo autunno, il mio nipotino entrerà nelle aule dove prima di lui abbiamo studiato le mie
sorelle ed io, mia figlia e il figlio di mia sorella. Sarà la terza generazione ad affacciarsi sull’immenso cortile disadorno, a rincorrersi nei vasto corridoi dove, più spesso di quanto sarebbe ragionevole, ancora mi reco a votare.
Forse è stato il filologo Bonghi che mi ha ispirato l’amore per il latino e per la storia romana o forse sono stati quei resti così familiari da cui la piazzetta prende il nome: i resti del Tempio di Iside e di cui mio padre mi raccontò l’origine.
Ora sono protetti da una cancellata ed un pannello illustra i lavori che sono stati effettuati, segnala gli importanti ritrovamenti-statue, lucerne votive, ecc- e ricostruisce la storia di questo antichissimo luogo di culto.


Quando ero bambina i ruderi erano esposti ad ogni offesa, ma anche inseriti nella vita quotidiana della gente del quartiere. Vi si appoggiavano le biciclette, gli operai vi si sedevano a mangiare la ciriola con la mortadella, io mi ci arrampicavo per avvicinarmi ai gatti, che ne erano i veri, indiscussi proprietari. I gatti ne sono ancora proprietari, e da dietro la cancellata, beffardi, si sottraggono ad ogni confidenza indesiderata. Il centro della piazzetta è reso accogliente da qualche panchina, da sei alberi di aranci e da quattro bei lampioni. Fino all’anno scorso, passando quotidianamente per andare a trovare mia madre malata nella nostra vecchia casa, nelle belle giornate mi sedevo su una panchina qualche minuto.Tiravo il fiato.
Adesso cerco di non passarci. Ma oggi ho avuto il desiderio di rivederla e di raccontarla la piccola piazza. Le bambine vi giocavano al gioco della campana, quel gioco che prevede di entrare ed uscire, saltellando su un solo piede, da un disegno tracciato in terra con il gesso. Il gioco della campana mi era interdetto. Mia madre non voleva che noi giocassimo in strada. Era una madre apprensiva ed autoritaria insieme. Inoltre ne faceva, credo, una questione di classe. C’erano bambini che giocavano in strada e bambini che giocavano in casa. A me era toccato in sorte di giocare in casa. Passando sulla piazzetta mentre le altre bambine ripetevano la formula di rito e saltellavano allegramente, io rallentavo il passo fino all’inverosimile, mi trattenevo più che potevo, nel desiderio di partecipare anche io al gioco. Il gioco era il più comune già tra i bambini di Roma antica; si chiamava il gioco dello zoppo, il claudus ed è impossibile per me non pensare che forse proprio lì, nella piazzetta, davanti al tempio, saltellavano allegri i bambini romani di duemila anni fa’. Solo adesso sono in grado di misurare il significato di quel ripetersi di quel gioco di bambini, in quel luogo preciso. Allora, ero solo indispettita dal divieto materno e invidiosa della libertà dei bambini che giocavano in strada. Quando ero con mia madre dalla piazzetta si usciva in fretta. Sull’angolo infatti vi era un vinaio ed era tutto uno scaricare botti di vino, travasare da camion a botte e caricare casse di vino imbottigliato. L’odore di vino era fortissimo e per mia madre, astemia, fastidioso. A me piaceva, forse per spirito di contraddizione, o forse per un gusto precoce per il buon vino.



Proprio davanti al vinaio c’era una fontanella. Un camion la investì e quasi la distrusse negli anni settanta e per trent’anni circa la piazza ne fece senza. Recentemente è stata restaurata e rimessa al suo posto. È molto semplice. Ha la sua scritta regolamentare S.P.Q.R. incisa sulla pietra e le sue due cannelle di rame. Quando mancava l’acqua in casa-e quando ero bambina succedeva spesso-mia madre ci mandava a prendere l’acqua a quella fontanella. C’erano due file, una per ogni bocchetta. A me piaceva andare a prendere l’acqua, era una specie di avventura, un tocco di imprevisto e ardimentoso che improvvisamente si inseriva nelle giornate protette della mia infanzia.
Accanto al vinaio c’era una trattoria. Era tenuta da una signora di cui si diceva che cucinasse i gatti: la sora Giovanna, una donna alta, formosa, bionda, con un bellissimo sorriso. Io mi rifiutavo di credere a quella voce, vorrei rifiutarmi ancora, ma temo che per qualche anno sia stato vero. Poco più in là un’ebanisteria e il falegname portava sulla strada i suoi mobili e lì li dipingeva. L’odore della segatura e della vernice tentavano di sbarrare il passo a quello del vino.
Di fronte invece c’era una tipografia e da lì usciva l’altro odore della mia vita di bambina: carta e inchiostro! Odore buonissimo nel quale mi tuffavo con un piacere cui non sapevo dare un nome. Era l’odore che respiravo anche quando andavo a trovare i miei nonni materni che avevano casa sopra un giornale. Di quel mondo-favoloso, straordinario, fatale per me-racconterò un’altra volta.
Ora resto alla piazzetta. Pochi passi dopo il vinaio, in una piccola strada privata, si aprivano, a livello della strada, le finestre protette da pesanti inferriate delle cantine del nostro palazzo.


Una volta l’anno, in autunno, l’inferriata si apriva verso l’esterno, uno scivolo veniva accostato e un quintale di carbone sferragliava rovesciandosi nella cantina. Era la provvista che avrebbe alimentato per tutto l’inverno la grande stufa della cucina. Mia sorella ed io ogni tanto venivamo mandate a riempire il secchio di carbone in cantina. Questo incarico mi piaceva meno. La cantina era lunga e stretta; la zona del carbone era separata dal resto dell’ambiente da una lunga e pesante tenda cerata che doveva isolarne la polvere. Al di qua c’erano oggetti misterioso ed appetibili, tenuti in inappuntabile ordine e pulizia dalla disciplina di mia madre; al di là della tenda il grosso mucchio del carbone, qualche paio di guanti, le pale ed i secchi. E l’aria subito acre alla prima palata e la polvere nera che mi si posava addosso.
Ma una volta risalita in casa, alimentare il fuoco era bellissimo. Gli scintillii delle fiamme, il crepitio sonoro, la vampa di calore che mi investiva quando aprivo lo sportelletto e mi accostavo al cuore della stufa, avevano un fascino segreto. O che tentavo di conservare tale.
Adesso le inferriate sono state fissate, la cantina ridipinta e quasi del tutto sgombrata.
Passandole davanti io guardo in terra e mi scappa un sorriso. Il nostro cane Pippo, improbabile incrocio tra un barbone e un cocker, riccio e nero proprio come il carbone, aveva una speciale predilezione per le inferriate delle cantine e nella passeggiata mattutina bisognava vigilare che non le battezzasse della sua prima pipì della giornata. Erano passati molti anni dalla mia infanzia. Pippo si slanciava su per la scala di Piazza Iside e io lo rincorrevo in affanno. Era intrepido e molto puttaniere. Quando io arrivavo in cima alla scalinata-76 scalini, in quattro gruppi di 14-lui già infastidiva la cagna del carrozziere che aveva la sua officina proprio in quella che adesso è la mia palazzina. Fu così che un giorno lo perdemmo. Seguì un odore per lui irresistibile, prese la via e a nulla valse chiamarlo e rincorrerlo. Per fortuna quella mattina era uscito con mio padre o sarei stata diseredata! Ma la regola, mai detta, del trattare con Pippo era: sacrificarlo il meno possibile. Aveva una vitalità pazzesca e un caratterino molto volitivo. Annunci sul giornale, peregrinazioni, visite in case altrui dove cani ritrovati somiglianti ma altri dal nostro ci aspettavano per deluderci, la casa a lutto, la testardaggine di mio padre: tornerà. Per più di due mesi dedicammo ogni nostra energia alla ricerca di Pippo, una famiglia di cinque persone che disperatamente voleva ritrovare la sesta. La ritrovammo. Ci telefonarono di sera tardi. Ci segnalavano un cane che non si lasciava avvicinare e che urlava alla notte la sua disperazione, al di là di Piazzale Flaminio, lontanissimo da noi. Partimmo tutti e cinque, sicuri che quella fosse la segnalazione giusta. Una vecchia signora, elegante, squisita, mandava da tre sere il suo maggiordomo a portare acqua e cibo al cane. E questo aspettava che se ne fosse andato prima di avvicinarsi a bere e mangiare.
Il maggiordomo ci accompagnò dove da tre sere lo incontrava. Ma prima ancora di arrivare, mentre gridavamo nella notte in ogni direzione il suo nome, da un punto che ancora non riuscivamo a vedere, Pippo lanciò un suono che posso ancora sentire, una specie di lamento di rabbia, disperazione e sollievo insieme, un suono che ebbe l’effetto di farci ridere e piangere all’istante. La gioia è davvero una cosa fantastica! Quella gioia ancora ci alimenta ogni volta che ricordiamo tra noi l’episodio. È come il carbone per quella stufa, ci nutre. I dolori non muoiono, non del tutto; ma anche le gioie non muoiono. È per questo che possiamo amare la vita.



Una delle sue ultime passeggiate mia madre la fece proprio nella piazzetta, che, benché vicinissima, era già molto lontana per lei. Era appena stata restaurata e mia sorella ed io volemmo fargliela vedere. Ci fermammo al sole e lei si guardava intorno, con un piccolo sorriso. Parlava poco ormai, ma si vedeva che era incuriosita dalle novità e soddisfatta per l'ordine e la pulizia della piazza. Volle farne un giro, osservando tutto meticolosamente. Mia sorella ed io le illustravamo le piccole meraviglie come due guide ad un turista e lei invece ci rispondeva con il piccolo cenno di approvazione e assenso con cui un proprietario verifica i lavori eseguiti per lui nella sua dimora. Mia sorella ed io ne ridemmo. Nella sua elegante condiscendenza c'era tutta mia madre.
Accompagnarla fuori in quel periodo della sua vita era impegnativo. Vestirla era un procedimento lungo e faticoso, fatto senza collaborazione da parte sua perché usciva mal volentieri. Si lasciava fare ma ci consegnava il suo corpo totalmente passivo. Però quella mattina, di fronte alla sua aria compiaciuta, fummo davvero contente di averle fatto la piccola prepotenza. E oggi, dopo che per un anno circa ho attraversato la piazzetta di furia, cercando di non vederla, ho deciso che tra tutte le immagini di mia madre ormai molto vecchia, quella che voglio ricordare è proprio quella di quella mattina. La mia mamma novantaduenne ancora bella ed elegante, che ispeziona la sua proprietà e ci sorride con distratta, signorile benevolenza. E con un piccolo, insopprimibile fondo di giovinezza negli occhi ancora luminosi.

domenica 20 gennaio 2008

vocali e memoria

In “La vista da Castle Rock”-che ricostruisce la storia della sua famiglia dall’Ottocento ai suoi giorni- Alice Munro ha scritto:

Ci facciamo incantare. Succede per lo più quando diventiamo vecchi, quando i nostri futuri cominciano a chiudersi e non riusciamo più a immaginare quello dei figli dei nostri figli, a volte nemmeno a crederci. Non sappiamo resistere alla tentazione di frugare nel passato, scartando testimonianze poco attendibili, collegando nomi isolati e date incerte e aneddoti, aggrappandoci a fili, volendo stabilire a tutti i costi un legame con i morti e perciò con la vita.



Recentemente ho fatto un po’così: ho cercato di recuperare presso due amiche ed una sorella, le lettere che inviai loro una trentina di anni fa’. Ne ho recuperate una decina. Non so bene perché io abbia voluto infliggermi l’esercizio del confronto con quella donna giovane che ero io e che non mi abita più. Ma l’ho fatto.
L’effetto è davvero sconcertante. Tutta una serie di puntini vanno a posto sulle nostre i. Dunque, è così che ragionavo! Dunque è pensando questo che ho fatto quello!
Dunque è andata così e non come credevo di ricordare!
Più sorprese che conferme ne vengono fuori, a riprova che, senza documenti alla mano, la storia che scriviamo di noi è essenzialmente falsificazione, mistificazione, autoinganno. Necessario, certo, ma inganno.
I popoli fanno la stessa cosa. È per questo che gli storici hanno tanto da fare. Perché debbono continuamente rifornire i popoli di puntini da mettere sulle i.
Peccato che talvolta i popoli, più che sistemare i puntini al loro posto, vogliono trasformare le i in e. E talvolta addirittura in o. Si chiama revisionismo ma con Alice Munro non ha niente a che fare.

sabato 19 gennaio 2008

la strega e il pupazzo

Ripescata dalla notte dei tempi per un'amica alle prese con un soggetto difficile.

Ma quale libbertà famme er piacere
ma nun t’accorgi quanto sei legato?
che guizzi fai, che zompi ner paniere
come fa er pesce appena ch’è pescato?

E qui nun ce sta amo, nun c’è lenza
nun ce sta rete, ce sei sortanto tu
che nun te sai tuffà, abbi pazienza,
buttatte a fonno e nun pensacce più!

Er core vivaddio è ‘na fisarmonica
de spazio dentro ce n’è proprio tanto
ma chiusa e appesa ar muro è solo comica
che te ne fai si nun ne cacci er canto?

A fa l’amore sai nun ce vo gnente
ma a dì, guardanno n‘faccia na perzona,
quer che te sòna dentro e come sòna
nun è robba che impari facirmente.

Io però nun ciò voja d’ansegnatte
che già na vorta ciò rimesso le penne
io do e l’artro, come le mignatte,
invece prenne e succhia, succhia e prenne.

Diventa umano? e sai quanto me frega!
cresce? se fa più ricco? e sì, sti cazzi!
se stufa puro lei, puro la strega
de fa diventà omini i pupazzi!

venerdì 18 gennaio 2008

sorridiamo con Altan

chiarezza

Il post di oggi mi è arrivato da Mariateresa e rende superfluo quello che avevo preparato io.

Mariateresa scrive:

Vorrei segnalare questo articolo:

Tutto sbagliato, tutto da rifare
di Daniele Garrone, decano della Facoltà valdese di teologia

Il papa, "La Sapienza" e la laicità asfittica del nostro paese

Di fronte a quello che sta succedendo a seguito dell’invito rivolto al Papa a presiedere l’apertura dell’anno accademico all’Università La Sapienza di Roma, mi viene in mente solo il vecchio adagio di Gino Bartali: "Tutto sbagliato, tutto da rifare". Purtroppo, nulla si può rifare e si rimane attoniti spettatori dell’ennesimo colpo inferto, da ogni parte, alla asfittica laicità del nostro paese. Le critiche all’iniziativa del rettore vengono - da destra e sinistra, da cattolici militanti e da chierichetti atei - stigmatizzate come violazione della libertà di parola. Tutti - compresi gli ex fascisti e gli ex-comunisti, dunque gli eredi delle culture non liberali - diventano profeti di liberalismo.
Ritenere non opportuno un invito a tenere un discorso è cosa diversa dall’impedire a qualcuno di esprimere le proprie opinioni.

Il Papa non è un semplice accademico che sostiene tesi controverse o formula ipotesi non condivise da pochi o da molti. Il Papa parla di valori non negoziabili, non formula ipotesi; pretende di esplicitare la verità; si pronuncia non come esponente di una delle varie religioni e confessioni presenti sulla agorà, ma come esperto di umanità in grado di indicare i fondamenti dello Stato e i criteri di una corretta laicità. Il Papa pretende di sapere per tutti noi come si debbano rettamente coniugare fede e ragione. Se vogliamo, il Papa è anche l’ultimo sovrano assoluto per diritto divino. Benedetto XVI bolla la ricerca del pensiero scientifico e filosofico della modernità “post-cristiana” come dittatura del relativismo. Cioè pronuncia una drastica censura nei confronti di quello che è lo spirito della ricerca libera e senza presupposti che spero presieda all’insegnamento nelle nostre università. Benedetto XVI persegue, con grande intelligenza, una strategia di rimonta nei confronti della società laica e pluralista.

Tutto questo andava ricordato nel momento in cui lo si invitava. Si doveva sapere che il Papa non viene a discutere o a confrontarsi, ma viene per essere ascoltato con reverenza ed eventualmente accolto con una genuflessione. Si doveva sapere che era legittimo dissentire dall’invito, non perché si è oscurantisti ma perché non si può né si vuole riconoscere la pretesa che egli statutariamente e quindi inevitabilmente porta con sé. Per queste ragioni io non l’avrei invitato a presiedere l’apertura dell’anno accademico. Lo inviterei però, domani stesso, a partecipare come uno dei relatori ad un dies academicus: si darebbe un bellissimo esempio di cosa può essere una università libera e laica e veramente plurale. Perché - sebbene gli italiani, in primis gli atei devoti, di destra come di sinistra, non lo sappiano - qualunque “capo religioso”, persino il Papa, nella democrazia discorsiva è “uno dei relatori”. Nulla di meno - e va detto con forza e io lo faccio con assoluta convinzione - ma neanche nulla di più.

Una volta che l’invito - inopportuno a mio avviso - era stato rivolto, il Papa doveva parlare. Il dissenso era legittimo; se il dissenso poneva problemi di ordine pubblico - in una università il dissenso si esprime con il dibattito delle idee e con un po’ di humour - essi dovevano essere risolti come ogni altro problema di ordine pubblico. Nessuno, tuttavia, può essere posto al riparo dal dissenso che si manifesta nelle forme legittime. Tra l’altro, giova ricordare che Gesù si espose sulla pubblica piazza, senza aver prima negoziato con l’autorità le condizioni consone alla sua visita. Anzi parlò senza essere invitato. Ci pensino quelli che nel Papa ravvisano il Vicario e che oggi vedono in lui la vittima di un sopruso.

Chi pensava che Benedetto XVI fosse meno capace di “comunicare” del suo predecessore, ha oggi una bella smentita. Non andando alla Sapienza, il Papa diventa una vittima dell’intolleranza laica, la nuova inquisizione lo sta portando al rogo. Bisogna vegliare per lui. Me lo si lasci dire, visto che i miei antenati di inquisizione ne sapevano qualcosa: quando c’è l’inquisizione non si tratta di qualche sberleffo o magari di qualche insulto in mezzo ad un folla compunta e persino adorante.
Per giorni non si parlerà d’altro. E anche senza questo incidente, ogni giorno, dalla mattina alla sera, le televisioni italiane (l’Europa e il mondo sono un’altra cosa) parlano del Papa e dei suoi moniti e dei suoi rimbrotti e dei suoi non possumus che vogliono dire “non dovete”. Ora tutti faranno a gara per riparare, per scusarsi, per far vedere che - per quanto atei - si sa dare alla chiesa e al papa il dovuto riconoscimento. Per fortuna le occasioni non mancheranno: c’è una legge sulla libertà religiosa da lasciar sepolta; la 194 da rivedere; il riconoscimento delle unioni civili da non prendere neppure in considerazione; la vita da tutelare. Forse si potrebbe anche porre qualche limite alla diffusione dei contraccettivi. E poi siamo italiani, la fantasia non ci manca, sapremo come farci perdonare. D’altronde, se non abbiamo avuto Lutero, Kant e Jefferson non è colpa nostra.

http://www.chiesavaldese.org/pages/archivi/index.php?id=653

Mariateresa

giovedì 17 gennaio 2008

segnalazione

Ho particolarmente apprezzato la lineare semplicità con cui Paniscus ha illustrato la vicenda Università/Benedetto XVI nel suo post: Indovina chi viene a casa.

preghiere elettriche

Preghiere elettriche.











Ero appena tornata in Italia dopo i tre anni passati a Teheràn. Era la mia prima domenica a casa.
Dormivo nel mio letto, nella mia stanza, nella mia città. Ma ancora un senso di irrealtà e confusione mi accompagnava in quei primi giorni di assestamento.
Sul finire del sonno mi raggiunse un suono. Un suono lento, sicuro, trionfante. Un suono di campana. Dalla Basilica di San Giovanni arrivava fino a me il richiamo alla Messa delle 9. Io non sono cristiana, come chi mi legge sa bene, ma è stato in quel momento che ho capito di essere tornata a casa. Il mio paese, è il paese in cui suonano le campane. I credenti vanno a Messa o dicono una preghiera privata, gli altri-quelli come me-sanno comunque che è domenica, che la giornata sarà più lenta, più calma, più affettuosa. Il suono delle campane è un suono bellissimo. Le campane risuonano da millenni. Suonavano a Creta, in Cina ed in India duemila anni prima di Cristo, come pure a Roma e a Pompei. Ma è con il cristianesimo che si diffondono in Europa, si piazzano sul campanile e suonano il loro richiamo. Il suono delle campane ha per me un effetto rassicurante. E’ un suono in cui mi adagio volentieri perché accompagna ma non incalza. Il suo ritmo uguale, prevedibile, tranquillizza. Poi sparisce lasciando per un po’ la sua eco. Ed è impossibile dire quale sia il momento preciso in cui il suono non c’è più. Lo riassorbe il silenzio, direbbe Barenboim. Quella domenica mattina mi accorsi, sotto l’onda di quel suono, che le campane mi erano mancate e che anche la mia città mi era mancata. “Non sono home-sick” dicevo in quegli anni a chiunque me lo chiedesse. Ed era vero. Ma ecco, sentendo il suono delle campane comprendevo che, senza essere malata di lontananza, il mio essere aveva continuato ad attendere una percezione familiare, un odore, un riflesso di luce, o un suono appunto. Adesso il suono delle campane sta lasciando la mia città. Sempre più spesso il suono che arriva è quello di un apparecchio elettrico. Ah, l’indecenza delle campane artificiali, dei dischi brutali con il loro scampanio volgare, assordante, metallico, senza identità.








Purtroppo un’altra sostituzione sta avvenendo. Al Cairo, il Ministero degli Affari Religiosi ha deciso che i muezzin che nelle quattromila moschee cittadine, cinque volte al giorno, chiamano i fedeli alla preghiera, siano sostituiti da un’unica registrazione. La voce sarà scelta tra 2500 pretendenti, tutti dottori in materie religiose ed esperti in salmodia sacra. Sarà la voce più bella, più chiara e vibrante quella prescelta. Verrà registrata e verrà mandata in onda attraverso 4000 radio ad orari rigorosamente sincronizzati. Ma la gente del Cairo protesta. Questo intervento che dovrebbe essere volto a ridurre l’inquinamento acustico, mostruoso nella immensa città, è vissuto come un’offesa al loro muezzin di quartiere, come una mutilazione della spiritualità racchiusa nell’ adhan, la chiamata dei fedeli.
È anche un’alterazione della vita del quartiere. Finite le chiacchiere sul muezzin giù di voce, sul muezzin che ha sbagliato nel salmodiare. Finita la piccola discussione tra fedeli di quartieri diversi circa l’esattezza e la puntualità del “loro” muezzin.
Era possente il richiamo alla preghiera che si sentiva al Cairo. In occasione di un mio soggiorno nella grande città mussulmana ne restai colpita. Impressionanti tutte quelle voci che più o meno allo stesso momento si alzavano tese nel cielo.
Io non sono neanche mussulmana, ma questa ulteriore perdità di umanità di un rito religioso mi dispiace.
Quando vivevo a Teheràn arrivava fino a casa mia la voce del muezzin di una piccola moschea di quartiere. Aveva effetti diversi su di me. Talvolta ne percepivo solo la nota malinconica, perché malinconica ero io; tal’altra mi sembrava energica, guerriera, forse addirittura minacciosa. Racchiudeva un monito. Altre volte il fatto che a quel richiamo milioni di persone si chinassero e volgessero una preghiera, o un pensiero, verso il loro Dio, mi commuoveva. Quanta solitudine alberga nel cuore dell’uomo. Quanta paura, quanto bisogno di consolazione! Altre volte ero infastidita, peggio, resa rabbiosa, all’idea che tutta quella gente interrompesse le sue fatiche quotidiane per ringraziare un Dio che le faceva vivere in miseria e spesso nel terrore, che non si prendeva per loro più pena di quanta se ne prendesse il loro Imperatore. E il loro Imperatore non se ne prendeva punto! E maledicevo l’ignoranza che assediava quella gente, come sempre e ovunque assedia gli umili.
Una mattina al bazar, bevevo il tè in una bottega di tappeti mentre uno dopo l’altro me ne stendevano davanti a decine. Si svolgeva il rito senza il quale non si compra neanche un fazzoletto a Teheràn. La merce si mostra, il prezzo si tace. Si dirà poi e allora si comincerà a discuterne. E verso mezzogiorno la voce del muezzin della Moschea del bazar si alzò possente e vicinissima. I due inservienti e il proprietario si scusarono brevemente e si ritirarono nel corridoio accanto. Restai lì sola a bere il mio tè, davanti a mucchi di tappeti favolosi, mentre quei tre uomini, inginocchiati su dei logori tappetini da preghiera, mormoravano le loro orazioni. Ricomparvero dopo poco, tranquilli, agguerriti e pronti a trattare.
E ricordo un'altra volta, in un lungo spostamento su una corriera in Afghanistàn: all’ora precisa in cui la voce del muezzin si stava alzando nei loro paesi, l’autista si fermava e tutti scendevano dall’autobus con i loro tappetini, li srotolavano e si inginocchiavano verso il deserto. Le fronti in terra, le mani sollevate a coppa, qualcuno, sunnita, in piedi, nudi, sulla terra, pregavano. Tutto si fermava.
Quando si riprendeva il viaggio loro sembravano rinfrancati. Le donne restavano a bordo, chiuse nei loro chador. Pregavano, se lo facevano, ferme ai loro posti. Del resto trattennero anche la pipì, per diciotto ore-tanto durò il viaggio su quella corriera-e mentre gli uomini si passavano brocche di acqua l’un l’altro, le donne masticavano solo cipolle crude. Spegne la sete la cipolla, o almeno dovrebbe. Fu anche la tappa in cui un uomo, che non aveva mai visto evidentemente viso di donna, viaggiò tutte le diciotto ore con il capo voltato indietro, verso mia sorella e me, che sedevamo in fondo. Diciotto ore, senza mai distogliere gli occhi da noi. Lo fotografai, pensando che questo lo avrebbe costretto ad una reazione qualsiasi. Subì l’oltraggio impassibile. Sembrava drogato. Fu un'esperienza metà umoristica, metà inquietante..
Ma per tornare alle voci del muezzin e delle campane, a me piacciono entrambe. Penso che possano suonare come un piccolo richiamo a pensare a sé, ad un sogno o ad un ricordo, una pausa nel ritmo della giornata.
Ma se diventano elettriche, si confonderanno con gli altri suoni della città, cacofonia a cacofonia. Peccato.




mercoledì 16 gennaio 2008

dopo la maratona

Tutti i commenti di ieri mi hanno frastornata. Non ci sono abituata.
Così sto ancora riflettendoci sopra.
Perciò vi offro solo una poesia. Ma bella.



Le bolle di sapone che questo bambino
si diverte a soffiare da una cannuccia
sono traslucidamente tutta una filosofia.
Chiare, inutili e passeggere come la Natura,
amiche degli occhi come le cose,
sono quello che sono
con una precisione rotonda e aerea,
e nessuno, nemmeno il bambino che le libera,
pretende che siano di più di quanto sembrano essere.

Alcune si vedono a stento nell'aria tersa.
Sono come la brezza che passa quasi senza toccare i fiori
e soltanto sappiamo che passa
perché qualcosa si alleggerisce in noi
e accetta tutto più nitidamente.

Fernando Pessoa "Una sola moltitudine" Adelphi.

martedì 15 gennaio 2008

invito alla discussione sull' anima blogger

Da tempo una riflessione mi sollecita. Riguarda i blog. Mentre,in modo regolare, ne frequento davvero pochi per mancanza di tempo, mi affaccio invece continuamente su blog nuovi, leggiucchiando un post qua ed uno là, come capita.
Sono curiosa. I blog di cui sto parlando sono quelli indicati come “personali” nei siti che li raccolgono e li quotano. Quello che mi sembra di poter dire, dopo un anno di queste escursioni, è che si dividono, grosso modo, in due gruppi: i blog “buoni” ed i blog “cattivi”.
C’è cioè un gruppo consistente di blog i cui autori si presentano come animati da tutta una serie di qualità e sentimenti positivi: sono colti, informati, intelligenti, creativi, attivi nella società, sensibili alle disgrazie altrui, partecipi del dolore del mondo in ogni sua manifestazione, sempre schierati a fianco di ogni popolo o gruppo o individuo in condizioni di debolezza, parchi, sobri, attenti alle problematiche ambientali, disponibili a quelle anticonsumistiche, democratici, liberali, attenti ad evitare l’aggressività, disposti al bene, critici verso gli aspetti meno limpidi e civili della nostra società, sensibili alle arti, e soprattutto ai buoni sentimenti. L’amore, l’amicizia, la solidarietà, la generosità, la modestia, la semplicità, i legami affettivi e quelli sociali, verso i quali sollecitano i loro lettori.Tutto questo non è enunciato, ma dispiegato attraverso lo svolgersi dei post. Potrei continuare ma sono certa che non ce n’è bisogno.
Ci sono poi i blog “cattivi”. I loro autori si presentano, spesso direttamente, come elementi di rottura. Dicono di essere maleducati, politicamente scorretti, egoisti, volgari, sporchi, brutti e cattivi. Potenzialmente eversivi. Grandi ribelli. Elogiano i vizi e gli stravizi, imprecano ed aggrediscono, deridono ogni valore consolidato ed ostentano, spesso, disinformazione e menefreghismo.
Postano sconcezze ridanciane, di natura sessuale o politica, attacchi personali a questo e a quello e invitano all’individualismo e all’egoismo. Ciò nonostante, lo fanno-talvolta dichiarandolo, talvolta no- in nome di sincerità, genuinità, espressione libera da ogni ipocrisia, coraggio, provocazione stimolante; in effetti come rappresentanti di un pensiero positivamente anarchico, creativo, libero.
Cioè si presentano anch’essi come portatori di valori positivi. Sono cioè blog “buoni” anche i blog "cattivi".

Da un lato questo non mi sorprende: essendo il blog personale una espressione-se non una vera esibizione- di se stessi è naturale che si cerchi di presentarsi al meglio. Dall’altro però mi colpisce la mancanza di sfumature. Entrambi i gruppi sono “troppo”. Troppo corretti gli uni, troppo scorretti gli altri. Ne emerge, se si crede alla sincerità dei bloggers, una società italiana straordinariamente positiva, che, quando non è politicamente e socialmente corretta è però ferocemente e creativamente critica e feconda. Quello che manca totalmente è la vasta zona grigia della nostra società.
Ma a me sembra che, fermo restando che entrambi i gruppi umani fin qui descritti sono presenti, ma minoritariamente, nella nostra società, essa sia invece caratterizzata proprio dalla zona grigia. Noi siamo il paese della zona grigia; un paese, in fondo, di ignavi.
Ne deriva, secondo me che, o i blog vengono tenuti dalla parte migliore della nostra società o una grande/piccola menzogna collettiva avvolge il mondo dei bloggers italiani.
Io credo che entrambe queste spiegazioni siano credibili, ognuna nella sua misura.
Naturalmente non mi tiro indietro rispetto ad un’autocritica. Se guardo dentro di me vedo bene che il mio desiderio di accettazione e approvazione mi porta a celare o ad alterare o a sfumare quelle parti di me che potrebbero alienarmi stima e simpatia. Altrettanto sinceramente però mi sento di affermare che, benché mi sia costato e mi costi, ho messo nel mio blog anche parte del mio negativo. Mi accorgo però che, sotto la spinta forse dell’altrui positività, sono andata man mano slittando anche io verso una correttezza che non è vera, o almeno non nella misura in cui la mostro.
Questo non mi piace di me, così come, quando lo sospetto, non mi piace negli altri bloggers.
Ora io non voglio dire che i blog siano falsi e bugiardi, ma solo che non è possibile che siano così adamantini nelle loro virtù o così liberi nell’ostentazione dei loro vizi. In giro nella città e attraverso le manifestazioni sociali del paese, io non vedo né questa vena morale né questa vena immorale, ma un generale, diffuso “tirare a campare” dal quale non mi sento esente.
In fondo io sono scontenta di me come blogger e spesso anche degli altri. Mi piacerebbe provare ad aprire piccole brecce nel muro di nobiltà che sembra avvolgerci tutti.
Non che io non creda ai buoni sentimenti, non credo alla professione di buoni sentimenti. Penso che ognuno di noi ne alberghi alcuni, forse qualcuno tutti, ma mi chiedo se, essendo così presi a testimoniarli nei nostri post, riusciamo poi a trovare l'energia morale per praticarli nella nostra vita.
Può darsi che questo sia solo un problema mio; può darsi che io sia davvero la più ignobile fra tutti noi, ma confesso che questa ipotesi mi sembra un po' troppo severa nei miei confronti.
Qualche osservazione mi sento di farla anche sui commenti ai vari post.
Personalmente ho grandi difficoltà ad entrare in conflitto e cerco sempre di intervenire solo se riesco a trovare almeno un punto di incontro con il post che leggo o se riesco a dissentire in forma garbata o almeno scherzosa. Non sempre ovviamente ci riesco. Mi tengo in genere lontana da discussioni accese, non per non espormi con la mia opinione ma perché mi è difficile trovare il punto di equilibrio fra l'affermazione convinta del mio pensiero e la critica di quello altrui. In dubio mi astengo.
Per portarmi alla polemica bisogna davvero tirarmici per i capelli e insistentemente. Noto che questo atteggiamento è abbastanza diffuso. Più fra noi donne,direi, che fra i bloggers maschi. Mi chiedo se invece non dovremmo esercitarci un po' nell'arte di dar torto agli altri. Questo potrebbe scaturire come automatica conseguenza da un modo più aperto e libero di esporre noi stessi, con le nostre caratteristiche antipatiche e il nostro negativo.
Immagino che anche voi vagabondiate nei blog curiosando qua e là. Mi piacerebbe conoscere la vostra opinione e le vostre osservazioni.
Mi piacerebbe che questo invito alla riflessione arrivasse a quanti più bloggers possibile.
Grazie.

lunedì 14 gennaio 2008

libro dell'anno

La trasmissione Rai Fahrenheit come ogni anno sceglierà attraverso il voto dei suoi ascoltatori il libro dell'anno, scelto tra quelli via via segnalati e votati durante gli scorsi dodici mesi.
Se volete partecipare potete mandare una mail con il vostro parere e magari due note di recensione fahre@rai.it

Questi sono i titoli in gara per il Libro dell'Anno:

Milena Agus, Mal di pietre , Nottetempo
Alberto Arbasino, Le piccole vacanze, Adelphi
Tullio Avoledo, Breve storia di lunghi tradimenti, Einaudi
Andrea Bajani, Se consideri le colpe, Einaudi
Alan Bennet, La sovrana lettrice, Adelphi
Marisa Bulgheroni, Un saluto attraverso le stelle, Mondadori
Andrea Carraro, Il sorcio, Gaffi
Marco Cassardo, Va a finire che nevica, CairoEditore
Ermanno Cavazzoni, Storia naturale dei giganti, Guanda
Paolo Cognetti, Una cosa piccola che sta per esplodere, Minimum Fax
Cristina Comencini, L'illusione del bene, Feltrinelli
Andrea Di Consoli, Il padre degli animali, Rizzoli
Martino Ferro, Il primo che sorride, Einaudi
Carlo Fruttero, Donne informate sui fatti, Mondadori
Nicola Gardini, Lo sconosciuto, Sironi
Fabio Geda, Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, Instar
Andrej Longo, Dieci, Adelphi
Michele Mari, Verderame, Einaudi
Giuseppe Montesano, Il ribelle in guanti rosa, Mondadori
Sergio Nazzaro, Io, per fortuna c' ho la camorra, Fazi
Alberto Ongaro, La versione spagnola, Piemme
Vincenzo Rabito, Terra matta, Einaudi
Veronica Raimo, Il dolore secondo Matteo, Minimum Fax
Ermanno Rea, Napoli ferrovia, Rizzoli
Mario Rigoni Stern, Stagioni, Einaudi
Clara Sereni, Il lupo mercante, Rizzoli
Domenico Starnone, Prima esecuzione, Feltrinelli
Sebastiano Vassalli, L'italiano, Einaudi
Simona Vinci, Strada provinciale tre, Einaudi

Se tra questi non ce n'è nessuno che vi sia piaciuto potreste comunque segnalarne uno qui e ci facciamo un Libro dell'anno tutto nostro!

esseri umani: il peggio

Da Luciano ho appreso questa storia orribile. Almeno questo mio ridicolo blog serva a qualche cosa.
Leggete cosa ci racconta Manuela

la musica sveglia il tempo

Ho letto-e consiglio a tutti- il bel libro di Daniel Barenboim “La musica sveglia il tempo”, edito da Feltrinelli.
Libro singolare, che non so definire.
È costituito da una prima parte di riflessione sull’esperienza musicale, da una seconda parte di filosofia spinoziana e dal racconto della straordinaria esperienza dell’orchestra West-Eastern Divan, che raccoglie musicisti provenienti da Israele, dalla Palestina e da altri paesi arabi. Una storia, questa, che da sola merita l’acquisto del libro, e che rinfranca il cuore troppo spesso scoraggiato di fronte ad odi che sembrano irriducibili.

Ma è della prima parte che vorrei parlarvi, che a me sembra semplicemente bellissima e che raccoglie delle considerazioni sulla natura della musica e sul suo rapporto con la vita almeno per me completamente nuove.
Nessuno mi aveva parlato della musica così, neanche negli anni in cui, purtroppo ormai adulta, l’ho studiata.
Le lezioni che si apprendono da questo libro straordinario sono tante, io oggi ve ne proporrò solo alcune. Ognuna infatti va meditata e interiorizzata.


PRIMA LEZIONE
Il suono e il silenzio.

Il fenomeno fisico che ci permette di fare esperienza con un brano musicale è il suono. La sua prima caratteristica è di essere effimero. Non è come un oggetto che può essere lasciato in una stanza e lì lo si ritrova. Il suono non resta: svanisce nel silenzio. Esso è in costante relazione con il silenzio. La prima nota di un brano non rappresenta l’inizio, essa proviene dal silenzio che la precede. Può interromperlo improvvisamente o sorgerne gradatamente. L’effetto è molto diverso. (Qui Barenboim porta come esempi brani diversi). Il musicista che produce un suono lo porta in senso stretto nel mondo fisico; se non applica altra energia per mantenervelo il suono morirà. Analogamente l’ultimo suono non è il termine della musica.
L’ultima nota è collegata al silenzio che la segue. Per questo è così sgradevole quando il pubblico applaude prima che si sia spento l’ultimo suono. Spento e richiuso nel silenzio da cui è uscito il primo.
“Sotto questo aspetto la musica è lo specchio della vita: entrambi cominciano dal nulla e finiscono nel nulla”.

SECONDA LEZIONE
Il suono e gli altri

Ogni suono ha una durata. “In musica l’espressività è data dal collegamento fra le note, che noi chiamiamo con l’espressione italiana legato. Il legato impedisce a una nota di sviluppare il suo io naturale, ovvero di diventare tanto importante da mettere in ombra la nota precedente. Ogni nota deve essere consapevole di sé ma anche dei propri limiti; le stesse regole che si applicano agli individui nella società si applicano anche alle note musicali”.
Ogni nota merita la stessa attenzione di tutte le altre e ha la stessa responsabilità nella riuscita dell’esecuzione, ma non tutte le note sono uguali. Vi sono note che segnano momenti e situazioni musicali cui è demandata una grande espressività. Ciò nonostante, anche queste note, debbono tener conto delle altre, non possono offuscarle pena il fallimento dell’esecuzione.
“L’operazione di legare le note mi ha insegnato la relazione tra individuo e gruppo.
Per l’uomo è necessario contribuire alla società in maniera individuale; ciò fa sì che l’intero sia maggiore della somma delle parti. Individualismo e collettivismo non devono essere reciprocamente esclusivi; in realtà, insieme riescono a potenziare l’esistenza umana.”



TERZA LEZIONE
Il tempo

Nella musica non ci sono elementi indipendenti-il ritmo non è indipendente dalla melodia, o questa dall’armonia, o entrambe dal tempo.
Né questo da loro. Se il tempo è troppo veloce il contenuto risulta incomprensibile per la difficoltà di suonare o percepire tutte le note ( e TUTTE contano); se il ritmo è troppo lento il contenuto è ugualmente incomprensibile perché non si percepisce la “relazione” fra le note.
La decisione circa il tempo con cui suonare un brano musicale è l’ultima che un musicista deve prendere. Se la decisione è presa troppo presto l’esecutore diventerà schiavo del tempo, cui subordibnerà ogni altro elemento.
“Come tante cose della vita, la correttezza di una decisione è inevitabilmente collegata al momento in cui la si prende.”
“Sono convinto che il processo di pace di Oslo fosse destinato al fallimento-indipendentemente dal fatto che fosse giusto o no-proprio perché il rapporto tra contenuto e tempo era sbagliato...Preparazione dei colloqui affrettata, discussioni lente ed interrotte...L’equivalente in musica sarebbe quello di suonare in maniera veloce una introduzione e poi eseguire il principale movimento veloce, troppo lentamente e con delle interruzioni.”


QUARTA LEZIONE
stare insieme

La musica è fatta di sensibilità musicale –“una inclinazione istintiva o intuitiva al suono come mezzo di espressione-e comprensione intellettuale.
“La musica è sempre filosoficamente contrappuntistica. Anche quando è lineare in essa coesistono elementi opposti, a volte persino in conflitto tra di loro”.
“In musica due o più voci si esprimono simultaneamente; ognuna si esprime nella sua forma più piena e al tempo stesso ascolta l’altra”.

Barenboim cita Wagner, il quale scrisse che i direttori di orchestra tedeschi non sapevano nulla del tempo esatto “perché non capiscono nulla di canto”.

Attraverso il canto corale si impara una grande regola del fare musica.
"Ogni volta che si suona, in un ensemble da camera o in un’orchestra, si devono fare nello stesso tempo due cose molto importanti. Una è esprimersi-altrimenti non si sta contribuendo all’esperienza musicale-l’altra è ascoltare gli altri musicisti, il che è indispensabile per fare musica...non basta eseguire benissimo la propria parte; se non si ascolta, il proprio suono può diventare così forte da coprire le altre parti, o così sommesso da non essere più udibile”.

In queste osservazioni ho ritrovato la lezione del Maestro del nostro coro e le nostre difficoltà.

Il cantare in coro obbliga chi produce il suono a non ascoltare se stesso più degli altri. Spesso noi coristi amatoriali tentiamo di cantare la nostra parte senza ascoltare le altre voci. I soprani tentano di ignorare i contralti, e viceversa o i baritoni si sforzano di non essere “disturbati” dai bassi. La tentazione di isolarsi, di chiudere il nostro orecchio alle voci altrui, è fortissima, perché si teme che una voce trascini le altre verso la sua melodia e si ha paura di uscire dal proprio tracciato musicale. Confesso che io debbo combattere continuamente contro la tentazione di tenermi attenta solo alla mia melodia senza permettere a quella dei contralti di interferire. So però, per esperienza, che solo quando riesco a sottrarmi a questa tentazione e mantengo invece l’attenzione sul ritmo e sulla meladia dei contralti, o dei bassi ecc. riesco a rispettare meglio la mia parte.
Ascoltare gli altri, nella vita corrente, è una disciplina simile, non in senso ideale, morale, ma pratico. La propria voce va modulata per intensità, volume e tempo sulle altre voci. Ah i dibattiti televisivi, che cacofonia! Ma, ancora di più-dice Barenboim-questa lezione vale per i rapporti tra individui e tra popoli.

QUINTA LEZIONE
cervello e cuore

Dice Barenboim: “Ai bambini si può insegnare l’ordine e la disciplina attraverso il ritmo e la musica.”
La musica è fatta di sensibilità musicale –“una inclinazione istintiva o intuitiva al suono come mezzo di espressione-e comprensione intellettuale.

Il musicista sente la sua partitura come emozione dentro di sé che vuole esprimere fuori di sé. Per renderla trasmissibile occorre studio e pensiero, riflessione e ordine. Rispetto.
“I giovani che conoscono la passione per la prima volta e perdono ogni senso di disciplina possono capire attraverso la musica come passione e disciplina possano coesistere-persino la frase più focosa deve avere alla base un senso dell’ordine...
"In definitiva, quella che forse è la lezione più difficile per l’uomo-imparare a vivere con disciplina e nondimeno con passione, nella libertà e nondimeno nell’ordine-traspare con chiarezza da ogni singola frase musicale.”
Ecco un bellissimo traguardo cui accostarsi: disciplina e passione, libertà e ordine. E Barenboim ci dice che non sono ossimori.




L'avventura appassionante della West-Eastern Divan ve la racconterò un'altra volta.