sabato 31 maggio 2008

pausa: un tè e un po' di musica/segovia

versi incerti

Coltivi ognuno le proprie granitiche certezze.
Anche il granito merita:
I costoni rocciosi sporgono
ma la loro tenacepervicacia
non frana nei fondali.

Io però mi terrò i miei dubbi.
E quando la tentazione di una certezza mi coglierà
mi accontenterò di sostenermi
allo stipite di una porta.

Ma presto la sospinge col fianco il cameriere
- sauté di frutti di mare fumano in alto sui vassoi argentei-
e quella -che sembrava chiusa-
diventa aperta
chiusaperta
apertachiusa
aperta...

Non ci sono stipiti fermi
solo porte a battenti.
Mi terrò ai miei dubbi.

venerdì 30 maggio 2008

folgorazione

"Che differenza c'è tra una storia e una bugia?" chiesi.
"Una bugia nasconde la verità, una storia cerca di trovarla" disse spazientita.



Paula Fox: Storia di una serva
Fazi Editore, Roma - 2008







Sto tentando di rintracciare una verità attraverso il racconto di una storia.
Vado al lavoro, marina.

giovedì 29 maggio 2008

già qui?

È accaduto tutto in un giorno.
Tutti gli oleandri sono fioriti e scuotono i loro fiori rosei, bianchi e rosso vino sui marciapiedi. I gelsomini dei terrazzi hanno preso a profumare, spingendo il dolce del loro respiro fino sulle strade.
Folate salse di vento hanno scosso i rami dei platani sulla Merulana. Gli esercizi al sax del ragazzo della Muratori entrano dalla finestra aperta e la soprano del piano terra ha scelto di studiare “Caro mio ben”. Tutti gli altri suoni si sono gonfiati, veleggiano e mi entrano in casa. Le vite dei palazzi qui intorno non sono più chiuse nel loro silenzio privato, ma si guardano attraverso le finestre aperte.
Si va in strada con un sospiro, metà affaticato metà incantato.
Qualcuno passa al marciapiede in ombra, qualcun altro rallenta, affamato, nel passare al sole.
Le braccia e la fronte si imperlano di sudore e le gambe pretendono gonne larghe.
Gli uomini hanno arrotolato le maniche delle camicie e mostrano i polsi fermi. Le donne annodano i capelli in code danzanti e scoprono le nuche tenere.
La grande esedra di Traiano si macchia di papaveri.
Anche i ricordi si accordano alla nuova stagione. Appaiono al pensiero campi già mietuti o improvvisi fondali sotto un’acqua che trema.
Si è pronti alla gratitudine. Alla rinascita, persino.
La giovinezza non sembra più lontana. Questo tremare dell’essere ne fa fede.
Estate.

mercoledì 28 maggio 2008

padre NON pentito


Non è stato proprio facile metterci le mani sopra, ma alla fine ce l'ho fatta.
Ed ecco qui il libro di Luciano Comida -alias Idefix- : Padri pentiti.
L'editore è Campanotto e il libro è del 2000.
Il testo è accompagnato dai divertenti disegni di Michele Colucci.

Me lo sono letto in un amen, non solo perché è un (finto) piccolo libro, ma perché la Signora Ironia ti prende per mano all'inizio e non ti lascia più. E, con la Signora Ironia, io potrei andare ovunque. E in gran fretta.
Il libro è diretto ai soli uomini e a leggerlo mi sono sentita un po' supervisore maligno. Ah, adesso vi smaschero, brutti maschiacci; vediamo che cosa vi dite tra di voi, quando parlate di paternità! (Infatti è di paternità che si parla.)
Ma a questo uomo qui, che scrive, non posso proprio rimproverare nulla. E un po' ci sformo. Niente castagna in cui prenderlo.
(Di questa espressione "prendere in castagna" ho trovato diverse spiegazioni. Una di queste ritiene che sia una deformazione di "prendere in fallo", cioè in errore. Dal fallo come errore, al fallo tout court, ai marroni che si accompagnano al fallo, alle castagne. La faccio mia, perché l'equivoco mi diverte.)
Ma torniamo al libro. La sua tesi di base è che non esista al mondo un solo motivo, non uno, che porti un uomo a realizzare figli nel suo proprio interesse. Qualunque obiezione, sotto forma di possibile motivazione, voi vi apprestiate ad avanzare, l'autore l'ha già prevista, analizzata, e confutata. Spiacenti: ben diciotto possibili motivi pro-paternità vengono sviscerati e accantonati come insufficienti.
Questa parte, che potreste ritenere la più cinica, è, invece, la più accattivante. È quando passa a spiegare in concreto che cosa significhi avere un figlio piccolo, che l'autore dà il meglio della sua velenosissima penna. Intendiamoci, dice semplicemente la piatta verità. Ma la dose è da cavallo! Nulla viene risparmiato all'aspirante padre.
Ma nulla viene risparmiato neanche a tutti gli esperti di bambini, dai pediatri, agli psicologi, ai maestri, che pontificano dalle loro cattedre mentre il povero genitore si dibatte tra cacche, crisi di pianto, insonnie e dilemmi ben più gravi.
Questa parte, benché portata avanti con lo stesso tono scanzonato, è frutto di un lavoro di ricerca e consultazione tra testi dedicati all'infanzia. A me è piaciuta particolarmente perché, senza nessuna delicatezza, ti sbatte sotto il muso le mille contraddizioni che infarciscono la puericultura; i sì e i no contro cui si cozza quotidianamente.
Ma il nostro autore ha del fegato e giunto al capitolo 8, si espone con la sua personale ricetta per tirare su un figlio.
La ricetta, in undici punti, è piena di saggezza: una summa che, se applicata, renderebbe meno dura la vita ai padri e i padri stessi meno fastidiosi per i figli.
Gli ultimi due capitoli, ridendo e scherzando, (facendo finta di ridere e scherzare) trattano due temi belli tosti.
Il controllo delle nascite e la procreazione assistita.
A proposito del primo, così, senza parere, l'autore dà del "criminale planetario" a tutti coloro che si oppongono ad un arresto della dissennata proliferazione delle nascite. Dal Papa in giù, sono serviti. A me l'espressione "criminale planetario" è molto piaciuta. Me ne mancava una all'uopo e la adotterò.
Sulla procreazione assistita, confesso che non lo seguo del tutto. A me il suo: "Volete figli? Fateli scopando. Non vi vengono perché siete sterili? Sfiga... Volete comunque figli, anche se non vi vengono senza ricorrere alla neostregoneria? Prendetene uno già fatto..." mi sembra un po' troppo semplicistico. Pur condividendo la posizione di fondo, trovo che si tagli con l'accetta un tema che ha implicazioni, ahimé, molto, molto profonde.
E non immaginate che piacere mi abbia fatto poter trovare, proprio alla fine, un elemento di possibile discussione!
Comunque, il libro mi è piaciuto. Mi azzardo anzi a dire qualche cosa di più: è un libro non solo divertente, ma utile.
Non sarebbe male -neanche per l'autore, penso- se tutti, ma proprio tutti gli uomini in procinto di riprodursi, lo leggessero. Un paio di volte, direi.

martedì 27 maggio 2008

aggressione fascista all'Università la Sapienza di Roma


"Chi non sa ricordare il proprio passato è destinato a riviverlo" Jorge de Santayana.
E chi lo altera, lo falsifica, lo mistifica? Chi lo tradisce? Chi lo svilisce, chi lo mortifica, chi lo insudicia?
E chi se ne fa uno su misura, tutto correttino, a balze e volants?

Questa città ha spensieratamente deciso che il passato di certa gente poteva essere riscritto, un po' meno nero, un po' più presentabile, un po' più accattivante. E invece no. Quel passato, il passato di quella gente, brava gente, per carità, ha portato con sé le aggressioni fasciste, i bastoni, i coltelli, gli agguati.
Non piacerà a molti, ma lo so dire solo così: sono usciti dalle fogne.
E adesso lapidatemi pure.



Da Palermo interviene il sindaco Gianni Alemanno: "Le violenze a Roma sono da condannare senza alcuna attenuante. L'università La Sapienza non può essere luogo di scontro e di violenza politica". Secondo Alemanno sono false le voci di un clima di violenza e intolleranza diffuso nella capitale. "Ci sono in giro degli imbecilli pericolosi che vanno isolati - dice il sindaco - i responsabili di questa aggressione devono essere assicurati alla giustizia e messi in condizione di non nuocere".

Il sindaco mente. Di falso in questa storia c'è la sua parola. Il sindaco ha fatto la sua campagna elettorale sul tema sicurezza, e, in meno di un mese, ha reso insicura questa città. Per i gay, gli immigrati, i rom, i giovani di sinistra.
La violenza genera violenza. Questo, più di ogni altra cosa, mi fa paura.

figlia di mezzo/undici/fase di atterraggio

Quando la madre, esasperata dai continui tradimenti, sbattendo violentemente la porta alle spalle del Comandante che partiva per uno dei suoi viaggi di lavoro, gli lanciava la più terribile delle maledizioni. -Che il tuo aereo possa precipitare!-, la figlia di mezzo, ancora bambina, usciva sul balcone della cucina e pregava appassionatamente un dio in cui allora credeva, perché le restituisse suo padre sano e salvo.
Nei giorni successivi tratteneva il fiato, offrendo alla madre la più totale, supina e ostile obbedienza.
Al ritorno del Comandante, la figlia di mezzo si sentiva ogni volta più certa che la forza della sua preghiera potesse far atterrare lievemente gli aerei.
Ma il peso di quell’opera di salvaguardia segnò per sempre il suo cuore di un insopprimibile rancore verso la madre.

Con gli anni smise anche di innalzare preghiere, perché in lei cominciò a farsi strada l’idea che quel dio che riportava indietro il Comandante avrebbe dovuto farlo spontaneamente, senza incidere di terrore e di odio la sua anima di bambina.

lunedì 26 maggio 2008

consolazioni/due



A maggio gentilmente i papaveri offrono la loro bellezza al passato.Ed anche questo fa parte delle consolazioni della vita.

Qui compariva una foto che avevo trovato in Flickr. Ma, pur avendo chiesto il permesso all'autrice, non ho atteso di avere il suo consenso e si è quindi indispettita. Mi sono già scusata ed ho provveduto a rimuovere la foto. Ringrazio comunque l'autrice per la consolazione, sia pure breve, che la sua bella foto mi ha arrecata. Intorno a casa, alle Terme di Traiano e nei resti dei Ludi gladiatorii e alle Sette sale, in questi giorni i papaveri esibiscono tutta la loro bellezza. Per le foto sono negata, come è più che evidente, ma voi siete perfettamente in grado di arricchire queste immagini con la vostra immaginazione.
Quanto a me: anche riuscire a fare una piccola cosa da sé può costituire una modesta consolazione.

consolazioni/uno

Qualche parola sull’amicizia.
Lasciando da parte Seneca e Cicerone e Catullo e Virgilio e chiunque altro. Ed ognuna delle possibili, innumerevoli citazioni.
Solo qualche parola che se ne viene su spontanea.
Molte sono le similitudini che potremmo usare per descrivere l’amicizia. Potremmo dire che l’amicizia è come una coperta morbida che ci copre i brividi di freddo. E sarebbe vero. Ma potremmo anche dire che è una tela scabra, se è davvero amicizia, e che ci pettina contro pelo, alla bisogna. E sarebbe vero. Potremmo dire che l’amicizia è un porto, o che è una fonte. Sarebbe vero, ancora.
L’amicizia però è qualche cosa di più essenziale ancora e semplice e immediato.
L’amicizia ha questo di unico: che siamo noi, così come siamo. Di fronte all’amica noi siamo solo noi. Non servono scudi e non servono orpelli. L’amicizia è nudità.

Pensiero sucessivo.
L’amicizia non ha bisogno di niente. E’ immateriale. Non ha bisogno di spazi comuni e non ha bisogno di tempo.
Un amico può passare come un lampo nella nostra vita. Non lo rivedremo forse più. Ma siamo stati amici.
E un amico potremmo non averlo mai visto.
Da lontano, ognuno nel proprio spazio, nelle forme più diverse, ci possiamo scambiare amicizia.

Pensare all’amicizia è consolazione.

domenica 25 maggio 2008

è arrivata marina song, di Donnigio!

Non è vero, non è possibile, non ci credo! Ommioddio, oddiomio, ommioddio.
Andate ed ascoltate. Ascoltate per credere. Donnigio ha davvero, proprio davvero, scritto una musica per me! E che musica!
Oh gente, che musica! E' perfetta, c'è proprio tutto. E' originale, poetica, coinvolgente. C'è il ritmo della vita e una piccola nota pensierosa. Suona come un invito. Fa venire voglia di ballare e di fischiare e di chiudere gli occhi al sole. Ma anche camminare sulla spiaggia nel buio. Vi giuro, contiene anche del mistero! E si chiama "Marina song"!
Tutte le Marine ora avranno la loro canzone. Ma non vi allargate, ragazze! Questo regalo è MIO, SIA CHIARO. Donnigio è AMICO MIO, mica vostro! Ma "Marina song" è per tutte le Marine e tutte sappiano di dover ringraziare Donnigio.
Quanto a me, non ho parole. Non ho i verbi, mi mancano gli aggettivi, i sostantivi latitano e le congiunzioni non sanno che cosa congiungere! Mi sono rimasti solo i punti esclamativi e un sorriso beato sulla faccia.
Donnigio, posso solo dirti grazie. E dirti quanto sei meravigliosamente bravo e quanto sei meravigliosamente generoso.
E come mi sento commossa. E non è vero Donnigio che avrei preferito una classica canzone. Sentita la tua musica una volta, ti garantisco, non c'è NIENTE che avrei potuto preferire! NIENTE.
Ed è registrata alla Siae. Cioè E' UFFICIALE! Sarò forse un po' infantile, ma questa cosa della registrazione alla Siae, mi fa sentire molto importante.
E adesso andate ed ascoltate e leggete bene quello che c'è scritto. C'è scritto: Marina song!
Qui, invece, trovate le altre produzioni di Ateneriena produzioni, perché Donnigio non sta fermo un minuto, una ne fa e centouna ne pensa. E tutte, ma proprio tutte, meritano i nostri applausi.
Grazie, Donnigio. Grazie da marina.

un pensiero da Mercedes

"A todos los que sufren ausencias: ese rìo de esperanzas inùtiles, que nunca encuentra el cauce adecuado para llegar hasta el mar."
Per tutti coloro che soffrono assenze: questo fiume di speranze inutili che non trova mai il corso per arrivare al mare.

Mercedes Salisachs - El volumen de la ausencia

sabato 24 maggio 2008

piccolo dono

Oggi vi lascio in dono solo tre parole.
Tre parole tratte dalla nostra bellissima lingua.

La prima è volanda: s.f. 1.Spolverio di farina che si solleva durante la macinazione del grano. 2.Parte girevole della ruota del mulino.

La seconda è sòbrio: agg. (pl.m. sobrî). Moderato nel soddisfacimento degli appetiti e delle esigenze naturali.; contenuto entro i limiti del necessario o del sufficiente. *fig. Semplice, misurato; alieno da ogni eccesso o ridondanza. [dal lat. sobrius, contrario di ebrius, quindi 'non ebbro']

La terza è qualòra: cong. Nel caso che, con valore temporale e insieme condizionale.

Fate così: Assaporatele prescindendo dal loro significato. Concentratevi solo sul loro suono: volanda...sobrio...qualora...
qualora...sobrio...volanda...
Che musica, vero?
Adesso pensate allo spolverio della farina del grano che s'alza nell'aria: che volanda...
Poi immaginate la pulizia di una pagina di Calvino: così sobria...
E infine ripetetevi, col pensiero ad una vostra speranza: qualora...

Io vado nella campagna umbra. Buon sabato.
Anche sabato, che suono musicale quelle tre sillabe!

venerdì 23 maggio 2008

un altare per la Maternità?

È finita, sembra, la vicenda del processo Franzoni. L'esito appare come il più giusto. Almeno a me. Ma questa storia è troppo amara per provare il senso di rappacificazione che l'esercizio della giustizia dovrebbe dare ai cittadini. Non posso fare a meno di pensare al bimbo Samuele. L'innocenza di quel bambino è l'unica innocenza certa. E per quel bambino continuo a provare dolore e tenerezza. Ho passato una brutta notte, perché alla mia mente è presente il pensiero del suo spavento. Molto più del dolore fisico mi addolora e non mi dà pace il pensiero del suo spavento. Anche Davide e Gioele sono innocenti. Anche a loro tocca tanto dolore. Anche loro sono nei miei pensieri. Pensieri inutili.

Pur pensando che la giustizia abbia bene operato, tutto questo senso di rivalsa che leggo sui giornali, questa soddisfazione che prorompe dagli animi colpevolisti mi dà profondamente fastidio.
Non provo nessuna soddisfazione per il fatto che una madre -che mi è sempre sembrata colpevole- lo sia stata dichiarata ufficialmente ed abbia iniziato a scontare il suo delitto. Vorrei che questa storia così atroce servisse solo per porci domande.
Non sulla signora Franzoni. Ma sull'essere madre. Su quando la maternità incontra fragilità, disfunzioni, turbamenti che rischiano di aggravarsi.
Ed anche, più in generale, sulla fatica dell'essere madre in una società che respinge la maternità. Sulla solitudine che una madre può sperimentare. Sulla indifferenza che le sue ansie, le sue difficoltà, i suoi baratti continui, i suoi sensi di colpa, i suoi equilibrismi, ricevono dagli altri. Donne e uomini. Severi, quando non implacabili, allo stesso modo.

La nostra società non ha elaborato nessun pensiero degno di questo nome, sulla maternità.
Dei due aspetti che segnano la maternità le piace sottolineare quello mitico, quello scritto con la Maiuscola. Ah, la Maternità!
Che mistero imperscrutabile! Che miracolo! Che meraviglia! Che commozione! Presto, un altare, per la Maternità!
E lo si adorni di belle tele, di sculture maestose. Grandi poppe, sorrisi teneri, la manina innocente stretta in quella protettrice della Madre. Mi disgusta questa retorica. Mi rivolta questa ipocrisia.

La maternità si scrive a lettere minuscole. È una storia minuziosa, fatta di minuziosi accadimenti; nel nostro corpo e nella nostra mente, nel nostro cuore e nel nostro cervello. Una storia che si apre un giorno e non si chiude più.
La maternità è fatta di atti, di gesti, di sensazioni fisiche, di cose, di materia. La maternità è fatta di responsabilità, di dovere, di sacrificio. Di paure, di solitudine. Di sensi di colpa, di ansia, di domande.
La maternità come gioia piena è l'unica di cui tutti amano disquisire. Io vorrei che fosse lasciata da parte.
Questa ricchezza è solo nostra, nessuno la faccia sua. È intima e resti tale.

Faccia la società la sua parte, tutta la sua parte, perché questa gioia intima non venga soffocata, spezzata, messa a rischio di smarrimento. Verso le madri siamo tutti, come società, inadempienti. Succede che anche le madri lo siano verso i figli.
Ma quando una madre è inadempiente -di più, quando una madre è colpevolmente inadempiente- rispetto al compito che la natura le ha affidato, la società è colpevole insieme a lei. Sempre. La colpevolezza della madre non rende innocente la società.

Questa storia -che non è la storia di Cogne, ma la storia del nostro bimbo Samuele- ci insegna questo.
Intorno a questa storia o ci poniamo le domande giuste o dobbiamo tacere.

È passato più di un anno. I miei sentimenti di allora non hanno trovato pace.

giovedì 22 maggio 2008

commenta tu che commento io

Vorrei scambiare due parole con voi sull’argomento “commenti”.

Neofita dei blog, all’inizio non osavo commentare mai. Leggevo, apprezzavo o non apprezzavo, ma in ogni caso tacevo.
Poi, quando ho aperto il mio blog, ho scoperto che i commenti fanno piacere.
Quasi indipendentemente da quello che dicono. Fanno piacere perché attestano che qualcuno è passato a trovarci e ha impiegato due, tre, sei minuti del suo tempo a leggere le nostre parole. Ci si sente meno soli nell’empireo telematico, e forse anche nella vita. E poi, quello che abbiamo scritto, avendo meritato l’attenzione di un altro, sembra più meritevole anche a noi stessi.
Così anche io ho iniziato a lasciare commenti. E mi hanno preso la mano. Perché, per sentirsi meno soli o nella vita stessa o nell’empireo telematico, anche dire la propria torna comodo. Qui e là sono stata anche polemica. Mai, credo e spero, intenzionalmente e inutilmente aggressiva. In ogni caso mi sono sempre sforzata di essere sincera. E sintetica. Al limite, forse, dello “sbrigativa”, ma sincera. Del resto sono curiosa e mi piace passare su molti blog.
Sono entrata in qualche polemica. In due casi questo ha comportato separazioni. Senza rammarico. Ma, dell’azione del commentare, sono piuttosto scontenta. Sia di me, che, in generale, di come questa pratica viene usata.
Parlerò, però, solo di me; mi sembra più corretto. Vediamo dunque la mia pratica commentatoria. Essa prevede diversi tipi di commenti.

1-Il commento-affettivo.
Passo su un blog amico. (Significa che stimo la persona che lo tiene, ne apprezzo il pensiero e/o la scrittura e si è creato tra di noi un rapporto vero). Leggo un post. Condivido quello che leggo. In effetti non avrei niente da aggiungere. Quello che ho letto è, secondo me, intelligente, corretto, profondo, ecc. Perché aggiungere qualche commento? Confesso che commento ugualmente, anche quando non posso aggiungere niente di particolare e significativo. Perché lo faccio? Per affetto. Scrivo spesso una banalità, ma quello che realmente voglio dire è: sono passata a trovarti perché ti stimo, perché ho dell’affetto per te, perché voglio che tu sappia che apprezzo il tuo lavoro di blogger e non ti trascuro.
Immagino che anche molti dei commenti lasciati a me abbiano la stessa natura.
Il commento-assenso però mi fa sentire stupida. Perché non posso far altro che dire: sono d’accordo. Mi sentirei anche falsa se non fosse che lo lascio appunto per affetto.
Questo tipo di commento dovrebbe quindi, più esattamente, chiamarsi commento-assenso-affettivo

2-C’è poi il commento-richiamo. Qualcuno cui tengo non lascia da giorni nessun commento sul mio blog. Mi sento un po’ trascurata. Penso che i miei ultimi post non gli siano piaciuti. Essendo un cicinin paranoica penso anche di averne perso la stima, l’amicizia, l’affetto. Oh, Dio. Entro in uno stato di ansia: mi sento colpevole di mal-post. O, retrospettivamente, di mal-commento ad un suo post. Mi chiedo anche se sono stata assente-non giustificata sul suo blog. E mi precipito a redimermi. Ottengo un duplice effetto: allevio il mio senso di colpa e ricordo all’amico blogger che: hei, ci sono anche io! Ce l’hi con me? Perché non mi leggi più? Quando, in risposta, mi lascerà un commento, tirerò un sospiro di sollievo: ah, tutto a posto. Non mi ha dimenticata.
Carenza affettiva, è evidente.

3-Per fortuna ci sono i commenti-domanda.
Quando leggo un post che mi suscita ulteriori curiosità sono felicissima. Allora il commento è proprio la domanda spontanea che mi sale alle labbra mentre leggo.
Ma incappo in un altro problema: il giorno dopo non ricordo più dove ho lasciato il commento-domanda. Delle volte mi appunto il blog in cui ripassare per leggere l’eventuale risposta. Quando non lo faccio perdo la risposta e, in caso di polemica, la possibilità di replicare ad un eventuale contro-commento.

4-Qualche volta mi capita di sentirmi chiamata imperativamente ad un commento perché quello che leggo è, nella mia opinione, gravemente errato se non addirittura fuorviante.
Non commento per amore di polemica, anzi commentare in queste circostanza mi procura un po’ di ansia; ma se non lo facessi mi sembrerebbe di essermi sottratta ad un preciso dovere, mi sentirei vigliacca e quieto-vivente.
Questo è il commento-kantiano.

5-C’è poi il commento-stimolo. Questo me lo godo proprio. Il tema è interessante, le mie riflessioni sono diverse da quelle dell’estensore; sento però che ne può nascere uno scambio di idee proficuo; che, se dico la mia, dall’altra parte mi risponderanno con argomenti interessanti.
E allora la mia, la dico. Spesso lo faccio senza preoccuparmi delle suscettibilità altrui e rischio dei malumori. Ma l’intenzione è positiva.

6-Esiste, per fortuna, anche un commento semplice e leggero, il commento-gratitudine.
Ci sono dei blog dove passo spesso perché ogni volta imparo una piccola cosa.
O trovo una musica bella o una bella foto o una vignetta divertente o una poesia, o una citazione, o un concetto, o una piccola informazione.
Potrei allungare la mano, prendere e via. Ma come non ringraziare chi ci fa un regalo quasi giornaliero?
Questi sono commenti che lascio molto volentieri.

7-C’è poi il commento-dal sen fuggito preceduto in genere dal commentarius interruptus.
Mi capita di leggere dei post che mi irritano. O per lo stile di scrittura (ma ne ho già parlato); o perché mi suonano falsi. Intendiamoci è una sensazione puramente soggettiva e so benissimo che potrebbero invece essere post sincerissimi. Ma nel mio cervello si accende la spia “qui si gira un film” e mi salta la mosca al naso.
Allora mi censuro e NON commento. Lascio il blog in un silenzio malmostoso.
Ripasso però dopo qualche giorno e se trovo la stessa aria, a mio avviso, inautentica, non resisto più. E lascio il commento-dal sen fuggito.
Mi sforzo di farlo gentilmente, ma lo faccio.
Qui è il mio cattivo carattere che affiora. Infatti, se avessi un carattere miglliore, in questi casi dovrei limitarmi ad allontanarmi silenziosamente. Invece l’insincerità è per me una provocazione irresistibile.

8-Ho anche dei commenti-innamoramento. Chi li riceve penserà di me che sono pazza.
Capito in blog sconosciuti. Leggo qualche cosa di personale che mi fa scattare un senso di empatia. Provo una sensazione di somiglianza e di slancio mi lascio andare ad un commento confidenziale, quasi intimo.
In genere non ripasso più: mi vergogno. O ripasso dopo molto tempo, attirata ma timorosa.

Forse uso altre tipologie di commenti, ma in questo momento non mi vengono in mente. Mi pare però evidente che alcune di queste categorie dovrei abolirle.

Il commento-dal sen fuggito, dovrei tenerlo per me. E’ inutile e anche scortese.

Il commento-domanda, visto che non ricordo a chi l’ho posta, è superfluo.

Il commento-richiamo dovrei essere capace di abolirlo e tenermi le mie carenze affettive.

Il commento-innamoramento andrebbe evitato. Probabilmente turba il destinatario.

Insomma di otto tipi di commento, almeno quattro non dovrei lasciarli.
Dovrei limitarmi al commento-stimolo, al commento-ringraziamento e al commento-kantiano.

Anche il commento-assenso dovrei essere capace di evitarlo: se non c’è niente da aggiungere al post letto, perché perfetto, dovrei lasciare solo la firma. Sarebbe più intelligente.
Però spesso è anche quello affettivo. In fondo è come se ogni giorno telefonassimo ad un amico per dirgli: non ho niente da dirti, ma ti voglio bene. Forse dovrei fare proprio così. Scrivere solo: ti voglio bene.

Rimando ad un'altra occasione l'analisi delle mie risposte ai commenti altrui.

sì vendetta...

Mio marito sostiene, infastidito, che io stia diventando sorda. Ma le prove audiometriche lo smentiscono.
Avanzo allora l’ipotesi che sia semplicemente diminuito il mio livello di attenzione alle sue parole. L’idea lo offende e la respinge sdegnato. No, prove audiometriche o no, sto diventando sorda!
Ne deduco che preferisca pensarmi sorda piuttosto che meno attenta alla sua voce.
Gli prospetto malignamente questa mia deduzione. Sorpresa: lo diverte e ammette che... insomma... può darsi che...in fondo... tutto sommato... sì, preferisce pensarmi sorda!
Mi riprometto di fingermi tale alla prima occasione.

mercoledì 21 maggio 2008

Phil Collins & Eric Clapton







You know I never meant to see you again
and I only passed by as a friend
All this time I stayed out of sight
I started wondering why

Now I, I wish it would rain down, down on me
Yes I wish it would rain, rain down on me now

You said you didn't need me in your life
I guess you were right
Well I never meant to cause you no pain
But it looks like I did it again

Now I, I wish ....

Though your hurt is gone, mines hanging on, inside
And I know it's eating me through every night and day
I'm just waiting on your sign

'Cos I know, I know I never meant to cause you no pain
And I realize I let you down
But I know in my heart of heart of hearts
I know I'm never gonna hold you again

figlia di mezzo/dieci/al largo

Quando comprese che quella sarebbe stata l’ultima notte, la figlia di mezzo stese in terra una coperta accanto al letto del Comandante e, chiusi gli occhi, restò per ore ad ascoltarne il respiro faticoso.
Fu un’ anziana suora a confermarle l'imminente decesso, informandola anche che nell’emergenza si doveva richiedere l’intervento immediato del medico di guardia, casualmente, quella sera, una dottoressa già nota alla figlia di mezzo come inflessibilmente cattolica. Senza guardarla in viso, la suora pregò la figlia di mezzo di informarla quando, a suo parere, fosse giunto il momento di lanciare il dovuto allarme.
Si allontanò dunque verso altre incombenze.
Qualche ora più tardi, e il Comandante ormai libero e in salvo, in un territorio guadagnato attraverso lunghe sofferenze, la figlia di mezzo avvertì la suora che, a suo parere, era giunto il momento di lanciare l’allarme.
La suora comprese, ma scattò, chiamando con la massima urgenza al capezzale del Comandante la dottoressa di guardia.
Arrivata precipitosamente, la dottoressa constatò che il Comandante le era sfuggito e furiosa apostrofò la figlia di mezzo chiedendole perché non l’avesse mandata a chiamare prima.
Ma la figlia di mezzo, senza una lacrima e senza una parola, si limitò a guardarla fissamente, finché non la costrinse a indietreggiare lungo il corridoio nel suo camice svolazzante.

Forse due ore in più o in meno di sofferenza non fanno poi una così grande differenza per un morente, ma la figlia di mezzo non aveva voluto far correre al Comandante il rischio che la dottoressa, in nome dei precetti del suo dio, gliele infliggesse.

martedì 20 maggio 2008

rieccomi tra voi...

E torno con un ricordo.

Arriveranno a giorni gli operai per la ristrutturazione di un piccolo appartamento adiacente al mio, che negli anni era diventato per me una specie di cantina, in cui ammassavo tutto quello che non trovava posto in casa.
Sto quindi provvedendo a liberarlo. E trovo un po’ di tutto.Tra le altre cose due tamburelli degli anni ’30.
Appartevano a mio padre che ci giocava sulla sabbia di Ostia con mia madre, quando erano ragazzi.
Sono in ottimo stato e mandano quel suono straordinario che produce la palla di cuoio quando colpisce la pelle tesa sul cerchio di legno. So che ora li fanno in materiale sintetico e sono molto più leggeri, e che la palla è diventata di gomma; ma il suono non è più lo stesso e a me non piace.
Con i tamburelli di mio padre ho poi giocato anche io. Sport molto popolare una volta, e molto divertente. Aveva le sue regole, ma nel complesso, forse perché per lo più si giocava sulla spiaggia, era un gioco molto libero. Era bello tuffarsi sulla sabbia, capriolare per prendere la palla prima che il tiro si spegnesse, saltare per raggiungerla in cielo. E sempre quel suono esatto, fondo, ma vivo, della palla sulla pelle tesa.
Quando si andava avanti in sequele lunghissime senza che la palla cadesse ad uno dei due giocatori, il suono ripetuto diveniva quasi ipnotico, si entrava in una specie di trance, e gli occhi non abbandonavano la palla come se anch’essi volessero tenerla sollevata da terra.
E quando si aspettava la battuta, a gambe larghe e salde sulla sabbia, i piedi che si erano creati un affossamento solido, pronti allo scatto, tutto il corpo si sentiva bene.

Che cosa rimpiangiamo della nostra gioventù?
Davvero la rimpiangiamo intera?
Non ne sono sicura.
Ma rimpiango sì, quando giocavo a tamburello con mio padre, sulla spiaggia di Ostia, allora quasi deserta, e il mare era pulito ma fragoroso (la diga in scogli ancora non era stata fatta) e mio padre gridava: Attenta, batto! E io sistemavo la mia posizione e mentre mi arrivavano gli schizzi salati, gridavo a mia volta: Che aspetti? Batti!

lunedì 19 maggio 2008

segnalazione/panne

Piccolo problema tecnico in casa ineziessenziali.
Domani pomeriggio dovrebbe tutto essere a posto.
ciao a tutti, marina

Storia della felicità /nove/felici per legge?

Personalmente mi ha sempre colpito l’idea di “diritto alla felicità” inserito in Costituzioni, Carte dei Diritti, Preamboli a testi giuridici, Dichiarazioni solenni, ecc.
Non che non veda da quali esigenze nasca, ma, ciò non ostante, mi strappa sempre un sorriso.
Quanto invece questo tema venga preso sul serio dalla riflessione generale lo dimostra anche il Convegno tenutosi proprio lo scorso fine settimana a Cava dei Tirreni e organizzato dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici: “Il Diritto dell’Uomo alla ricerca della felicità”.
Inoltre è uscito da poco un libro “Il diritto alla felicità” di Antonio Trampus Editore Laterza, Bari.

Posso mettere una piccola chiosa? Ci sarà prima o poi la più grande rivoluzione linguistica di tutti i tempi, quella che sostituirà come definizione dell’umanità tutta, l’espressione “uomo” con “persona umana”? Fine della chiosa.


4 luglio 1776 – America: la Dichiarazione di indipendenza proclama “il diritto al perseguimento della felicità”.

1789 Francia: la Dichiarazione dei diritti parla di “felicità di tutti”

1793 Francia la Costituzione Giacobina propone, la «felicità comune» come «fine della società».
La diversa formulazione sottolinea un «bene pubblico», stabilito dallo Stato che si fa promotore, autoritario, di una rivoluzione morale.

1946- La Costituzione Giapponese proclama il “diritto alla felicità”.

Sulla differenza sostanziale tra felicità di tutti o felicità comune, e quindi tra libertà e felicità, Immanuel Kant ha detto qualche cosa di definitivo.

“Nessuno mi può costringere ad essere felice a suo modo (come cioè egli si immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la sua felicità per la via che a lui sembra buona, purché non rechi pregiudizio alla libertà degli altri di tendere allo stesso scopo, in guisa che la sua libertà possa coesistere con la libertà di ogni altro secondo una possibile legge universale (cioè non leda questo diritto degli altri)”.

Per Kant (1724-1804) l’azione politica non può fissare un’idea di felicità e da questa farsi indirizzare, perché produrrebbe paternalismo e dispotismo. L’autorità politica non ha diritto di intervenire sulle scelte, legittime, degli individui. (1793-Sul detto comune)

Più in generale, in merito alla felicità, la posizione di Kant contiene insieme severità e incoraggiamento.
Per Kant la felicità non rientra nei piani della natura.
C’è una scelta morale da operare, o meglio una priorità da stabilire. Prima viene la virtù. Ma la virtù a volte è dolorosa. E succede che coloro che vivono la condizione di felicità (detto nel senso che aveva la parola nel 700, di soddisfazioni dei desideri, e piacere) siano privi di virtù, operino nel male, siano cattivi.
La ragione ci dice che dobbiamo sviluppare una volontà buona che non nuoccia agli altri né alla nostra virtù, ma non ci assicura che sia compatibile con la felicità.
Possiamo però sperare che, una volta resici ”meritevoli di felicità” questa sia attingibile in un futuro( che Kant non definisce).
La lezione è semplicemente... kantiana e Kant o lo si ama o.... lo si ama.

Storia della felicità/otto/ nell’epoca degli illuminismi si parla con voci diverse

De Sade (1740-1814)
“Rinuncia all’idea di un altro mondo; non c’è. Ma non rinunciare al piacere di essere felice e di procurarti la felicità in questo.”
“Nessuna voce, se non quella delle passioni, può condurvi alla felicità."


Jean Francois de Beauvoir marchese di Chastelloux (1734-1788)
“Qualsiasi autorità che non sia esercitata per la felicità di tutti può essere solo fondata sull’impostura e sulla forza”.




Jeremy Bentham (1748-1832) (commento alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che prevede il diritto alla felicità ): “Semplici stupidaggini, stupidaggini retoriche, stupidaggini sui trampoli”.
Questa espressione "STUPIDAGGINI SUI TRAMPOLI" è SEMPLICEMENTE MERAVIGLIOSA.



Giacomo Girolamo Casanova (1725-1798)
“Coloro che affermano che la vita è solo una combinazione di disgrazie intendono che la vita stessa è una disgrazia. Essendo una disgrazia la morte è dunque una felicità. Tali persone non scrivono in buona salute, con la borsa piena di denaro e l’anima soddisfatta per aver tenuto tra le braccia le Cecilie e le Marine, sicuri che ve ne saranno altre in futuro. Questi uomini appartengono a una razza di pessimisti...che può essere esistita solo tra filosofi spelacchiati e teologi farabutti o atrobiliari.Se il piacere esiste e possiamo goderlo nella vita, allora la vita è la felicità. Ci sono delle disgrazie, naturalmente, e io sono il primo a saperlo. Ma l’esistenza stessa di queste disgrazie dimostra che la somma totale della felicità è maggiore.”



Jean Jaques Rousseau (1712-1778) “Si deve essere felici. Questo è lo scopo di ogni essere senziente; questo è il primo desiderio che la natura ha impresso su di noi, l’unico che non ci abbandona mai.”
“La felicità non è il piacere.”
“La felicità è una condizione duratura che non sembra essere fatta per l’uomo in questo mondo. Tutto, qui sulla terra, è preda di un flusso continuo che non permette a nulla di assumere una forma costante. Tutte le cose cambiano intorno a noi, noi stessi cambiamo e nessuno può essere sicuro di amare domani ciò che ama oggi. Tutti i nostri progetti di felicità in questa vita sono perciò vacui sogni.”

Jean Jaques Rousseau merita qualche riga in più, per almeno due ragioni.
1-Egli muove una critica al progresso che si rivelerà anticipatrice delle riflessioni del Novecento.
Rousseau sostiene che la civiltà moderna (la modernità della sua epoca!) è una civiltà innaturale, che separa l’uomo dai suoi desideri e bisogni più naturali.
La capacità dell’uomo di “autoperfezionarsi” provoca una inquietudine continua, nuovi desideri e nuove insoddisfazioni.

“Il progresso delle scienze e delle arti non ha aggiunto niente alla nostra genuina felicità.”

“Quanto più l’uomo è rimasto vicino alla sua condizione naturale, tanto minore è la differenza tra le sue facoltà e i suoi desideri, e di conseguenza tanto meno si è allontanato dall’essere felice.”

2-Per Rousseau è l’associazione politica che può aiutare l’uomo a ricostituirsi una felicità dopo aver perso quella primitiva, naturale.
A questo serve il Contratto sociale. A forgiare un uomo nuovo senza egoismo e amour propre, sostituendo “un’uguaglianza morale e giuridica a qualsiasi disuguaglianza fisica la natura possa aver imposto agli uomini.”
La ”volontà generale” sarà virtuosa e farà gli uomini felici.
Il povero Rousseau è stato abbastanza strapazzato come responsabile di tutti gli esperimenti di ingegneria sociale condotti dopo di lui e di tutte le loro tragiche conseguenze. Non sono una rousseauologa, ma ricordo bene che egli ha anche scritto:

“NESSUN GOVERNO PUO COSTRINGERE I CITTADINI A VIVERE FELICI; IL MIGLIORE E’ QUELLO CHE LI PONE NELLA CONDIZIONE DI ESSERE FELICI SE SONO RAGIONEVOLI.”
da Scritti politici UTET Torino 1970

Io lo mando assolto.

domenica 18 maggio 2008

grazie, Roma


Il campionato è finito. Vincitore ufficiale l'Inter.
Ma, a cuore aperto, debbo dirvi che io mi sento un po' più vincitrice di loro.
Per questo voglio ringraziare la mia squadra: essere arrivata dove è arrivata, malgrado tutto, (e chi segue il calcio sa di che cosa parlo quando dico "malgrado tutto"), è un risultato straordinario.
Perciò: grazie, Roma.



Per quelli che invece il calcio non lo seguono o addirittura lo hanno in odio ecco qui la poesia di un grande poeta che al calcio ne ha dedicate più d'una.

Di corsa usciti a mezzo il campo, date
prima il saluto alle tribune. Poi,
quello che nasce poi
che all'altra parte vi volgete, a quella
che più nera s'accalca, non è cosa
da dirsi, non è cosa ch'abbia un nome.

Il portiere su e giù cammina come
sentinella. Il pericolo
lontano è ancora.
Ma se in un nembo s'avvicina, oh allora
una giovane fiera si accovaccia,
e all'erta spia.

Festa è nell'aria, festa in ogni via.
Se per pococ ,he importa?
Nessun'offesa varcava la porta,
s'incrociavano grida ch'era razzi.
La vostra gloria, undici ragazzi,
come un fiume d'amore orna Trieste.

Umberto Saba

Ombra su Ombra chiama

Ho ricevuto questo commento dal Piccolo lord. Lo giro, pari pari, alle Ombre.
Non avendo ricevuto nessun tipo di suggerimento o proposta, penso che la mia idea iniziale, integrata dal Piccolo Lord, possa essere considerata quella definitiva.
Nessuno si senta obbligato a dare un seguito al progetto, se non se la sente, però ce lo faccia sapere.

"Marina, credo sia giunto i momento di spiegare come funziona il progetto e dare l'opportunità a tutti di poterlo portare avanti, a cominciare dalla possibilità di scrivere sul blog. Mi pare che il progetto sia quello di fare dei resoconti a scadenza trimestrale (a tale proposito creerò un apposito countdown!), ma credo sia utile che ognuno possa pubblicare (ogni giorno, una volta a settimana, quando gli pare..)le dichiarazioni ritenute più rilevanti dei ministri e dei ministri-ombra di cui è l'ombra così da poter offrire la possibilità ai lettori di commentare di volta in volta.
In tal caso mi permetterei di invitare le "ombre" che già hanno deciso di aderire ad inviare il proprio indirizzo di posta elettronica a ombrasuombra@katamail.com così da poter essere inseriti tra gli autori del blog ombrasuombra.
Orsù, dunque, insediamoci!

solo una poesia


Amore semplicissimo che crede alle parole,
poiché non posso fare quello che voglio fare
non ti posso abbracciare né baciare
il mio piacere è nelle mie parole
e quando posso ti parlo d'amore.
Così seduta davanti a un bicchiere
in un posto pieno di persone
se la tua fronte si increspa veloce
io parlo ad alta voce nell'ardore
tu non mi dici fa meno rumore
che ognuno pensi pure quel che vuole
io mi avvicino sciolta di languore
e tu negli occhi hai un tenero velame
io non ti tocco, no, neanche ti sfioro
ma nel tuo corpo mi sembra di nuotare,
e il divano di quel bar salotto
quando ci alziamo sembra un letto sfatto.

Patrizia Cavalli: Pigre divinità e pigra sorte
Einaudi - 2006

sabato 17 maggio 2008

citazioni


"Se la conoscenza vi dà dei problemi, non sarà l'ignoranza a risolverli."
Isaac Asimov

La conoscenza, in effetti, può dare parecchi problemi. Crea domande nuove, insinua dubbi, mette fastidiose pulci nell'orecchio.
E l'ignoranza?
Nei nostri giorni l'ignoranza è portata con strafottenza, talvolta con arroganza, addirittura con orgoglio.
Ma, malgrado il suo strapotere, continua a non risolvere i problemi.

venerdì 16 maggio 2008

retate



BASTA CON GLI STRANIERI!! CI RENDONO XENOFOBI E RAZZISTI. PREFERIAMO RESTARE ACCOGLIENTI E TOLLERANTI.

Quello raffigurato nella vignetta di Willem è Charles Pasquà, rappresentante dell'ala più reazionaria del partito neogollista francese, Ministro degli Interni nel Governo Chirac (1986) e nel Governo Balladour (1993).

Sostituite al faccione di Pasquà quello di Maroni e la vignetta ha tutta la sua maledetta attualità.

L'autore, Bernhard Willem Holtrop, disegnatore satirico belga, (1941) è stato per anni collaboratore di Libération. Ha uno spirito corrosivo, a tratti feroce. I suoi disegni sono spesso crudeli, choccanti. Per anni ho cominciato la lettura di Libé dall' Oeil de Willem, il vero editoriale del giornale. Ecco qua la sua faccia e il suo "occhio" impietoso.

giovedì 15 maggio 2008

che le fate del giorno e gli elfi della notte siano benigni a Donnigio!

Tripudio, commozione e gratitudine!
DONNIGIO, invoco su di te tutte le benedizioni del mondo, di ogni più piccola divinità, come pure quelle semplici del cuore umano! Se davvero farai questo per me spolvererò i marciapiedi romani dove poserai il tuo passo calmo, da qui all'eternità!
baci, abbracci e ancora baci marina

per rispondere a Julo/ciò un blog/otto

...Continua dal post precedente
Per tornare al mio nome e al suo destino, che ora definirò, in un guizzo di fantasia linguistica, mortificante e lacrimevole, ho in proposito una domanda angosciante da liberare.
È mai possibile che mai, nessun musicista mai, in tutto il globo mai, si sia sentito ispirato da una Marina? Che nessun musicista abbia avuto un primo amore di nome Marina, o una compagna di vita, regolare e sacramentata o anche irregolare e clandestina, un’amante, un semplice amorino, un flirt, una passioncella, una dolce amicizia, una simpatia sentimentale, una memorabile scopata, una sveltina, tiè! Insomma una Marina qualunque nella sua vita capace e meritevole di ispirare una canzone degna di questo nome? È mai possibile? Statisticamente no, non lo è. Ne deduco che una malìa al contrario circonda il nome di Marina, un maleficio astrale, chissà. Porto, evidentemente, il più esecrato ed esecrabile nome dell’orbe terraqueo.
Un nome che si spalma su di noi marine rendendoci indegne di attenzione artistica.
Ma al destino non mi arrendo. Né a quello cinico e baro, né a quello lacrimevole e mortificante.
C’è stato infatti un momento in cui ho addirittura pensato di commisssionare una canzone ad un cantautore. Lo avevo anche identificato. Si chiamava Sergio, era il cantante di uno sconosciutissimo gruppo che allietava le serate dei “villeggianti” nel paese delle mie vacanze. Il nome del gruppo non lo ricordo più, ricordo però che lui era nato a Strangolagalli e che mi regalò una rosa rossa ed un libro di fiabe. Quanti anni avrò avuto? Perché mi regalava fiabe e rose rosse? Boh, misteri dell’altro secolo. Comunque io ero una pre-adolescente con la fissa di una canzone a mio nome e disposta a-quasi-tutto per ottenerla. Non ricordo se Sergio di Strangolagalli si rifiutò di scrivere una canzone per me o se in manca di ispirazione ci dovette rinunciare. Comunque non se ne fece niente. In un altro periodo della mia vita decisi invece che la Canzone per Marina me la sarei scritta da me. Ma evidentemente le Marine non si autoispirano neanche, perché la canzone non vide mai la luce.
Attenzione non pensate di cavarvela citandomi “La storia di Marinella” di Fabrizio De Andrè, come prova dell’esistenza di una bella canzone dedicata al mio nome. Non accetterò succedanei o surrogati. Una Marinella non è una Marina! Ve l’ho già spiegato. In più la povera sfigata festeggia la primavera scivolando nel fiume al termine del suo primo appuntamento d’amore! E poi, con tutto il rispetto e addirittura l’amore per De André, una favola l’amore lo disincarna e io voglio invece una vera canzone d’amore. Dietro si deve sentire il desiderio se no non vale.
A questo punto quindi inserirò, non una digressione, ma un appello. Non so se gli appelli vengano dalla critica considerati digressioni o interpolazioni o cos’altro, ma qui inserirò il mio appello e la critica, militante o meno, volente o nolente, se lo beccherà. Come pure l’eventuale lettore.

Pubblico appello ai musicisti della nazione.
Qualcuno scriva una canzone per marina.
Volete fare un gesto di bontà? Dedicatemi una canzone. Non a me, come persona, ma a me come rappresentante ufficiale di tutte le Marina della terra. Quanto a me, proprio me come persona, mi farete felice. Di più: colmerete un vuoto affettivo che mi prostra dalla prima adolescenza. Ve lo chiedo con gentilezza, ecco: scrivete una canzone per me. Solo allora il mio cuore troverà pace, quando sulle spiagge, intorno alle fiamme dei falò estivi, i giovani si commuoveranno cantando una canzone il cui titolo suonerà semplicemente “Dedicata a Marina”. Voglio una melodia davvero speciale, niente che sia meno che musicalmente esatto, ispirato e intenso.

Con questo appello ritengo di avere a sufficienza allungato il brodo del mio racconto, sono a pagina tredici e praticamente ho ancora tutto il mio materiale intatto. Avrete notato spero l’uso del termine ‘materiale’. Con materiale uno scrittore intende quelle tre, quattro cose che ha da dire. Ora io non sono così certa di avere quattro cose da dire e forse neanche tre, ma che siano quattro, tre, due, una, via! le ho ancora tutte nella mia testa, ancora non ve ne ho messi a parte. Questo vuol dire che, supponendovi almeno un po’ curiosi, resisterete ancora a leggermi, se non altro per poter poi dire: ma tu guarda questa, quanto l’ha fatta lunga per dire ‘sta cagata colossale! Intendiamoci io preferirei che i vostri commenti fossero di natura diversa, ma sono disposta ad accettare anche un commento così spiccio e fuori dai denti piuttosto che essere abbandonata a pagina tredici. Continua...

ciò un blog/capitolo sette

Riepilogo delle puntate precedenti: di come la nostra autrice abbia dato inizio alla corrente letteraria dei Ri-principianti, allo scopo di trasformare un blog negletto in un libro superfluo. O forse deleterio.

Oggi riprenderò semplicemente dal momento in cui ho scoperto che nessuno, ma proprio nessuno aveva registrato la presenza nel cyber spazio delle tre creature che vi avevo lasciate andare.
Questo mi confermò nella convinzione che tenere un blog comportasse zero rischi e che avrei potuto tranquillamente procedere con la confezione del mio blog autentico.
Ho fin qui tralasciato l’aspetto impaginazione e grafica del blog, per lo stesso motivo per cui anche adesso non gli dedicherò più di qualche parola: e cioè che non vedo la ragione di rivelare a voi per intero la mia goffaggine e la mia inettitudine, soprattutto dato che, bene o male, le ho superate e sono approdata al momento fatidico in cui la cornice del blog è pronta e si tratta di cominciare a nutrirlo. Perché in effetti un blog è una vera e propria creatura, silenziosa ma famelica, che reclama la sua carne fresca quotidianamente.

Era il 9 di aprile, mese in cui il mio umore, altrimenti tendente al grigio spento con oscillazioni, imperiodiche, di color crema di noccioline, si stabilizza su un bel colore roseo, che va caricandosi e accendendosi man mano che le ore di insolazione crescono fino a raggiungere nel pieno dell’estate la sua massima intensità. Si stria allora di ogni possibile tonalità arcobalenica e avvampa trionfalmente fino al solstizio di autunno, quando malinconicamente ogni tinta prende ad impallidire e il mio umore torna ad attestarsi sul suo bel grigio topo. Attestarsi è un termine improprio e, quanto meno, ambizioso. Diciamo piuttosto che le oscillazioni, capricciose, si muovono intorno ad una retta malinconicamente sbrindellata, sollevandosi talvolta verso il “chi c’è là fuori?” e ricadendo, stancamente, verso il “lasciatemi spegnere qui”.
Ma di parlarvi delle oscillazioni del mio umore non mancheranno occasioni.
Era aprile, dicevo e trovandomi in quello stato di pre-grazia, decisi che potevo consentirmi un blog intimista.
Aprii così con un piccolo post in cui introducevo quelli che sarebbero stati temi ricorrenti del mio blog: ricordare, musica, malinconia. Come vedete temi universali, con un piccolo tocco di riflessione filosofica, non troppo evidente per non spaventare un eventuale lettore refrattario alla riflessione, non troppo nascosta per attirare invece un lettore che vi fosse disponibile.
I primi giorni procedetti così, mantenendomi su un piano che mi sembrava squisitamente equilibrato. Per firmare questo blog non adottai nessun anagramma del mio nome, limitandomi ad occultare il mio cognome. Cosa che del resto, come vi sarete accorti, faccio anche ora. Circa il mio nome ho parecchie cose da recriminare. Innanzitutto la sua banalità: mi sembra inappropriata alla mia personalità scoppiettante. Ma un padre amante del mare lo trovò simbolicamente appropriato. Secondariamente è un nome che porta con sé, come diminutivo, il terribile marinella. Ora marinella fa, ovviamente, molto stabilimento balneare. Il litorale italiano è pieno di Lidi che si chiamano La Marinella. Sono per lo più lidi di second’ordine, perché quelli veramente chic hanno nomi tipo la casetta, la capannina, il retiro o qualche cosa d’altro seguito dalla parola beach. Quindi, non solo il diminutivo del mio nome fa molto stabilimento balneare, ma anche stabilimento balneare di second’ordine.
Mi sembra una ragione sufficiente per rifiutarlo decisamente.
Ma, diminutivo a parte, il mio nome ha a mio avviso altri e non inferiori handicap.
Almeno nella cultura popolare del nostro paese. È infatti legato ad una canzoncina che mi perseguita dagli anni sessanta. Marina by Rocco Granata. Ho sempre pensato che il mio nome, niente di speciale, per carità, ma neanche il più brutto della terra, fosse vittima di una congiura perniciosa, la cui prova provata era appunto l’esistenza di quella canzoncina insulsa.
Prendete il verso che dice “una ragazza mora MA carina”. Mi innervosisce. Quel MA è l’insopportabile spia di un più che scontato pregiudizio favorevole nei confronti delle ammalianti bionde. Mentre non mi consta esserci una contraddizione in termini tra l’essere carina e l’essere mora, come mi sembra inutile specificare che io sono.
Per la verità anche come mora sono insufficiente. Infatti mi si potrebbe più veritieramente definire bruna. La parola mora portando con sé, almeno al mio orecchio, un senso di capello corposo e pesante, nero fino al midollo e sensuale fino alla perdizione. Ora i miei capelli sono invece sottilissimi, aerei e svolazzanti e per nulla sensuali. Comunque nella categoria delle more non sono del tutto abusiva.
Quindi la canzonetta incriminata mi si attaglia perfettamente. Inutile far finta di niente. E infatti mi è stata ripetuta fino allo sfinimento. Qui ne riporto i, chiamiamoli così, versi.


Mi sono innamorato di Marina
Una ragazza mora ma carina
Ma lei non vuol saperne del mio amore
Cosa faro' per conquistarle il cuor
Un girono l'ho incontrata sola sola
Il cuore mi batteva mille all'ora
Quando le dissi che la volevo amare
Mi diede un bacio e l'amor sboccio'

Marina, Marina, Marina
Ti voglio al piu' presto sposar
Marina, Marina, Marina
Ti voglio al piu' presto sposar

O mia bella mora
No non mi lasciare
Non mi devi rovinare
Oh, no, no, no, no, no


L’autore non se ne dolga, non troppo almeno, ma la sua canzonetta è il parto malato di una personalità insufficientemente maturata, caratterizzata dalla massima incapacità di versificazione e da una insopportabile sordità musicale. Spero che questa mia osservazione rientri nel diritto di critica e che il signor Rocco Granata non mi quereli. Più legittimamente avrei dovuto querelarlo io, per avermi infelicitato l’adolescenza e la prima giovinezza e inseguita fino alle soglie della vecchiezza. Perché la verità è che la persistenza nel ricordo di una nazione dei motivi musicali è inversamente proporzionale al loro valore. La gente dimentica piccoli gioielli, miracoli di equilibrio, buon gusto e grazia tra testo e musica e ricorda invece ostinatamente, pervicacemente, implacabilmente canzonette prevedibili nella melodia e insignificanti nel testo. Sicché questa canzonetta è ancora presente e viva nella memoria della nazione tutta e non manca occasione di ascoltarla ancora oggi. Giorni fa’ ho dovuto abbandonare precipitosamente l’autobus su cui mi ero a forza incastrata perché dalla suoneria di un telefonino portatile è partito il tragico, sfacciato motivetto!
Sul signor Rocco Granata devo dire che non contento di aver stigmatizzato noi Marina, qualche anno dopo, implacabile, si avventò sulle Manuela. Il risultato fu meno insultante della sua prima composizione, ma comunque spiacevole. Non mi sono confrontata con nessuna Manuela in proposito, ma penso di potermi esprimere per loro. Comunque una canzone brutta come Marina secondo me ancora non ha visto la luce in questa nazione.
Ed è triste che noi “marina” non abbiamo meritato altro dall’ingegno della nazione medesima.
E qui arriviamo, finalmente, alla sostanza del mio discorso, al vero punto dolens.
Il punto dolens è che ho sempre sentito la mancanza di una vera, bella canzone dedicata al mio nome.
Una canzone per Marina mi manca, come la negazione di un diritto, come l’ingiustizia beffarda di un destino cinico e baro. Su cinico e baro voglio digredire.
È un’espressione così trita, usata, abusata, e rimasticata che andrebbe vietata per legge. Ma, nello stesso tempo, e come altre espressioni simili, tipo becero e cialtrone, è così lapidaria che farne a meno non si può. O almeno, non si può se non si ha voglia di sforzare un po’ la propria fantasia linguistica alla ricerca di un’espressione con la stessa lapidarietà ma una sua originalità. Questa voglia io non ce l’ho punto. Voi vi chiederete perché una persona che non ha fantasia linguistica, né voglia di lavorarci un po’ intorno, voglia invece scrivere un libro e nutrire anche la speranza di vederlo pubblicato. La risposta risiede nel costume di questo paese, dove, come è sotto gli occhi di tutti, si fa il senatore essendo più adatto a fare il postino e il postino essendo più adatto a fare l’attore porno e l’attore porno essendo più adatto..No, stop, qui non ci siamo, infatti l’attore porno è forse l’unico caso in cui la meritocrazia funzioni in Italia e nessuno può improvvisarsi attore porno abusivamente. Per la contraddizion che nol consente. Diciamo allora semplicemente che io sono un perfetto esempio dell’odierno costume nazionale che consiste nel voler raggiungere il successo senza aver nessuna delle qualità specifiche per il settore in cui si aspira a raggiungerlo e neanche quella volontà di impegnarsi che potrebbe riscattare la mancanza di talento. Ecco, ho sputato il rospo. Del resto già all’inizio avevo detto di me che non ho nulla da dire e che appunto per questo avevo aperto un blog. Se senza aver nulla da dire si fa legittimamente un blog, senza saper scrivere si fa legittimamente un libro. Chiaro come il sole. Anche chiaro come il sole è un’espressione priva di originalità, ma vale per questa la digressione di cui sopra. Continua...

mercoledì 14 maggio 2008

aggiornamento OMBRA SU OMBRA

Riporto le nuove adesioni al nostro progetto:
GIULIO IN CANADA (di cui non ho il link) è interessato. Segue forse una sua idea che metterà a confronto con la nostra.
Finazio è disponibile a dare una mano. Deve indicarci la sua area di interesse.
Luciano-Idefix ancora non ha indicato la sua. Lo rimbrotto qui.
Sturm und drang , presente anche quiè interessato ai temi della Giustizia che rientrano nelle sue competenze..
L'interesse di Duccio forse diventerà partecipativo?
Franca si dice disponibile ad inviarci di tanto in tanto alcune sue riflessioni
SPERO DI NON AVER DIMENTICATO NESSUNO Eventualmente protestate!

Queste invece sono le precedenti adesioni.
Giulia con L'isola sconosciuta si occuperà dell'istruzione
Tomas terrà d'occhio Chiamparino
Il Piccolo Lord sarà l'Ombra dell'Ombra Pina Picierno, ma sta anche lavorando alla grafica del blog. Anzi, andate a vedere la sua proposta di LOGO. A Mariateresa e a me piace. Fateci sapere le vostre opinioni.
Gobettiano sottolinea l'importanza di occuparsi del problema dei media e degli organi di stampa
Amalteo ha nelle politiche sociali e sanitarie il suo campo lavorativo ma sottolinea l'importanza di seguire le Riforme Costituzionali e Federalismo fiscale
Mariateresa e marina hanno già iniziato a raccogliere la documentazione sulle Pari Opportunità
PERLA suggerisce di formare dei gruppi; lei personalmente si occupa di Politiche Giovanili; compatibilmente con gli impegni lavorativi potrebbe farlo anche per noi.
Cristiana di Dicolamia si offre di occuparsi delle PR di questa iniziativa.

Intanto ho messo qualche link utile al nostroblog. Abbiamo anche un indirizzo e-mail: ombrasuombra@katamail.com
Suggeritemi tutti i link che vi sembrano necessari, anzi, se avete voglia di lavorarci fatemelo sapere (emmepi43@mclink.it) e vi trasmetto le chiavi di accesso.

E adesso entrerei un po' nel merito.
Mariateresa ed io stiamo già lavorando. In che modo?
Per ora ci limitiamo ad una rassegna stampa/archivio. Raccogliamo tutti gli interventi sia della Ministra per le Pari Opportunità, Mara Carfagna, che della sua Ombra, Vittoria Franco, come pure articoli che dibattano i temi in oggetto. Prepariamo cioè il lavoro di stesura di una relazione, con commenti, che fra tre mesi, metà di settembre, pubblicheremo sul blog.
Spero che lavoriate anche tutti voi! Se volete pubblicare costantemente i commenti sul blog, potete farlo. Anzi, alimentarlo costantemente sarebbe importante. Ma su questo aspetto le vostre idee, oltre che il vostro contributo!
Se avete modi diversi di procedere, tecniche, idee, suggerimenti, consigli, insomma tutto quello che vi salta per la testa relativo al nostro progetto, fatemelo sapere.

Fermo restando che chiunque può aggiungersi in ogni momento direi che, essendosi insediato il Governo-Governo, ed anche il Governo-Ombra, dobbiamo insediarci anche noi!
Perciò, al lavoro!

DIMENTICAVO: d'ora in poi tutte le comunicazioni relative al nostro progetto le posterò anche sul nostro blog.

Gabriel Fauré, amato crudele





In un computer comprato d'occasione ho trovato un inaspettato patrimonio di musica che sto pian piano esplorando.
Poco fa sono capitata su questo pezzo di Gabriel Fauré e la cosa non può passare sotto silenzio. E' un brano del requiem che Fauré non scrisse in memoria di un defunto, come è tradizione, ma così, per suo piacere. Il brano non lo conoscevo, ma Gabriel Fauré è un vecchio amore che non si lascia dimenticare.

Gabriel Fauré, seduzione e frustrazione per me. Tra le sue composizioni c'è La Bonne Chanson, una raccolta di melodie composte sulle poesie di Verlaine.
Sono seducenti ed ingannevoli. Almeno per me. Quando Nicoletta, la mia maestra di canto, mi propose di studiarne alcune, l'idea di cantare poesie di Verlaine mi emozionò. Questo binomio, poesia e musica, era assolutamente affascinante. Mi ci tuffai con tutto l'entusiasmo e la dedizione. Ma scoprii qualche cosa sulla musica del primo Novecento che ignoravo totalmente. Quanto più sembra facile da cantare tanto più è difficile. Noterete che nell'angolo sinistro dello spartito qui riprodotto, appare un piccolo pentagramma, sul quale sono indicate le note -la più bassa e la più alta- tra cui la melodia si svolge. Le secret è compreso tra il fa basso e il sol. Nulla di impegnativo per un soprano. Dunque quale era il problema?
Il problema era, per me, nell'andamento della composizione, pensato come un corpo musicale unicum. Una specie di legatura mentale e fisica teneva insieme tutte quelle note. Il risultato doveva essere quello di un arco teso -così diceva la mia maestra- fino alla fine del pezzo.
Solo allora la corda poteva cedere e rilassarsi. Non era mica una questione di fiato, ma di surplace, da una nota si doveva entrare nell'altra come se fossero la stessa. Ma la stessa non erano! Insomma, io, bestia, spezzavo quell'arco in tensione, non riuscivo a tenerlo sempre teso e sempre con la stessa tensione. Perché il problema non era solo quello di non lasciar affievolire la tensione dell'arco -della voce- ma insieme quello di non accentuarla. Questo comportava una specie di distribuzione preventiva sul brano della propria emissione di voce, indifferente alle prese d'aria, che non dovevano alterare la tensione, ma scomparire, invece, in essa. Esserne assorbite. Così diceva Nicoletta. E io provavo e provavo e riprovavo. Ma sempre la mia voce tendeva a rinforzare su un piccolo scoglio o a rilassarsi su un passaggio di nota più facile. E si perdeva la sensazione squisita che Nicoletta perfettamente rendeva- di un unico arco di luce e di voce che si dispiegava senza una sbavatura dall'inizio alla fine, con la stessa esatta tensione e ricadeva solo all'ultima nota, "come l'arcobaleno cade all'orizzonte".
Nicoletta parlava del canto e della voce, con termini che all'inizio mi sembravano esoterici, ma di cui poi avevo imparato a comprendere il senso e l'esattezza. Comunque, anche pensando intensamente ad un arcobaleno -teso sull'orizzonte, che nasce dalla terra, progressivamente avanza senza strappi verso il suo apice e poi ridiscende nella terra- il mio filo si spezzava, qui e là cedeva, più avanti tendeva a tirare, a tendersi troppo. La mia voce non riusciva a salire sulle note come lungo quell'arcobaleno, per ridiscenderne arrivata all'ultima. Quei due brani li ho studiati per mesi! Li conosco a memoria, nota per nota, potrei scriverli sul pentagramma ad occhi chiusi. E sotto-scriverci ognuna delle sillabe che posano su ognuna di quelle note. Eppure, eppure...quei due brani non li so cantare. E' inutile girarci attorno. Li canto, certo, senza sbagli; so dove respirare e lì respiro; so dove lasciare il piano e crescere verso il forte, per poi tornare al piano, ma l'effetto unico-respiro-di-musica, l'effetto-onda, l'effetto-arcobaleno, no, quello non lo so rendere. Ogni volta Gabriel Fauré mi sconfigge e più io lo amo e più lui mi infligge mortificazioni crudeli e più io tento di sentire Verlaine come lui lo ha sentito e più lui mi respinge nel mio piccolo oscuro angolo di dilettante.
Ah, Gabriel, credevo di averti dimenticato! E tu oggi ti sei presentato a riscuotere il tuo credito di amore e di afflizione!

per anna ecco Vasco!

Guarda tu che mi tocca fare! Sputtanare un blog così raffinato con Vasco Rossi! Lo faccio solo perché sei tu! Cioè una professionista del rompipallismo.
Meno male che ci pensa Gabriel Fauré a riequilibrare il tutto!

martedì 13 maggio 2008

furto su commissione: gli U2



hei, Guga, se mi arrestano procurami un avvocato!

segnalazione

Il Piccolo Lord ha creato "un primo semplice, provvisorio logo che potete vedere qui.

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Diteci che cosa ne pensate.

Professò/ultima ora

Quando all’inizio dell’anno al professore veniva consegnato l’orario, in genere ci si precipitava a vedere quante quinte ore ci fossero.
L’ultima ora infatti era un vero tormento, sia per gli alunni che per gli insegnanti.
La maledizione dell’ultima ora non consisteva soltanto nel fatto che spesso si perdeva il pullman e si doveva attendere un’ora il successivo, e non nel fatto che di conseguenza si arrivava a casa tardissimo. La vera maledizione della quinta ora erano i ragazzi. Stanchi, irrequieti, incapaci di concentrarsi, affamati e disinteressati.
In genere alla quinta ora leggevo per loro. Poi introdussi la dama cinese. Non è un gioco di grande difficoltà ma richiede un minimo di strategia, costringe ad immaginare la mossa dell’avversario e questo comporta una riflessione astratta, in assenza del dato sensibile. Presentandosi però come solo un gioco, i ragazzi lo accoglievano con entusiasmo. Organizzavo un piccolo torneo. Avevo solo quattro esemplari del gioco e i giocatori ruotavano. Gli altri stavano attorno e osservavano tifando.
Il primo anno mi aspettavo che prima o poi il preside, venendolo a sapere, mi vietasse questa disciplina così poco protocollare. Invece ne fu entusiasta. Era un grande giocatore di scacchi e suggerì che potessi passare dalla dama cinese alla dama tout court e infine agli scacchi. Glielo lasciai credere, ma agli scacchi non ho mai saputo giocare e oltre la dama non arrivammo mai.
Comunque la lettura restava l’attività di elezione della quinta ora. Sceglievo storie un po’ fantastiche, un po’ paurose, un po’ romantiche, un po’ avventurose.
Leggevo la prima mezz'ora e poi toccava a loro. Dovevano immaginare il seguito della storia, suggerire possibili sviluppi, fini più o meno lieti.
I maschi erano molto sintetici. In genere i personaggi morivano tutti in un battibaleno. Le ragazzine avevano molta più fantasia, qualche volta più dell’autore stesso. Un libro che ha sempre avuto un grande successo è Fontamara di Silone. Non è un libro leggero, né divertente. Ma aveva la potenza della verità e i ragazzini sulla verità non si sbagliano.
La quinta ora era anche adatta per giocare con le parole. Non ho trovato un solo ragazzino che non si divertisse a fare rime, assonanze, giochi di parola. Componevamo anche poesie. Io tracciavo un verso alla lavagna e ognuno aggiungeva una parola, una immagine. Uscivano delle poesie fantastiche. Alcune le ho ancora. Un anno le raccogliemmo in un piccolo libro. Erano così stupefatti e orgogliosi quando dicevo “Bravi, avete fatto un’assonanza”. Un’assonanza? Si sentivano importanti. In prima invece componevamo filastrocche. Partivamo da quelle della loro infanzia e le rifacevamo in chiave umoristica o, se dialettali, le traducevamo. Nella quinta ora non si scriveva. Troppo stanchi. Scrivevo solo io, su dettatura.
La quinta era anche l’ora delle storie di famiglia. Cominciavo io, raccontando qualche storia buffa della mia famiglia. Dopo un po’ era una gara. All’inizio tentai di fargliele trascrivere il giorno dopo, ma questo li privava di tutto il piacere e alla quinta ora il piacere di fare qualcosa era indispensabile.
Un’altra possibilità consisteva nell’osservare i ritratti dei personaggi che studiavamo nella storia. Cercavo nei vari libri e ne avevo sempre una collezione. Dai grandi greci fino ai protagonisti del novecento. E loro tutti intorno alla cattedra a guardare quelle facce. Scoprivano che in fondo erano uomini, belli o brutti, alti o bassi. Ne studiavano l’abbigliamento, le espressioni, le decorazioni, quando c’erano. Scoprivano anche che erano solo maschi. Donne pochissime. Le discussioni in classe fra maschi e femmine erano all’ordine del giorno. Le ragazzine avevano trovato chi le spalleggiava e le difendeva. I ragazzini erano sollevati dal fatto che li invitassi ad avere le loro paure, che non le stigmatizzassi. Ma il grande conflitto non si spegneva mai. Disprezzo dei maschi, ma disprezzo anche dalle femmine.
Alla quinta ora, portavo in classe anche qualche rivista di pettegolezzi, in genere me le dava la bidella, erano il suo passatempo quotidiano. Era uno strumento prezioso per discutere di costumi, di modi di vita. Quasi senza accorgersene. Il quotidiano, invece, non lo si leggeva in quinta ora.
Era un lavoro a parte. E complicato. Ne compravo diversi e me li sfogliavo prima. Sceglievo qualche articolo, argomenti diversi. Li leggevamo, discutevamo e alla fine per votazione decidevamo quale testata aveva raccontato meglio il fatto, con quale si sentivano più d’accordo. Gli articoli “vincitori” si ritagliavano e si incollavano su grandi cartelloni. In pratica facevamo il nostro giornale ideale.
Lavorare sui giornali era considerata cosa “moderna” ma delicata. I vari presidi passavano sempre, nell’ora in cui nel mio orario interno risultava la scritta ”lettura dei quotidiani”. Volevano assicurarsi che non facessi della propaganda, che non costituissi piccole cellule adolescenziali comuniste! Non mi passava neanche per la testa. Non ho mai nascostao una sola delle mie opinioni, ma il concetto di differenza fra opinione e verità glielo spiegavo dai primi giorni di scuola. Infatti una delle prime letture era "Esercizi di stile" di Raymond Queneau. So che può apparira assurdo parlare di stile a ragazzini che a mala pena sapevano leggere. (Anche se, attenzione, nel raccontare oralmente avevano un loro stile). Ma dello stile non mi interessavo, volevo solo che sperimentassero gli infiniti modi di vedere, prima che di narrare, un fatto. L’esperimento lo ripetevamo con piccole scenette o piccoli fatterelli, osservati nella scuola. Li raccontavamo e ri-raccontavamo. Ognuno a suo modo. L’unica regola: mai ripetere il racconto già fatto da un compagno. All’inizio era proprio impossibile per loro. Ne uscivano venticinque racconti tutti uguali. Ma alla fine dell’anno, anche Queneau sarebbe stato contento di loro! Ognuno aggiungeva un piccolo antefatto. O qualche piccola conseguenza. La realtà di un fatto banale, come il collega di matematica che era arrivato in classe con un ritardo di mezz’ora e la collega di educazione musicale che aveva dovuto badare a due classi, era smontato e rimontato e indagato in tutte le sue possibili cause e conseguenze, da venticinque punti di vista diversi. Ognuno osservava un particolare sfuggito agli altri. Avevano mille occhi e mille orecchie. Quando alla fine dicevo: -Beh, adesso scrivete la verità- era un insorgere. -Ma quale, professò?-La lezione l’avevano appresa!
Dalla verità passavamo quindi al fatto. E scoprivano che il fatto deve essere il più nudo possibile. Questo serviva nei temi. Ho sempre pensato che la vecchia regola del “rem tene, verba sequntur “ potesse essere applicata anche a dei ragazzini di scuola media.
Gli chiedevo di scrivere in pochissime righe quello che volevano raccontare. Frasi telegrafiche. Mozziconi di frase. Poi li chiamavo alla cattedra. E lì ci lavoravamo sopra. Attraverso le mie domande cominciavano ad aggiungere un po’ di aggettivi, qualche avverbio, un po’ di particolari. Si sforzavano di cambiare un po’ la forma della frase.
I presidi masticavano male, perché i compiti in classe di italiano li facevamo in due giorni. Nel primo c’era questa raccolta di elementi, nel secondo, con tutti i loro fogli di appunti e frasi sparse, dovevano ricostruire il tutto, montare il tema. Poi imparavano che questo lavoro dovevano farlo da soli, dividendo a metà le ore a disposizione per il compito. Le prime volte gliene davo quattro. Poi scendevamo a tre. Non diventavano Quintiliano, ma imparavano a mettere ordine innanzitutto nei loro pensieri e poi a dargli un ordine sulla carta.
Erano così fieri della parola metodo! -Noi abbiamo un metodo, vero professò?-
Naturalmente il metodo non era sufficiente. E, grazie al cielo, in alcuni casi era superfluo. Ho incontrato ragazzini, per i quali scrivere era una passeggiata. Di piacere. Bastava il primo compito in classe per accorgersene e loro andavano felicemente per la loro strada.
Anche io, finita la quinta ora, riprendevo la mia.

lunedì 12 maggio 2008

perché sì! suonino Clocks!

saletta privata

Stare ferma al semaforo, se non sei trasognata, è come assistere alla proiezione di un piccolo “corto” d’autore.
Una piccola ma significativa sequenza di neorealismo.
L’umanità ti passa davanti quale è.
La madre che impugna la manina del bambino e nervosa lo tira per fargli accelerare il passo; la coppia che attraversa un po’ alla cieca, continuando a discutere animatamente e si separa appena raggiunto il marciapiede opposto; il vecchio che alza la mano per trattenere l’impazienza degli automobilisti; il giovane dal passo deciso, attaccato alla sua valigetta, con l’enorme cravatta abbagliante; e, nell’incontrarsi a metà della carreggiata, nessuno guarda nessuno, ma ognuno guarda avanti verso quell’obiettivo, minuscolo ma vitale, si direbbe, fondamentale, costituito dal marciapiedi opposto. Una donna si trascina dietro il carrello della spesa; un ragazzo si riaggiusta sulle spalle lo zainetto spostato dal suo stesso peso. Pròtesi della modernità. I nostri corpi cercano estensioni perché da soli non ce la fanno più. Nessuno guarda le vetture. Avanti, dice il semaforo e l’occhio va dalla strada a quella scritta o a quella luce nel timore che diventi nemica e gli interdica il passo.
La ragazza che si sente bella guarda davanti a sé: eccomi, sono qui, sembra dire.
Il giovane agile si insinua tra gli altri corpi infastidito dalla loro lentezza.
Al centro della carreggiata i corpi che vengono dalla tua destra e quelli che vengono dalla tua sinistra si incrociano e si attraversano. Qualche volta con un po’ di impaccio, come un piccolo ingorgo corporeo. Più spesso , ogni corpo si sposta automaticamente e s’infila, come guidato da una specie di radar, nello spazio lasciato libero dall’altro corpo.
Quando il semaforo lampeggia e il “corto” si avvia alle ultime inquadrature, l’affollamento si assottiglia, si dirada, e passano, come titoli di coda, gli ultimi corpi in corsa, nelle due direzioni.
Lo schermo si pulisce infine e non fai in tempo a proiettarvi la parola Fine che dietro di te già ruggiscono i motori e suonano i clacson.


Se invece sei trasognata, stare ferma al semaforo è come assistere all’anteprima di un film di attualità, alla pellicola segnalata al Festival, all’opera prima ermetica, al piccolo gioiello simbolista.
Siamo alla pellicola onirica, o alla fiction più spericolata, al romanzo sentimentale, al piccolo apologo morale. Dipende. Ombre confuse, avvolte in un alone pastoso, senza nessuna caratterizzazione, scorrono davanti a te, nelle due direzioni; macchie sfocate di colore, dimensione, forma e consistenza diversa, ti ombreggiano la vista. Loro non guardano te, tu non vedi loro. Segui la tua storia, che si snoda su quello schermo in movimento.
Dialoghi si sviluppano nella tua testa e una musica, quasi sempre, accompagna l’azione. Lui insegue lei. Archi che impazzano.
L’eroe si trappa la freccia dal petto e rantola abbondantemente.
Loro remano in un’alba di pulviscolo dorato.
La coppia si affronta: bastardo! illusa!
Lei si specchia nel suo severo abito blù.
Ma, prima ancora che la tua storia abbia termine, o sia almeno arrivata al suo climax, lo schermo si libera delle sue fluttuanti presenze e sarà ancora l’urlo del motore alle tue spalle a strapparti alla tua fantasia, al tuo sogno, alla tua ancora di salvezza.

Le sale cinematografiche non sono abbastanza ariose per me, ma al cinema vado anche io.

domenica 11 maggio 2008

adesioni Ombra su Ombra

Riepilogo qui le quasi-adesioni al progetto.
Luciano Idefix ci farà sapere quale Ministro terrà sotto controllo
Giulia con L'isola sconosciuta potrebbe occuparsi dell'istruzione
Tomas terrà d'occhio Chiamparino
Il Piccolo Lord sarà l'Ombra dell'Ombra Pina Picierno
Gobettiano sottolinea l'importanza di occuparsi del problema dei media e degli organi di stampa
Amalteo ha nelle politiche sociali e sanitarie il suo campo lavorativo ma sottolinea l'importanza di seguire le Riforme Costituzionali e Federalismo fiscale
Mariateresa e marina sono interessate alle Pari Opportunità
PERLA suggerisce di formare dei gruppi (di Perla non ho il link)
Cristiana di Dicolamia si offre di occuparsi delle PR di questa iniziativa.
Duccio, Cristiana, Franca, Calamar, Dario ci fanno i loro auguri

Naturalmente queste sono solo prime attestazioni di interesse, vedremo se riusciremo a passare ad una fase di impegno vero.
Intanto per non farmi scippare il titolo Ombra su Ombra che, benché scherzoso, contiene il senso della proposta, ho aperto un blog.
Se il progetto andrà in porto ognuno degli aderenti potrà accedervi e lavorarvi.
Altrimenti lo trasformeremo in un blog di.... umori e malumori, maldicenze, imprecazioni, turpiloqui, scongiuri, pinzillacchere e chi più ne ha più ne metta...

essere naturali

XXI
Se potessi addentare la terra intera
e scoprirle un sapore,
sarei più felice un momento...
Ma io non sempre voglio essere felice.
Ogni tanto bisogna essere infelici
per poter essere naturali...
Non tutto è giorni di sole,
e la pioggia, quando manca da molto, la si invoca.
Per questo prendo la felicità e l'infelicità
naturalmente, come chi non trova strano
che esistano montagne e pianure,
che esistano rocce ed erba...
Quello che conta è essere naturale e calmo
nella felicità e nell'infelicità,
sentire come chi guarda,
pensare come chi cammina,
e quando si sta per morire ricordarsi che il giorno muore,
e che il tramonto è bello e bella è la notte che resta...
Così è e così sia...

da: Il guardiano di greggi di Pessoa