martedì 30 marzo 2010

parole da salvare/tre


Ancora qualche parola che, secondo lo Zingarelli, è da salvare.
(E qui devo aggiungere che la classificazione dello Zingarelli non mi convince del tutto. Nell'elenco delle 2800 parole da salvare, che sto amorosamente spulciando, ne compaiono alcune che mi lasciano in forte dubbio. Ad esempio spettacolare. Mi riesce difficile credere che la parola sia a rischio in questo momento storico ed in questa società).
Era fatale, direi, che morigerato fosse in pericolo. E io temo che se resisterà sarà grazie agli ipocriti. A quelli che lo usano nella più stretta accezione etimologica di persona che si conduce secondo i buoni costumi. Notoriamente i buoni costumi sono spesso invocati da benpensanti e bacchettoni. O reazionari.
Mi piace però la possibilità di usarlo per alludere a sobrietà e moderazione, merce anch'essa in via di sparizione se non già definitivamente scomparsa. Dove la moderazione non è l'attributo degli elettori di Casini ma quello di chi si prende un attimo di respiro prima di scarmigliarsi urlante di gioia o furore sul palcoscenico pubblico.
(Di queste piccole note personali faccio subito ammenda perché una parola non andrebbe difesa in quanto aderiamo al suo significato ma perché ci rende più ricchi).
Che morigerato sia a rischio di estinzione dunque non è strabiliante, né lo è il fatto che lo sia il verbo strabiliare, rimanere sbalordito per la meraviglia. Infatti sbrigativamente oggi si dice semplicemente e orribilmente wow! (Ne ignoro la grafia corretta, mi perdoni Mariateresa). A mio avviso questo wow è capace di far apparire idiota anche un premio Nobel per la fisica quantistica. Se lo sorprendessi ad esclamarlo gli leverei subito il Nobel. Ma forse se ci armiamo di ironia possiamo ancora usarlo: del resto anche l'idea che la nostra bile trabocchi per lo stupore -come sottintende il termine strabiliare- non è irresistibile?
Tornando al wow. Non lo trovate troppo plateale? Nel senso di volgare, intendo.
Beh, anche plateale rischia di andare a farsi benedire. Certo ha una sfumatura classista. Plateale è ciò che di grossolano promana dalla platea. Se la vita è una rappresentazione teatrale, come talvolta sono tentata di credere, la platea è quella che disturba col suo vocìo chi siede nei palchi riservati. Ma plateale è anche ciò che appare evidente, spesso ciò che viene reso evidente quasi con sfida, con ostentazione.
Riepilogando: Io strabilio quando incontro una persona morigerata che si segnala in mezzo alla sregolatezza plateale dei più.
In un colpo solo do una mano a salvare morigerato, strabiliare e plateale.

pensiero delle 01.04

Neanche quando s'impara attraverso il disagio mi dispiace imparare.
Imparare ripaga.

lunedì 29 marzo 2010

il non voto di Ornella

Il non voto di Ornella pesa più di diecimila voti.
La storia di Ornella e di suo figlio Niki continua a coprire di vergogna le istituzioni di San Marino e del nostro paese.
L'ultimo (per ora) atto lo leggete QUI

grandi servigi all'umanità

"Non posso biasimarmi, ho mantenuto le mie promesse e tiro avanti. Ho servito la Francia con tutto il cuore, poiché è tutto ciò che mi resta di mia madre, a parte una piccola foto da documento di identità. Scrivo anche dei libri, ho fatto carriera e mi vesto a Londra, come promesso, nonostante il mio orrore per il taglio inglese. Ho reso anche grandi servigi all'umanità. Una volta, per esempio, a Los Angeles, dove allora ero console generale di Francia, il che mi dava evidentemente certi obblighi, entrando una mattina in salotto ho trovato un uccello mosca che era capitato là con assoluta fiducia, sapendo che era in casa mia, ma che un colpo di vento, chiudendo la porta, aveva imprigionato tra le pareti per tutta la notte. Era sopra un cuscino, minuscolo e stordito, forse disperato e scoraggiato, e stava piangendo con una voce tra le più disperate che abbia mai sentito, perché non si riesce mai a sentire la propria voce. Ho aperto la finestra ed è volato via, e raramente sono stato più felice che in quel momento, e ho avuto la sensazione di non aver vissuto invano. Un'altra volta, in Africa, riuscii a dare in tempo una pedata a un cacciatore che stava mirando a una gazzella immobile in mezzo alla strada. Vi sono stati altri casi analoghi, ma non voglio aver l'aria di vantarmi troppo di ciò che ho potuto fare sulla terra. Racconto queste cose semplicemente per dimostrare che davvero ho fatto del mio meglio, come ho già detto. Non sono mai diventato cinico, né pessimista; al contrario, ho spesso momenti di grande speranza e di fiducia nel futuro."
da La promessa dell'alba di Romain Gary

Romain Gary è qui solo apparentemente iperbolico e paradossale.
Quando Nuccia ed io, lungo la strada per Bellegra, ci fermammo a soccorrere il cane ferito che si trascinava verso il bosco e, rischiando la furia del preside e la perdita dell'incarico, lo portammo in salvo dal veterinario, certo inscrivemmo nel nostro bilancio di viventi un piccolo punto in più. Rendemmo anche noi un piccolo servigio all'umanità. Alla nostra, innanzitutto.
E su queste pagine passano persone che rendono continuamente all'umanità grandi servigi!

domenica 28 marzo 2010

e se fosse?


Ieri, sabato, Roma-Inter 2-1. Gran bella soddisfazione.

Oggi si va a votare. E se questo fosse il fine settimana delle vittorie insperate e finisse Bonino-Polverini 1-0?


sabato 27 marzo 2010

supplemento al post "ingannare"


Papavero di campo , come commento al post "ingannare", mi ha mandato un haiku che mi sembra troppo bello per restarsene nascosto lì. Grazie!

carta velina
un lembo di mussola
la mia maschera





Magritte: Gli amanti
La scelta iconografica non è molto originale, lo so

giovedì 25 marzo 2010

L'Ascoltatrice


Dopo qualche tentativo presso diversi editori e avendo raccolto solo lusinghieri ma probabilmente falsi giudizi positivi ma nessuna concreta proposta di pubblicazione (tranne quelle a pagamento!), considero educativa ma conclusa la mia esperienza nel mondo dell'editoria e butto il mio libro nel web, nudo e crudo.

Il libro è frutto di una esperienza che risale al periodo febbraio-giugno 2009.
In quei mesi, quasi ogni mattina, io mi sono seduta su una panchina di Piazza Vittorio a Roma, la piazza multietnica della città, con un grande cartello giallo accanto a me.
Vi avevo scritto in pennarello viola: "Vuoi parlare con me? Scriverò il tuo ritratto o la tua storia. È gratis."
E, mattina dopo mattina, una grande quantità di uomini e donne, italiani e no, vecchi e giovani si sono seduti accanto a me e mi hanno raccontato la loro storia.
I miei strumenti di lavoro sono stati il mio cartello giallo, la penna e un blocco di appunti, oltre ad un numero telefonico attraverso il quale fissavo un appuntamento ai miei interlocutori per riconsegnargli la loro storia una volta scritta al mio computer.
Nel libro ho raccolto molte di quelle storie intervallate da sguardi sulla piazza e sulla sua storia. La piazza infatti è uno dei protagonisti del libro, che porta la sua storia antichissima scritta in faccia.
È stata una esperienza che, indipendentemente dalla sorte del libro, considero bellissima e che resta ferma nel mio cuore.
Ora il libro è ospite del sito dell'Espresso il mio libro.it a questa pagina.



di Marina Pierani
Libro NARRATIVA 132 pagine
Copertina Morbida - Formato 15x23 - bianco e nero


Ne può essere letta una anteprima, può essere comperato, commentato, votato, messo sui propri blog o siti o pagine Facebook. Insomma può essere aiutato a farsi conoscere.
Al momento ho fatto per lui tutto quello che potevo. Vedrò cos'altro inventarmi.
Ed ora qualche ringraziamento, come si usa per i libri veri.
A Mariateresa, paziente, intelligente e amorevole editor. A Simona che mi ha generosamente regalato le sue foto e il cui talento avrebbe meritato ben altro soggetto. Ma soprattutto sono grata a tutte le persone che si sono fermate a parlare con me, ognuna delle quali mi ha insegnato almeno una cosa.
Un ringraziamento particolare a Raffaele che, reincontrato casualmente, mi ha detto la frase definitiva che mi ha convinto a mettere il libro sul web.
Ma questo è un piccolo racconto a parte che rimando ad un'altra occasione.

mercoledì 24 marzo 2010

ingannare

C'è colpa nell'ingannare chi ci chiede di essere ingannato?

Nel dare agli altri il profilo che vogliono vedere di noi?

E' così sottile la parete divisoria tra il pianto e il riso che basta un clic per presentare al mondo la nostra voce più energica e, se richiesto, la più gioconda. Ma non perciò la maschera diventa realtà. Non che Marguerite Yourcenar non dicesse il vero (la maschera diventa il volto, scrisse) ma questo è vero per un costante continuo autorappresentarsi diversi da sé, non per i piccoli flash accesi sul nostro sorriso spavaldo, il tempo di un incontro o di una telefonata.

La maschera, in questo caso, è solo un crinale sottile esposto ad ogni urto fugace; un cartongesso, un compensato, un lembo di mussola, un foglio di carta velina...

Al di qua, dimoriamo: noi.

Ma abbiamo imparato l'arte di modellare il nostro viso, muscolo per muscolo, e lo offriamo al mondo come nostro personale contributo alla sua ipocrisia.

martedì 23 marzo 2010

approssimiamoci

Capita che la mia amica Simona ed io ci scontriamo -amichevolmente ma indefettibilmente- in relazione ad una mia modalità di eseguire alcuni dei compiti che mi assumo. Non azioni verso terzi, ma azioni volte a portare a compimento miei progetti o desideri. Lei trova che io sono sbrigativa e approssimativa. Il che è perfettamente vero. Io trovo che lei è eccessivamente precisa ed esigente. Ed anche questo è vero. (Ovviamente secondo me).
Quando si tratta di fare qualche cosa per favorire la pubblicazione del mio libro (questo è l' esempio più recente) io assumo un atteggiamento leggero, un po' distratto, alla "come viene, viene". Il che la irrita molto. Lei sostiene che la ragione del mio comportamento risiede nel fatto che, se la mia azione positiva nei miei stessi confronti non va a buon fine, io posso sempre consolarmi pensando di non essermi dedicata in toto alla faccenda. Serve cioè ad attutire la delusione. In questa sua lettura c'è del vero. Ma la ragione più vera ancora -direi quella autentica- consiste nel fatto che per me fare qualche cosa con leggerezza costituisce una conquista, anche piuttosto recente. In tutta la mia vita sono stata dominata dall'imperativo categorico di fare tutto al meglio. Esso resiste ancora quando si tratta di operare pro terzi. Ma ho appreso, faticosamente, a trattare con svagata leggerezza almeno le cose che faccio per me; ad accettare l'errore, l'approssimazione, la slabbratura, il pastrocchio persino! E respingo fermamente ogni tentativo di riportarmi a quel tempo, quando ogni mia esecuzione -da un piatto cucinato ad un lavoro a maglia all'intervento in assemblea al verbale condominiale, e via e via- doveva essere frutto del meglio del mio meglio, fino a sfinirmi, a logorarmi per restare comunque sempre scontenta del risultato. Perché un giudice superiore continuava a scuotere la testa. Ci ho messo anni, per far tacere quel giudice, almeno quando mi occupo dei fatti miei! E non ho alcuna intenzione di tornare a dargli spazio nella mia vita.
È una questione di misura, naturalmente. Ed è anche possibile che io sia passata direttamente dalla ossessiva ricerca dell'optimum alla sciatteria. Ma sciatti si vive meglio, Simò!
Comunque: ho corretto.

Alda Merini, poetessa e madre

Gli amici di @phorism (che ringrazio) mi segnalano che le figlie di Alda Merini, Emanuela, Barbara, Flavia e Simona hanno dedicato un sito alla loro mamma, recentemente scomparsa. Un sito un po' particolare.
Lo presentano così: "Vogliamo raccontarvi la sua storia, non la storia della famosa poetessa che voi tutti già conoscerete ma la storia di una madre, una madre un po' particolare..."

Io credo che questo gesto d'amore delle figlie sia anche un gesto generoso verso tutti noi che amiamo la poetessa e la donna.

Il sito possiamo raggiungerlo QUI

La sua biografia sul sito si apre con questa poesia, che già a suo tempo ospitai, ma che ri-ospito qui.

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la
sera.
Forse è la sua preghiera
.

lunedì 22 marzo 2010

Marcel Mauss, Bernardo Soares ed io

Da moltissimo tempo ho scoperto che non mi piace ricevere doni e, con poche eccezioni, non mi piace farne. "Nella mia anima ignobile e profonda" sono una bestia, lo so, e forse sono cattiva proprio come ha sempre sostenuto mia madre.
(Per inciso: quando iniziai lo studio del latino, alle medie, e scoprii il significato di captiva, prigioniera, detti un balzo: oddio, ma allora è vero che sono cattiva! Mia madre, senza sapere in che senso -o forse sapendolo perfettamente bene- aveva ragione).
Ma, tornando al tema, il fatto è che non mi sono mai servite le ricerche antropologiche né quelle sociologiche o psicoanalitiche per capire che il dono spontaneo, che cioè non risponde ad una richiesta del donando, è un laccio con cui qualcuno vuole stringerci a sé. Contiene certo amicizia e affetto ma anche una richiesta di affetto e amicizia. Questo nella migliore delle ipotesi. Perché spesso la richiesta di amicizia e affetto nasconde una pretesa di amicizia e affetto. Al di là delle intenzioni esplicitate a noi stessi, il dono contiene spesso il nostro desiderio di porre un vincolo sul capo di colui cui facciamo il dono.
Io vorrei restare libera e lasciare liberi gli altri.
Forse tra le ragioni per cui odio con tutte le mie forze il Natale c'è proprio questo lancio di lacci sopra la mia testa. (È rarissimo che io cada nel tranello del fare doni "spontanei"e di chiedere affetto tramite loro, anche se ricorro ad altri ingenui trucchi. Mai, comunque, cado in quello di pretenderlo. Del resto, mi considero troppo ignobile per questo).

Ho scoperto, rileggendo dopo una decina di anni "Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares" di Pessoa, che tra Bernardo Soares e la me di questi anni ci sono un numero preoccupante di pensieri in comune, di idiosincrasie, di predilezioni, di modi di sentire, di tic dell'anima. Non ne avevo memoria (ma mi capiterà di ritornarci). Questo non mi solleva di colpo al livello di Soares, né di conseguenza di Pessoa, ma testimonia del semplice fatto che uno scrittore parla per tutti noi o, per meglio dire, che ci conosce tutti o, ancor meglio, che ogni scrittore conosce qualche cosa di noi.
Sul dono, Soares ed io la pensiamo allo stesso modo. "Non mi piace che mi vengano fatti doni: in tal modo mi sento obbligato a fare doni anch'io, alle stesse persone o ad altre, o a chicchessia". Dove il nucleo del pensiero non è il fare doni, ma il sentirsi obbligato.

Inoltre per capire che Marcel Mauss (Saggio sul dono) centrò il bersaglio- quando spiegò come il dono spontaneo testimoni una grande apertura ma costituisca una richiesta- mi basta ricordare la giovinetta tuareg che si tolse l'anello di stagno dal dito e me lo porse guardando con insistenza il ciondolo in argento che portavo al collo e costringendomi a fargliene dono. O la donna afghana che toccò più volte i miei orecchini e poi mi dette il braccialetto che portava al polso. Se vi state chiedendo se le detti i miei orecchini: no, non glieli detti e non presi il braccialetto.
Probabilmente ho minato il suo sforzo di "creare una società più larga ed amichevole" (lo scopo sociale del dono, sempre secondo Marcel Mauss) ma ho salvato i miei orecchini favoriti, dono, richiesto, di mio marito.
Sì, sono cinica.
Ed ora condannatemi pure.

P.S. Se vi state chiedendo come mi pongo di fronte al gesto di donare, venerdì prossimo, un libro ad uno sconosciuto, è presto detto: lo sconosciuto spalancherà la bocca per la sorpresa, si dirà che sono un po' matta e riprenderà, libero, la sua strada.

domenica 21 marzo 2010

migranti


Per ricordare insieme la giornata mondiale della poesia e quella della lotta alla discriminazione razziale ho scelto The Migrants di Derek Walcott, premio Nobel per la letteratura nel 1992.

THE MIGRANTS

The ridal motion of refugees, not the flight of wild geese,
the faces in freight-cars , haggard and coal-eyed,
particularly the peaked srare of children,
the huge bundles crossings bridges,axles creaking
as if joints and bones were audible, the dark stain
spreading on maps whose shapes dissolve their frontiers
the way that corpses melt in a lime-pit,or
the bright mulch of autumn is trampled into mud
and the smoke of a cypress signals Sachenhausen,
those without trains, without mules or horses,
those who have the rocking-chair and the sewing machine
heaped on a human cart, a waggon without horses
for horses have long since galopped out of their field
back to the mithology of mercy, back to the cone
of the orange steeple piercing clouds over the lindens
and the stone bells of Sunday over the cobbles,
those who rest their hands on the sides of carts
as if their were the flanks of mules, and the women
with flirt faces, with glazed cheekbones , with eyes
the colour of duck -ponds glazed over with ice,
for whom the year has only one season,one sky:
that of rooks flapping like torn umbrellas,
all have been reduced into a common language,
the homeless,the province-less,to the incredible memory
of apples and clean streams,and the sound of milk
filling the summer churns, where are you from,
what was your districts,I know that lake, I know the beer
and its inns,I believed in its mountains,
now there is a monstrous map that is called Nowhere
and that is where we 're all headed,behind it
there is a view called the Province of Mercy,
where the only government is that of apples
and the only army the wide banners of barley,
and its farms are simple,and that is the vision
that narrows is the irises of dying
and the rired whom we leave in ditches
before they stiffen and their brows go cold
as the stones that have broken our shoes,
as the clouds that grow ashen so quickly after dawn
over palm and poplar,in the deceitful sunrise
of this,your new century.(Santa Lucia dei Caraibi, 16 giugno 2000).


La traduzione che segue è di Luigi Sampietro. Luigi Sampietro è critico letterario e traduttore. Severo ma eccelso in entrambi i ruoli. È animatore della rivista Caribana- A review of the caribbean literatures. Io lo leggo sempre con grande piacere sulle pagine culturali de il Sole 24 Ore. Spero non si infuri per questo furto.


Migranti

L'onda della marea dei rifugiati, non un semplice passo di oche

selvatiche, gli occhi di carbone nei vagoni merci, le facce

smunte, e in particolare lo sguardo fisso dei bambini

emaciati, gli enormi fardelli che traversano i ponti, gli assali

che cricchiano con un suono di giunture e di ossa, la macchia scura

che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme,

come succede ai corpi dei morti dentro le fosse di calce, o come

fa il pacciamo luccicante che si disfa sotto i piedi in autunno

nel fango, mentre il fumo di un cipresso segnala Sachsenhausen,

e quelli che non stanno sopra il treno, che non hanno muli o cavalli,

quelli che hanno messo la sedia a dondolo

e la macchina per cucire

sul carretto a mano

perché da tempo le bestie

hanno lasciato i loro campi al galoppo

per tornare alla mitologia del perdono,

alle campane di pietra sui ciottoli della domenica e al cono

della guglia del campanile aranciato che buca le nubi sopra i tigli,

quelli che appoggiano la mano stanca sulla sponda del carro

come sul fianco del mulo, le donne con la faccia di selce

e gli zigomi di vetro, con gli occhi velati di ghiaccio

che hanno il colore degli stagni dove posano le anitre,

e per le quali c'è un solo cielo e una sola stagione

nel corso di un anno

ed è quando il corvo come un ombrello rotto sbatte le ali,

si sono tutti ridotti alla comune e incredibile lingua

della memoria, e questa gente che non ha una casa e nemmeno

una provincia, parla delle fonti limpide e parla delle mele,

e del suono del latte l'estate dentro le zangole piene,

e tu da dove vieni, da quale regione, io conosco

quel lago e anche le locande, la birra che si beve,

e quelle sono le montagne dove riponevo la mia fede,

ma adesso sulla carta, che è simile a un mostro, altro non si vede

che una rotta che ci porta verso il Nulla, anche se sul retro

c'è la veduta di un posto che si chiama la Valle del Perdono,

dove il solo governo è quello dell'albero di pomi e le forze

schierate dell'esercito sono gli striscioni di orzo

all'interno di umili tenute, e questa è la visione

che a poco a poco si restringe dentro le pupille

di chi muore e di chi si abbandona in un fosso,

rigido e con la fronte che diventa fredda e grigia come le nuvole

che, quando il sole si leva, si trasformano subito in cenere

sotto i pioppi e sopra le palme, nell'ingannevole aurora

di questo nuovo secolo che è il vostro.




sabato 20 marzo 2010

la volpe della Muraro

"Fino a ieri dicevo: la parità fra i sessi è un miraggio. Adesso comincio a pensare che sia una farsa.
Bisogna credere e far credere che, se le donne non occupano gli stessi posti degli uomini, non hanno le stesse cariche, non scelgono gli stessi mestieri, non mirano agli stessi traguardi, questa sarebbe la prova provata di una discriminazione ai danni delle donne. Dirsi semplicemente che le donne, forse, non vogliono perché, forse, hanno altre priorità, è un' ipotesi così azzardata che nessuna politica di professione osa formularla. Qualche sociologa sì, ma cautamente. Perciò, con la più grande serietà del mondo, si pubblicano statistiche da cui risulta che, quanto a condizione femminile, l' Italia è più arretrata del Vietnam e del Ruanda. Ma perché una simile farsa? La risposta che mi si presenta è semplicemente questa: bisogna continuare a far finta che le donne siano inferiori agli uomini. Non più per natura, come si diceva una volta, ma per discriminazione. È tempo di smetterla con questa commedia pseudofemminista. Cominceremmo così a guadagnare tempo per affrontare i problemi reali che si pongono. Uno è quello dell' attaccamento maschile al potere."

L'articolo -chi parla è la filosofa Muraro- continua riprendendo in più forme questo concetto generale.

"Per finirla, bisogna sgombrare il campo dai discorsi della parità per fare posto a un franco riconoscimento dell' eccellenza femminile. Dico eccellenza, non superiorità, e penso specialmente al rapporto con il potere e con i soldi, che sono il suo mezzo principale. La maggioranza di noi non li mette davanti alle relazioni, agli affetti e all' amore. Anche qui, non mi pronuncio sulla natura di questa eccellenza, la constato. E la dichiaro, come ho detto, perché finisca una finzione, quella delle donne sempre vittime d' ingiustizia e sempre in cerca di parità con gli uomini, finzione di cui è diventato evidente che fa da alibi. A che cosa e a chi, oggi? La risposta a questa domanda è lunga e io mi limito ai sommi capi. C' è un bisogno identitario maschile di superiorità, non più confessabile ma tenace. C' è, per le donne, la rendita del vittimismo."

La Muraro auspica un cambiamento nell'autopercezione delle donne e nella loro valutazione da parte della società: da vittime di discriminazione a soggetti eccellenti.

"Un criterio per questo cambiamento è che vita pubblica e vita politica siano praticabili con agio da donne e non esigano che mettiamo al secondo posto le nostre priorità."

Non so, la Muraro è una filosofa che al pensiero della donna ha dato molto e per la quale io nutro molto rispetto, ma in questa sua nuova posizione qualche cosa non mi torna.

Mi sembra che riconosca che alle donne si chiede, per stare nella vita pubblica e politica a parità di autorevolezza, di mettere al secondo posto le proprie specifiche priorità -e questo in una società in cui non si riconosce autorevolezza a chi non ha anche potere-. Detto diversamente le si pongono ostacoli e pre-condizioni perché acceda ai luoghi del potere. Nessuna pre-condizione per l'uomo invece. Si può chiamarla disuguaglianza, si può ancora chiamarla discriminazione?

O dobbiamo consolarci con la favola della volpe che dall'alto della sua eccellenza dichiara l'uva acerba?
Non sono io volpe-donna che non arrivo all'uva (perché tu vuoi che io mi arrampichi con i miei piccoli attaccati al seno e mentre premastico il cibo per loro e per te) ma sei tu volpe-uomo che hai sbagliato a mettere la vigna in un posto così in alto per me.
Ed ora? Se anche ci diciamo questo (come del resto ci è chiaro da tempo) che cosa cambia?
Cambia che questo è un problema dell'uomo, non nostro, dice la Muraro.

"Se (l'attaccamento maschile al potere) fosse un vizio morale, potremmo cercare i modi di correggerlo, così come si è corretta l' avarizia o la gola. Ma l' attaccamento maschile al potere è una questione d' identità. Lo veicolano i modelli correnti della virilità."

Bene: dove sono queste masse maschili che si interrogano sul loro modello di virilità e sul nodo (tutto loro) tra potere e identità? chiedo io.
E mi risponde la Muraro.

"Oggi vi sono uomini che promuovono una presa di coscienza della differenza maschile non più complice dei modelli patriarcali di virilità. Ne parla un libro uscito da poco, Essere maschi. Tra potere e libertà di Stefano Ciccone (Rosenberg e Sellier, 2009."

Inutile dire che lo leggerò.

venerdì 19 marzo 2010

segnalazione/giornata mondiale della poesia


Domenica 21 marzo sarà la Giornata mondiale della poesia, istituita dall'Unesco nel 1999.
In quel giorno tutta la programmazione di radio 3 verrà contaminata (cont-animata) dalla poesia. Le trasmissioni verranno condotte da poeti in carne ossa e voce o costellate di letture poetiche.
Fa piacere poter segnalare qualche cosa di buono.

Il 21 marzo è anche la Giornata internazionale contro la discriminazione razziale, fissata dalle Nazioni Unite in questa data per ricordare il massacro di Sharpeville, quando furono uccisi 69 dimostranti contro l'apartheid.




giovedì 18 marzo 2010

la voce di Joy

Il CIE (Centro di Identificazione e Espulsione) di Ponte Galeria-Roma


Joy è la ragazza nigeriana che nel luglio del 2009 dichiarò che un ispettore di polizia aveva tentato di stuprarla mentre si trovava rinchiusa nel CIE di via Corelli a Milano. La sua compagna di stanza, Hellen, la aiutò a respingere l'uomo. Ad agosto nel CIE scoppiò una rivolta di tutti i detenuti contro le disumane condizioni di vita. Sono stati arrestati nove uomini e cinque donne tra cui Joy ed Hellen. Dopo sei mesi di carcere Joy è stata trasferita al CIE di Roma, Ponte Galeria. Joy ha presentato regolare denuncia per tentato stupro e interrogata ha riconosciuto il poliziotto. Ma è stata accusata di calunnia e, dopo sei mesi di carcere, vogliono rimpatriarla.
In queste ore attivisti stanno manifestando di fronte all'ambasciata nigeriana perché l'espulsione di Joy, che attende giustizia dalla legge italiana, venga fermata.

Su Radio-cane Joy racconta la sua storia

Visible Différence


Per la prima volta dopo due anni dalla morte di mia madre metto mano ai libri presi nella casa dei miei genitori. Li ho divisi con le sorelle in modo casuale. Molti appartengono alla famosa collana la Medusa di Mondadori e tra questi trovo molti autori italiani: Chiara, Pratolini, Giorgio Saviane,Tomizza, Tobino, Berto. Scelgo un libro di Tobino che non conoscevo: La brace dei Biassoli. Nella scelta influisce il mio amore per Tobino ma anche quella parola "brace" e il quadro raffigurato sulla copertina. È La gare St. Lazàre di Manet, quadro famosissimo.Victorine Meurent, modella e pittrice lei stessa, è seduta contro la cancellata della stazione, ha un minuscolo cagnolino addormentato in grembo; indossa un abito blu chiuso da bottoni chiari e sulla massa di capelli rossi che si sciolgono sulle spalle porta un alto cappello ornato di fiori. Alza lo sguardo dal libro che tiene aperto tra le mani e ci guarda dritto negli occhi proprio come ci guarda in quell'altro quadro famosissimo, mentre è tutta nuda sulla dormeuse di Olympia. Chissà perché è stato scelto proprio questo quadro per accompagnare il libro. E chissà se questo apparteneva a mia madre o a mio padre. Stranamente sulla prima pagina non c'è nessuna scritta. Manca la Al slanciata e definitiva di mio padre e la L scolpita di mia madre con cui quei due segnavano i propri territori libreschi come ogni altro territorio. Ma è il libro stesso a dirmi che apparteneva a mia madre: si apre spontaneamente alla pagina 101 per effetto di un segnalibro corposo. È un foglietto rosa stretto e lungo piegato più volte ad organetto, uno di quei foglietti esplicativi che accompagnano i prodotti di bellezza. Elizabeth Arden-Visible Différence, c'è scritto. E io rivedo il vasetto bianco sul comò di mia madre. E rivedo lei mentre prende la crema rosata sulla punta delle dita e la stende attenta e veloce sul viso. Poi si accosta allo specchio e si guarda, seria e compiaciuta. Ne aveva motivo, mia madre.
Mia madre era una donna molto bella che ha dimenticato di fare bella anche me, ma, cosa molto più grave, ha dimenticato di godersi la sua bellezza. Semplicemente non poteva accettare che la bellezza che si accompagna al corpo è buttata via se il corpo non ne riceve gioia. Qualcuno le aveva fatto credere che la bellezza forse un'arma da rivolgere contro le altre donne e non un dono che la vita le aveva fatto perché lei ne ricavasse piacere. Quando è morta aveva novantuno anni ed era ancora bella. Mi capita di pensare che, forse, se avesse dedicato quella bellezza a qualche amante sarebbe stata una madre diversa. Chissà.
La pagina dove sembra essersi arrestata la lettura di mia madre inizia così: "Mia madre aveva deciso di ritirarsi a Vezzano; ormai aveva tutti i capelli bianchi". Forse mia madre ha interrotto qui la sua lettura perché distolta da una delle mille attività su cui dispiegava le sue inesauribili energie o forse quelle due righe iniziali le sono spiaciute. Il libro è del 1977. Allora mia madre aveva 63 anni ma capelli bianchi il nero assoluto della sua testa altera non ne ospitava. E la parola ritirarsi non faceva parte del suo vocabolario.
Dispiego il foglietto rosa, minutamente scritto in quattro lingue. Vi si illustra l'effetto penetrante della crema, che "idrata e rivitalizza, protegge e ammorbidisce la pelle". E penso alla pelle di mia madre. Quella dei suoi ultimi anni, fragile, trasparente, leggera come carta velina. E quella liscia e luminosa che l'ha irradiata in tutti i giorni della sua vita. Penso al contatto con la sua fronte fredda e irrigidita mentre riposava composta nel suo letto di morte e a quello bruciante della sua mano nello schiaffo. La pelle di una madre è molte cose, mi dico.
Rimetto il foglietto al suo posto e resto incerta, sospesa tra due pensieri: iniziare regolarmente il libro dalla prima pagina o proseguire la lettura da dove mia madre l'ha interrotta. Qualche cosa nelle pagine già lette da mia madre mi impaurisce. Eppure, che cosa posso trovarvi? Mia madre non usava sottolineare i libri e gli sguardi non lasciano segni. Ma ugualmente l'idea di leggere il libro attraverso gli occhi di mia madre per qualche ragione non mi va, come mai mi è piaciuto ripercorrere la sua via. Anche se poi in fondo è proprio quello che ho fatto. Ci sono battaglie che combattiamo fin da giovani e per tutta la vita e per vincere le quali solo in età avanzata troviamo la forza. Quando ormai le battaglie sono perse.
Allontano malinconie e pensieri e comincio a leggere da quella frase: "Mia madre aveva deciso di ritirarsi a Vezzano; ormai aveva tutti i capelli bianchi" senza più interrompermi fino al termine del libro. Sono in tutto una cinquantina di pagine in cui Tobino racconta le ultime due settimane di vita di sua madre, ritiratasi a morire nella casa della sua infanzia, tra i ritratti dei Biassoli, la sua famiglia di origine, la più importante e rispettata del paese.Tobino passa le notti su un letto accanto a quello della madre, di giorno vi si accomoda per parlare con lei, poi si alza e guarda la Magra che "si spiega dai plumbei monti"; i suoi pensieri per la madre sono accompagnati dal murmure del faticoso respiro di lei ma anche dalle voci di quei personaggi favolosi, di cui si intuiscono l'orgoglio, la dissennatezza, l'eccentricità e "le virtù feroci." Ma a quei Biassoli la madre appartiene fino in fondo, ad essi si è ricollegata nella scelta di morire in quella casa, in quella stanza che era stata la sua di fanciulla e che aveva lasciato il giorno delle nozze. E i Biassoli muoiono con lei, l'ultima vivente di quella famiglia, decaduta per l'errore fatale e disonorevole di un fratello, Alfeo, scomparso giovanissimo. I suoi morti rivivono nei pensieri e nelle parole della donna che soffre di sapere "che con lei i Biassoli definitivamente sarebbero finiti, con la sua morte qualcosa in lei, dentro di lei invincibile, si sarebbe incenerito, le immagini di tutti i suoi, che così violente vivevano nella sua morte, non sarebbero più state."
È questo dunque il senso di quella parola "brace" che mi ha portata a questo libro, penso. La brace dei ricordi che sfumano, dei nomi che non tornano più a mente, delle curiosità cui nessuno potrà più dare risposta, dei volti che nelle vecchie foto scolorano o diventano anonimi. Tutte le famiglie hanno le loro braci, che si raffreddano nei camini del tempo e della dimenticanza. Non ho un senso così forte della famiglia, della schiatta, dell'appartenenza da poter davvero sentire l'altra perdita che fa soffrire la madre di Tobino- la fine del nome di famiglia che cessa con lei- ma conosco invece la tenerezza addolorata per lo sbiadire delle esistenze che furono, per le vite che cadono di dosso ai corpi quando questi si sbriciolano nella morte, per l'onda della dimenticanza che copre la fatica di vivere di ognuno di noi. Chi prima chi poi, ognuno destinato ad appiattirsi nel mormorio sempre più flebile dei secoli. È la perdita dei pensieri, dei sentimenti, delle speranze, dei dolori, la perdita delle individualità riassorbite in un tutto indistinto che non so scrivere con la maiuscola. Altri lo cantino. Io appartengo piuttosto a coloro che lo accettano come accettano tutte le leggi fisiche ma che gli oppongono la necessità del tener traccia e di trasmetterla; per prolungare, forse solo di una generazione, il ricordo di coloro che con il sangue ci hanno dato la vita e con essa le piccole idiosincrasie o le patologie dolorose, i talenti e le caratterialità, hanno cioè formato parti di noi, quelle parti su cui noi stessi abbiamo poi lavorato, nell'incrocio degli eventi e degli incontri della nostra vita, per trovare il nostro profilo più vero, la nostra voce più autentica. Per riconoscerci individui nuovi ma allacciati a quei rami antichi.
Il libro ha una fine insospettata che capovolge la perdita in ritrovamento, ma non ve la racconterò, nel caso voleste leggerlo. Lo finisco rapidamente ma non lo poso. Lo sfoglio ancora. Quel fogliettino rosa che torno a guardare, assume ora per me un nuovo significato.Visible Différence, Differenza Visibile. Penso alle differenze tra me e mia madre, alla costante incompatibilità che così tanto l'offendeva, affronto imperdonabile, meritevole di disamore. Penso anche ai suoi gesti che talvolta riaffiorano in me, a quanto mi indispettiva una volta scoprire queste sue tracce in me. Ma non si fruga nelle braci per scegliere e scartare, si raccolgono tutte, non è possibile fare diversamente. Perché sono particelle minute, inestricabili l'una dall'altra. Sì, la radicalità della nostra differenza era visibile, mia madre ed io lo sapevamo entrambe. Lei deve averla riconosciuta subito in me. Io l'ho sentita da piccolissima. E non era riconciliabile. Per questo intorno a noi, quasi spaventati dalla nostra spinta repulsiva, tutti si affrettavano sempre a sottolineare le piccole somiglianze, a enfatizzarle, a metterle in primo piano. Dovevano occultare la Visible Différence, sfumarla, impedirle di deflagrare. Oggi dei tratti che mi accomunano a mia madre sorrido: alcuni sono piacevoli, mi fanno contenta, altri, che avrei preferito non avere, li sento ormai miei, integrati nella mia individualità e non li combatto più. Perché so di aver salvato quella Visible Différence che pure tanta sofferenza mi ha procurato. E quando le sue conseguenze si fanno ancora sentire -a così tanta distanza di tempo!- riesco lo stesso e ancora a sentirmene contenta, perché la bambina testarda e tenace che sono stata ha sempre voluto conservarla e, anche se fin quasi a soccombere, è riuscita a difenderla. Non sono tanto i fatti, una loro vistosa discontinuità, che ci allontanano da un modello che la nostra intima natura rifiuta, ma la conservazione del nucleo più profondo della nostra sostanza umana. Se non ho saputo radicalmente fare altra la mia vita rispetto a quella di mia madre, pure non ho mai aderito intimamente al suo ordine. È la continuità con il nostro io più profondo, la fedeltà alla sua voce più autentica che vanno salvaguardate. La Visible Différence. E questa non è andata persa. Io posso ritrovare ad ogni momento in me quella voce di bambina che diceva io sentendosi altra, sentendosi se stessa, assaporando la dolorosa ma inebriante visibile differenza.
Questo pensiero scaccia via la sciocca paura di leggere da capo il libro, lo sguardo sullo sguardo di mia madre. Leggere da qui non significherà rimodellarsi su un pensiero che non è mio, -era questa la paura inconscia- come se l'imperativo antico ancora potesse risuonare dentro di me e costringermi alla vecchia battaglia. Riprendo dunque il libro dall'inizio. Mi resta ancora da scoprire perché La gare Saint Lazare sia stato scelto per la prima di copertina. Osservo ancora il quadro. La donna e la bambina sono una madre e una figlia, questo è chiaro. Quella madre che legge è la mia? E alza lo sguardo dopo avere arrestato la lettura alla pagina 101? E io sono la bambina ritratta di spalle nell'abito con la gonna a corolla simile a quelli che mia madre mi confezionava, ricamandoli a punto smock? La bambina che stringe le sbarre della cancellata e guarda verso il vapore bianco che si alza dalla stazione? Le stazioni, luogo privilegiato per i sogni di altrove di me bambina. E le sbarre, tra me e quei sogni.

Ma non si può spingere a tanto l'arbitrarietà della lettura di un quadro. Così apro il libro alla prima frase: "La chiesa di Vezzano vide mia madre bambina, in essa si sposò, la vide morta la mattina di tiepido sole del 4 ottobre 1947."
Mi fermerò alla pagina 101, decido, dove si è fermata mia madre e su quel punto di confine rimetto il segnalibro, la Visible Différence.

mercoledì 17 marzo 2010

segnalazione MTVNEWS

Voglio segnalare MTV NEWS che va in onda tutti i giorni nei seguenti orari:
Dal lunedì al venerdì: 13.00, 14:00, 15:00, 19:00, 20:00 Sabato e Domenica: 16.00, 17.00, 18.00, 19:00, 21:00

MTV NEWS è un telegiornale diverso da tutti gli altri, perché dà la parola ai giovani, senza commenti o giudizi.
Sono loro a raccontarsi direttamente e ne escono realtà mai incontrate sui teleschermi o che, quando vengono raccontate, sono appesantite da discorsi sociologici e/o psicologici. Qui invece la realtà è in presa diretta, parla da sé e di sé.
Io non me lo perdo mai. Buttateci un occhio.


guardare dove si mettono i piedi

Berlino- Bebelplatz. Una lastra di vetro protegge una stanza interrata, le pareti coperte di scaffali vuoti. È una biblioteca ma i libri non ci sono. Dove sono finiti i libri? In fumo. Al rogo.
La lastra, opera dello scultore israeliano Micha Ullman, sorge lì dove nel maggio del 1933 avvenne il grande rogo in cui i nazisti bruciarono oltre 25.000 libri ritenuti pericolosi.
La lastra è luminosa di notte e di giorno riflette il cielo.
Credo che quel vetro ci dica anche quanto sia fragile il confine tra la barbarie e la civiltà.







Io sapevo della targa sulla piazza con la famosa citazione di Heinrich Heine: « Quando i libri vengono bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone » ma non avevo mai visto la stanza sotterranea. L'ho scoperta da poco e ci tengo a mostrarla.

Noi umani abbiamo continuamente bisogno di richiami per la nostra memoria, per questo innalziamo monumenti. In genere ai monumenti si alza lo sguardo. Qui invece lo sguardo si abbassa. Potremmo dire che si deve guardare dove si mettono i piedi.

Proprio come le pietre di inciampo, le stolpersteine dell'artista tedesco Gunter Demnig.
Da decenni le va installando sui marciapiede di fronte alle casa di uno o più deportati. Sono sanpietrini classici che si distinguono solo perché la loro superficie superiore è di ottone e porta inciso nome e cognome del deportato, anno di nascita, data e luogo di deportazione.
Il 28 gennaio scorso, giorno della memoria, ne ha installate trenta a Roma, in diversi punti della città da cui furono prelevati deportati.
Alcune di queste, solo un mese dopo, erano già state imbrattate di vernice nera da ignoti di cui si sa tutto.
La storia insegna?

martedì 16 marzo 2010

confessione

Attraverso un' associazione ricevo costantemente notizie da Gaza. Sono notizie terribili sulle condizioni di quella popolazione. Notizie da un lager.

Intanto Netanyauh conferma la costruzione di 1600 nuovi alloggi in Gerusalemme Est.
Questo mentre il Governo Israeliano continua a dire di aspirare alla pace.

L'orizzonte è sempre più fosco per quella terra.
Da tempo io mi sono fatta la convinzione che la vera linea di demarcazione attraversa i due schieramenti. Da una parte ci sono coloro che hanno compreso che esiste un futuro pacificato anche se difficile solo attraverso un accordo e questi sono sia Palestinesi che Israeliani. E dall'altra coloro che questo futuro non lo vogliono, preferendo una guerra continua. E questi sono sia Palestinesi che Israeliani.

Io provo continuamente la tentazione di voltare la faccia via da quella parte di mondo. E debbo sforzarmi per continuare a seguirne le vicende. Confesso di farlo nella rabbia ma anche nello scoramento.
E lo sforzo che compio per non lasciarmi andare ai miei sentimenti immediati conservando capacità di esame razionale mi affatica sempre più.
Seguo il blog Gaza-Sderot tenuto da due amici, un israeliano di Sderot (Israele al confine con Gaza) che si firma Hopeman e un palestinese di Sajaia, campo di rifugiati di Gaza, che si firma Peaceman.
È dal loro dialogo mai interrotto, nonostante la difficilissima situazione, che trovo la spinta per non girarmi dall'altra parte.

lunedì 15 marzo 2010

astenersi missionari

Ci sono, ahimé se ci sono, quelli che si sentono investiti da una missione e si danno ad evangelizzare gli altri. I vangeli che portano in giro sono i più vari.
Vanno dalle loro scoperte alle loro passioni, dalle regole della loro vita ai loro hobby, dalla loro fede in un dio o in una pratica terapeutica alla loro fede nel Cillit Bang come insuperabile sbiancante.
Non parlo di quelli che si limitano a segnalarti il fatto che la ginnastica posturale ha risolto un loro problema di sciatalgia, o che ti informano che camminare per un'ora al giorno rende il loro umore più vivace e i loro glutei più sodi. Non alludo neanche a quelli che ti fanno sapere che la terapia analitica ha cambiato la loro vita e resta la loro guida di riferimento; né ce l'ho con quanti dichiarano che il sugo loro lo fanno solo con i pomodori freschi. Chi di noi non fa affermazioni del genere? Tutti testimoniamo, soddisfatti di aver trovato la nostra personale soluzione a qualche problema o una nostra chiave di lettura del mondo, della vita, dei nostri simili. Ma questo non fa di tutti noi degli evangelisti. Dei missionari.
Gli evangelisti, i missionari sono fatti di altra pasta.
Questi non nascondono che il loro intento è convincerti ad adottare il loro metodo, la loro scoperta, la loro ricetta. A far tua la loro convinzione, a iscriverti alla loro confraternita, a giurare il loro stesso giuramento.
Di una persona/personaggio così Joyce Carol Oates -piccolo inchino reverente - ha scritto che "la sua tendenza ad elevare ogni sua nuova passione al rango di principio morale valido per la specie, di legge universale, risultava a volte leggermente irritante."
Io sono siuramente molto più irritabile dei personaggi oatesiani, perché gli evangelisti di ogni vangelo, i missionari di ogni missione mi stanno scomodamente sullo stomaco. Altro che leggermente irritanti!
Per una persona come me, che crede cioè solo nell'esempio e nella testimonianza, l'impegno convincitorio (sul dizionario questo lemma non lo troverete ma vi garantisco che ho il perfetto diritto di usarlo; l'ho regolarmente formato utilizzando le regole di formazione lessicale della nostra lingua, servendomi cioè del lessema-suffisso torio, sulla scia di accusatorio, assolutorio, consolatorio, ecc. ) l'impegno convincitorio di queste persone, dicevo, risulta molto fastidioso.
Io m' infastidisco persino se il missionario di turno diffonde intorno a sé un verbo nel quale anch'io credo! A me piacerebbe che tutti noi offrissimo la nostra esperienza e le convinzioni che ce ne sono derivate, come una padrona di casa generosa ma discreta offre un vassoio di antipasti. Indicandolo ai suoi ospiti e lasciandolo lì, a disposizione di chi vuole approfittarne. (Come assillano invece quei: "senti quanto sono buoni!" quei "prendine un altro!" quei " devi assolutamente assaggiarli!"). Ma l'esuberanza offertoria (Non vi agitate è tutto in regola, è lo stesso lessema suffisso di prima, ma al femminile) in caso di antipasti è un peccato veniale, lo ammetterete; testimonia voglia di far felici i propri ospiti, di mostrar loro che si sono scelte per accoglierli le pietanze che si considerano migliori, che li si ospita volentieri e con calore. Una padrona di casa di tal fatta è magari solo ansiosa e io non manco mai di accondiscendere alla sua sollecitudine per farla felice. (Caso mai, sputo nascostamente). Preferisco però la padrona di casa che mi mette a disposizione il suo buffet o la sua tavola e mi dice: "Prendi quello che vuoi, liberamente. E se non hai appetito o non ti piace lascia pure lì".
Mi piace molto quando le persone mi raccontano attraverso quali vie hanno raggiunto le loro piccole serenità, tolto la macchia di caffè dalla seta, accettato un proprio limite, restituito elasticità ai propri addominali, o fatto pace con l'ombra della madre, ma li trovo letteralmente insopportabili se fanno della loro chiave interpretativa dell'esistente la chiave interpretativa dell'esistente di ognuno di noi e della loro dieta alimentare la dieta alimentare valida urbi et orbi.
Ma, lasciando la tavola alimentare e venendo al banchetto della vita, ai principî, alle fedi, alle convinzioni, alle regole che i miei simili si sono formati lungo le loro vite, vorrei che le persone mi mostrassero come risolvono i loro problemi, piuttosto che dirmi come dovrei io risolvere i miei. Accetto volentieri testimonianze, anzi ne ho una vera fame, respingo senza appello ricette e ricettari.

En passant: uno degli aspetti che meno sopporto delle religioni e della cattolica in particolare è l'idea di voler convertire gli altri.
Ma specifico anche che ho il massimo rispetto per i veri missionari che, in giro per il mondo, mettono la loro vita al servizio dei derelitti.
Certo se non volessero anche convertirli alla loro fede sarebbe meglio, ma non si può avere tutto...

domenica 14 marzo 2010

San pi greco

Non sapevo che il pi greco avesse il suo giorno dei festeggiamenti. L'ho scoperto proprio ora sulla home page di Google. Ma la cosa mi piace. Devo dire che fin dai tempi della scuola quel numeretto elegante e versatile mi ha sempre affascinata.
Mi sembrava una specie di grimaldello per le situazioni difficili, quelle da mani nei capelli.
Ed erano rassicuranti le parole che avevano a che fare con lui. Il pi greco è un rapporto (bello!) una costante (bellissimo!). E ci si fanno un sacco di cose. Cosa c'era di più tranquillizzante e risolutivo? Così, quando tra compagne eravamo alle prese con qualche faccenda che ci sembrava insormontabile -non solo matematica, non solo scolastica-di fronte alla domanda: e allora che facciamo? - io proponevo trionfante: Moltiplichiamo per 3 e 14! La faccenda veniva così definitivamente archiviata da una risata e si passava ad altro.
Avevo dimenticato San pi greco e il suo potere. Oggi gli rendo omaggio. E retrospettivamente mi dico che se alcune ciambelle della mia vita non hanno buco, è colpa mia: avrei dovuto moltiplicare per pi greco!

sabato 13 marzo 2010

appuntamento a Piazza del Popolo: presente!





dare a Doroty quel che è di Doroty

Ripubblico, per Ipazia una poesia di Doroty Parker
da: Doroty Parker - Tanto vale vivere-racconti e poesie-La Tartaruga- 1983
traduzione di Marisa Caramella

I know I have been happiest

I know I have been happiest at your side;
But what is done, is done, and all's to be.
And small the good, to linger dolefully-
Gayly it lived, and gallantly it died.
I will not make you songs of hearts denied,
And you, being man, would have no tears of me,
And should I offer you fidelity,
You'd be, I think, a little terrified.

Yet this the need of woman, this her curse:
To range her little gifts, and give, and give,
Because the throb of giving's sweet to bear.
To you, who never begged me vows or verse,
My gift shall be my absence, while I live;
But after that, my dear, I cannot swear.

So di essere stata felice

So di essere stata felice al tuo fianco;
Ma quel che è stato è stato, e basta.
Non fa bene crogiolarsi nel pianto...
Quel che lietamente visse, coraggiosamente morì.
Non comporrò canzoni per cuori infranti.
E tu, che sei uomo, non vuoi lacrime,
E se dovessi offrirti la mia fedeltà,
Saresti, credo, un po’ terrorizzato.

È questo il bisogno della donna, la sua condanna:
Allineare i suoi piccoli doni, e dare, dare,
Perché il palpito del dare è dolce.
A te, che non hai chiesto né voti né versi,
Il mio dono, finché avrò vita, sarà l’assenza,
Ma per dopo, amore mio, non posso prometterti nulla.