martedì 29 ottobre 2013

DEP & DAP LEXICON / 4


Alla scoperta di quello che appariva, in tutto e per tutto, un continuato inganno, un’agitazione tumultuosa riempì ogni luogo di Q., la sua mente affaticata e confusa così come il suo corpo. Tutte le parti molli contenute tra lo sterno e l’inguine si misero a vibrare contemporaneamente di un tremito inarrestabile come se i suoi organi venissero agitati dentro il boccale di un frullatore o centrifugati in una lavatrice. Intanto, la mente correva alla cieca contro una domanda che si ripeteva in un'eco ronzante: perché? perchéé?  perchéé? e rimbalzava indietro contro un’altra domanda, tonante come un colpo di bombarda: Che cosa ho fatto di sbagliato? Questa seconda non era affatto una domanda retorica. Da subito infatti il suo Tribunale Interno aveva dichiarata Q. unica responsabile dell’inganno maritale; si chiedeva però quale colpa specifica — delle infinite in cui si articolava la sua più generale colpa di esistere — avesse determinato il comportamento del Coniuge Incauto.
            Nel frattempo la tana, la stanza da letto dove Q. aveva portato i documenti per svolgere il suo lavoro di riordino — l’unico ambiente della città che avesse le dimensioni esatte perché Q. non incorresse né nel soffoco né nello spalancato, all’incrocio cioè tra la sua claustrofobia e la sua agorafobia— si era fatta inidonea per la nuova situazione emotiva. I quattro metri di larghezza e i cinque di lunghezza della stanza, che fino allora si erano mostrati a norma con il suo bisogno di spazio e di contenimento insieme, si rivelarono di botto insufficienti per la smania di moto delle sue gambe. Il bisogno di attività motoria che l’aveva improvvisamente assalita non potrebbe essere descritto con un semplice “sentì il bisogno di camminare” perché, mentre ancora scorreva e riscorreva i documenti, Q. si era alzata in piedi e senza rendersene conto aveva cominciato a camminare in circolo ai piedi del letto, in una specie di “segnate il passo” molto ritmato benché poco marziale. Accortasi delle sue gambe in marcia immobile, Q. le sciolse nel passo e si mise a percorrere la stanza avanti e indietro, sempre portandosi dentro il frullatore di organi in azione. Poi, visto che la stanza continuava a restringersi ed accorciarsi intorno a sé, decise di mettersi temporaneamente in salvo fuggendone. E uscì coraggiosamente di casa.
            Poco dopo, percorsi appena trecento metri, Q. approdava nel parco vicino. Vi approdavano con lei il frullatore di organi e la scaturigine, come Q. chiamava la sua inesausta e un po' misteriosa capacità lacrimatoria.
Ora Q. sedeva su una panchina di legno. Piangeva senza singhiozzi né sussulti. Se ne andava in lacrime. Da tempo si era abituata a piangere ovunque, nella strada, sugli autobus, nei negozi, in fila alla posta o al mercato. Piangere occupava allora una gran parte delle sue giornate e Q. aveva dovuto rinunciare al pudore e alla riservatezza. Anche quella mattina piangeva en plei air, indifferente all'altrui curiosità.
Lo sguardo offuscato dalle lacrime era posato su una pianta di bouganvillea che traboccava da un vecchio muro romano e lei osservava quell'esplosione di colore con un'attenzione totale, stupefatta dal suo rigoglio, da una vita così florida, ma anche con nostalgia, con il rimpianto con cui un' Eva avrebbe guardato al cancello chiuso dell'Eden. La vita stessa era tutta raccolta in quella pianta di bouganvillea e lei la osservava da fuori. La pianta era a pochi passi da lei, quasi le straripava addosso, ma a Q. sembrava lontana come un miraggio irraggiungibile e attraverso le lacrime il miraggio tremava —come sempre tremano i miraggi. Probabilmente tremava a tempo col frullatore di organi.




Ad un tratto una mano si posò sulla sua e distolto lo sguardo dalla bouganvillea Q. incontrò due occhi scuri e un sorriso fiducioso. Un uomo  le parlava in una lingua sconosciuta e intanto goffamente finiva di abbottonarsi la camicia. Il pianto di Q. si arrestò per la sorpresa -forse la scaturigine si era seccata di botto- e lei notò che asole e bottoni erano allacciati sfalsati. Trattenne l'impulso di allungare il braccio e correggere l'abbottonatura e si asciugò gli occhi con la mano libera, lasciando l'altra in quella dello sconosciuto che intanto le si era seduto accanto, continuando a parlarle tranquillo e rassicurante. Anche se nemmeno una parola le suonava familiare, a Q. parve di percepire senno e ragionevolezza in quel discorso. Era il tono ad essere veritiero. Q. avvertì anche nelle ultime parole il suono di una domanda e, prima esitante poi con fiducia, rispose a quell'evidente invito a raccontare. Man mano che parlava, l'oppressione che le gravava sul petto si alleggeriva anche se la scaturigine aveva ritrovato la sua falda. In compenso il frullatore d'organi pian piano rallentò i suoi giri e infine si arrestò. Lo sconosciuto ascoltava con attenzione. Dal taschino della camicia aveva tirato fuori della carta igienica e ogni tanto allungava una mano e le asciugava il viso. Passò del tempo. Q. raccontava, l'uomo ascoltava né lei dubitò che l'uomo comprendesse. Poi si sentì stanca, tacque e posò la testa sulla spalla dello sconosciuto. Il collo dell'uomo sapeva di sapone di Marsiglia. Si stava bene. L'aria era calda ma non ancora soffocante. Il silenzio era disteso ovunque e persino i suoni ne facevano delicatamente parte. Ad occhi chiusi lei li seguiva: i voli dei grandi corvi alti sopra le loro teste e passi lenti sulla ghiaia del giardino. Restarono per un po' così, una piccola insignificante monade sulla panchina del mondo. Poi Q. si scosse e si alzò e l’uomo con lei. Portava degli scarponi slacciati e un cencio di calzoni. Alla fontanella lì accanto l'uomo si lavò la faccia, il collo e le mani. Anche Q. si lavò la faccia e bevve. Poi si diressero verso l'uscita del parco e proprio sulla soglia, tra i due propilei, si salutarono, come se avessero portato a termine un rito, o una seduta psicoterapeutica. L'uomo si portò la mano al petto e si presentò: Goran. Lo ripeté due volte. Anche Q. lo ripeté: Goran. Quindi dichiarò il suo nome e si allontanò. Dichiarare il proprio nome fece uno strano effetto a Q. Da molto tempo infatti non pensava a se stessa come titolare di un nome proprio. 
A quel tempo infatti Qualcuno pensava di non essere nessuno. Pensava, anzi, di non essere niente. (4/Continua)



5 commenti:

  1. chissà se poi Q. ha imparato che non poteva essere
    "di non essere niente",
    che non poteva
    "essere nessuno"
    ...anche solo per il fatto di aver CREATO qualcosa e messo al mondo un'altra vita...chissà...

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  2. Cara Marina, vengo qui da qualche giorno su questa puntata del tuo scritto, e mi trovo un po' nella condizione di quando sto ad un concerto e non conosco la musica che viene suonata, e quando finisce un movimento non so se c'è da battere le mani più o meno calorosamente oppure invece devi aspettare in silenzio che riprendano a suonare. Però, visto il silenzio degli altri tranne per ora Arnica che ha bisbigliato delicatamente il suo commento, mi sa che c'è da aspettare che tu riprenda a suonare i tuoi personaggi.

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  3. Ciao Romeo, ci saranno molti continua (molti più forse di quanti tu possa sopportarne :-)
    Penso di pubblicarli a scadenza settimanale, man mano che rivedo il "libro", scritto da me nel 2008.
    grazie per la tua attenzione, marina

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  4. @arnicamontana da quel tempo Q uscì, ma il tempo in cui entrò poi non si è mai fatto limpido
    un abbraccio,marina

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  5. Scusa per l'eccesso commentizio: ho dovuto suddividere in due il precedente commento...che esaltata che sono!

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