giovedì 13 marzo 2014

Non se ne esce?

La mia scrittura diventa sempre più scadente.
Il mio scontento cresce.
Lo scontento alimenta la mia depressione.
La depressione mi rende sempre più difficile scrivere.
La scrittura diventa sempre più scadente.

Non se ne esce.
Non se ne esce?
Allora esco io.
Ma non è un addio.

Grazie e scuse.



domenica 9 marzo 2014

DEP & DAP LEXICON / 18

Così, un giorno, Q. avrebbe raccontato l'esperienza del suo primo ritorno all'isola di Ponza.

Una serena mattina di luglio.
Sono sdraiata sulla spiaggia di Frontone, alle spalle le rocce dal bianco al grigio al viola e fin sull’arenile ciottoloso il verde delle tamerici, il giallo dei lentischi. Il mare trasparente di puro azzurro, calmo e luminoso. D’improvviso un boato e la terra sussulta sotto di me. Spalanco gli occhi e mi tiro su. Mia sorella chiacchiera con un’amica, due bambini gettano ciottoli nell’acqua, mio marito nuota armoniosamente al largo, ognuno è tranquillamente intento alle sue occupazioni, chi prende il sole, chi galleggia pigramente.
                     Ma la terra trema violentemente e le rocce intorno sbandano. Che terremoto è questo? L’epicentro sembra essere sotto il mio corpo e il moto sussultorio interessa non più di due metri quadrati. Quelli occupati da me. C’è qualche sismografo in grado di avvertirlo? I geologi lo stanno registrando? O la natura mi fa omaggio di un terremoto personale? 

Intanto si è fatto scuro. Di fronte a me la spiaggia di Frontone è come il negativo di una foto. Il chiaro del cielo si fa nero e su questo nero spiccano le macchie bianche delle rocce e delle barche. Dagherrotipo di Frontone, questa potrebbe essere la didascalia.
Ma nessuno sembra accorgersene tranne me. La natura mi riserva quest’altro privilegio? Un’inversione di chiaro e di scuro? Un' eclisse di sole che io sola posso percepire? Terremoto ed eclisse insieme, entrambi solo per me?
-Presto, avvertite subito un geologo e un astronomo. Ma prima, e in fretta, il mio psichiatra.

Il cuore corre e salta nel petto, i battiti sono talmente ravvicinati che sembra un unico battito continuo o nessun battito del tutto. Un cane smanioso si impadronisce del mio respiro ed ansima. Che c’é ? chiede mia sorella nel vedermi balzare in piedi. Niente-dico-ma torno in albergo. Avrò parlato a segni? Infatti non riconosco la mia voce, o meglio, non la sento proprio. Evidentemente invece mia sorella l’ha sentita, infatti torna alle sue chiacchiere.
              Sbandando per tenermi in piedi sulla terra sussultante, mi butto verso l’acqua. La spiaggia di Frontone è raggiungibile solo dal mare e di tanto in tanto delle piccole barchette come tanti Caronte vengono a scaricare qualcuno o a caricarlo per riportarlo verso il porto. Da Frontone si può fuggire solo dal mare e fuggirne in tale concomitanza di fenomeni fisici mi sembra la cosa più ragionevole. E più urgente.
              Ma avanzando verso l’acqua il terremoto da sussultorio diventa ondulatorio e come in un’altalena l’intero panorama mi passa davanti dondolando. E’ sempre in bianco e nero e io spalanco sempre più gli occhi nello sforzo di vedere in quel nero. Le gambe non mi tengono, così accosciata sulla riva e in preda alla nausea e al terrore aspetto che un Caronte arrivi e quando arriva vi salgo tentando di mantenere un aspetto il più possibile normale. Mi sistemo a prua sporgendomi nel vuoto come una polena nello sforzo di arrivare prima in porto.
                 Nel frattempo divento totalmente sorda e la mia temperatura corporea precipita verso lo zero assoluto. Ci saranno quaranta gradi, sono le dodici di un mattino di luglio e io tremo di freddo e batto i denti. Il battere dei miei denti è praticamente tutto quello che sento. Infatti dalla barca allegramente piena di bagnanti mi arrivano pochi smorzati suoni. Hanno anche un interessante effetto eco, le risate allegre si ripetono sempre più lunghe e flebili. Beffarde, irridenti.
-Vi prego, interpellate un otorino e anche un esperto in acustica. Ma prima e comunque il mio psichiatra, please.

Sbarcata al porto, in costume, a piedi nudi e barcollante raggiungo la mia stanza in albergo e finalmente mi lascio cadere sul letto. Sfortunatamente al mio fianco si precipita il precipito: il letto non vuole sostenermi come dovrebbe, infatti sento di caderci attraverso. Il mio corpo vuole assolutamente abbandonare l’isola, è disposto a riemergere dalla parte opposta del globo sulle spiagge neozelandesi, pur di abbandonarla.
Sono coperta di sudore freddo, tremo, ho la nausea, aspetto che il cuore si spacchi e via, la catastrofe aristotelica si compirà.
                Precipito, accelerazione canina del respiro, decelerazione agonica del cuore, masso, soffoco, sono tutti qui al mio capezzale. I miei sismografi personali continuano a registrare un circoscritto terremoto sussultorio e ondulatorio insieme, mentre il frullatore di organi frulla e frulla le mie viscere. L’Altra, impressionata, tace. La pavida!
                Giaccio sul letto, braccia e gambe buttate là dove capita, corpo disarticolato esattamente come la mia mente. So che il tavor mi guarda dal comodino e attraverso l’all-black mi sforzo di guardarlo. Lo guardo intensamente tentando di convincerlo con le buone a cadere sulla mia lingua. Non saprò mai se ci sarei riuscita perché finalmente mi raggiunge mio marito e mi soccorre.
                   Per la prima volta in anni di terapia oso chiamare a casa il Professore. In un bisbiglio gli comunico che sono sorda muta e cieca, un terremoto alternativamente sussultorio e ondulatorio colpisce l’area di due metri quadrati in cui sono inscritta e intanto un eclisse totale di sole copre il mio orizzonte. Sudo inelegantemente come un suino e precipito a grande velocità verso il centro della terra. 
-Attacco di panico a ciel sereno- dice la sua voce agognata. Nessuna catastrofe aristotelica incombe su di lei, presto il tavor farà il suo lavoro. In ogni caso ne prenda un altro-. Evidentemente anche nel mondo benzodiazepinico l’unione fa la forza. La voce tranquilla, quasi sorridente del mio psichiatra agisce come terza dose e impartisce il suo vade retro autorevole alla machina scaenica.
                 Infatti: ritornano i colori, ritornano i suoni, il terremoto scema, l’eclisse gradualmente sfuma. Infine anche il cuore rallenta la sua corsa. Speriamo che i diversi scienziati interessati abbiano fatto in tempo a prendere nota del fenomeno. Ne uscirebbe una interessante pubblicazione per la rivista Science. (Leggere saiens).
Solo il precipito non si vuole allontanare da me e io continuo a cadere attraverso il letto. La mia sola richiesta è -Portatemi via da quest’isola-.
Per definizione un’isola ci isola, no? Se ne è prigionieri. Su un’isola non ci sono vie di fuga. L’unica via di fuga è la fuga dall’isola.
               Non avendo nessuna intenzione di seguirmi attraverso i vari strati che compongono il pianeta che ci ospita  -i settanta chilometri della crosta terrestre, i duemilaottocentonovanta del mantello e i circa cinquemila del nucleo ferroso- per spuntare agli antipodi e trasferirsi armi e bagagli in Nuova Zelanda con me, mio marito rimedia due posti sul primo aliscafo e finalmente mi riporta sulla terraferma. Ferma di nome e di fatto.

Questa è la cronaca di quel mattino. Sappiate in ogni caso che vi ho risparmiato un paio di particolari intimi sgradevoli per me e per voi: siatemene grati.
       
Da allora la sola parola "isola" faceva imbizzarrire la machina scaenica di Q. Nel frattempo lei scoprì che la Nuova Zelanda non si trova agli antipodi dell'Italia. Trattasi di un comunissimo errore. Agli antipodi dell'Italia c'è solo oceano. O-ce-a-no. Per fortuna mentre tentava di lasciare l’isola attraverso il letto Q. non lo sapeva...
                 Q. comunque, novella spigolatrice di Sapri, sinteticamente prese a narrare quell'episodio in pochi versi: All’isola di Ponza s’è fermata, è stata un poco e poi s’è ritornata...
               Ma poiché Ponza era per lei la sola possibile idea di mare, la cristallizzazione dell’idea di bellezza e di possibile felicità, la lontananza forzata continuò ad essere la più bruciante di tutte le sconfitte che la malattia  l’aveva costretta ad accettare.
Passarono gli anni. Un giorno Q. tornò a Ponza. Fu il suo ultimo viaggio. Di questo Q. non parlerà. Può solo dire che la terra non tremò, il sole non si oscurò e tutta l’isola  fu quello che era sempre stata, una promessa mantenuta di bellezza e di serenità.

Ma nel ridosso di quel tempo nessuna promessa veniva mantenuta. 
Quei giorni illudevano e disilludevano Q. mentre lei guardinga, cautelosa, circospetta si avventurava nel mondo dei sani.

Infatti nel ridosso di quel tempo Qualcuno  metteva alla prova se stessa e la machina scaenica
(Continua-18)