giovedì 31 luglio 2014

che cosa ho imparato, che cosa sto imparando/i ricordi

Il dolente ha così tanti ricordi da cui ripararsi.
Attraversa le ore della giornata con cautela e circospezione, tutta concentrata sui gesti minuti da compiere, sulle piccole incombenze, trama e ordito ormai della sua vita: comprare il latte, cambiare l’acqua nella ciotola della gatta, passare in farmacia, lavare due stoviglie.
Si lascia assorbire da quelle occupazioni per difendersi da un vento tormentoso che spinge verso di lei brandelli di ricordo come nuvole sfrangiate. Ogni tanto alza una mano  davanti a sé nel gesto di chi tenta di ripararsi gli occhi da una polvere alzatasi d’improvviso da terra per un colpo d’aria o da un moscerino fastidioso. È un gesto fugace che le sfugge, incontrollato, quasi impercettibile per chi le sta vicino, così piccolo e rapido è. 
Con quel fragile schermo tenta di ripararsi dal vento della memoria, continuamente risorgente, di tenerlo lontano da sé, di conservare vuoto e nero lo schermo della sua mente, nero come il monitor di un computer, bianco come lo schermo di un cinema.  
Talvolta un ricordo spezza ogni difesa e la raggiunge fino al centro del petto. Sono flash che le provocano una fitta e insieme una stretta che quasi  le arresta il respiro e non può che arrendersi a quella forza prepotente e implorante insieme. E mentre viene avvolta nella nube ulcerante del ricordo, abbassa lo sguardo sull’orologio per controllare la durata di quella folata che la strazia, attendendo che quel tempo del ricordo passi, quel tempo inevitabile che si è rivelato più forte di lei, di ogni sua circospezione, di ogni suo trucco. Quel controllare il tempo è come il contare di una partoriente, tra una contrazione e l’altra, contiene rassegnazione, la rassegnazione di chi non può difendersi da un assalto, e resta lì ad aspettare che la violenza le passi sopra. Si concentra sulla lancetta dell’orologio contando mentalmente i secondi. In quei secondi, in quei minuti lo squarcio sul passato si prende tutto il suo corpo, la stringe soffocandolo in ogni sua parte: il dolente si ferma in mezzo alla strada, si ferma qualunque cosa stia facendo, trattiene il fiato  e col fiato il dolore, mentre le lacrime non si lasciano trattenere.
Poi torna a respirare e dal polso lo sguardo le scivola sulla mano, sulla pelle sottile e disegnata di rughe, sulle nocche visibili, la sua mano di vecchia. Ho vissuto troppa vita, pensa e troppa vita fa troppi ricordi.

mercoledì 30 luglio 2014

quando qualcuno parla anche per noi

È un altro degli inconvenienti del subire una disgrazia: per chi la soffre gli effetti durano molto di più di quello che dura la pazienza di quanti si mostrano disposti ad ascoltarlo e a stargli vicino, l’incondizionalità non è mai molto durevole se si tinge di monotonia. E così, presto o tardi, la persona triste rimane da sola quando ancora il suo lutto non è concluso o non le è più consentito di parlare oltre di quello che è ancora il suo unico mondo, perché quel mondo angoscioso risulta insopportabile e si allontana. Si rende conto che per gli altri qualunque disgrazia reca una data di scadenza sociale, che nessuno è fatto per contemplare il dolore, che tale spettacolo è tollerabile soltanto per un periodo breve, finché vi è ancora commozione e lacerazione e una certa possibilità di protagonismo per quelli che guardano e assistono, che si sentono imprescindibili, salvatori, utili. Ma nel verificare che niente cambia e che la persona in questione non riesce ad emergere, si sentono frustrati, la prendono quasi come un’offesa e si ritirano: “Forse non le basto? Come mai non ne viene fuori, pur avendo me accanto? Perché insiste nel suo dolore, se è già passato un certo tempo e io le ho dato distrazione e conforto?

Se non riesce a risollevare la testa, che affondi o 
sparisca”. E allora l’avvilito fa proprio questo, si ritrae, si assenta, si nasconde.

Da “Innamoramenti” di Xavier Marias



quando qualcuno parla anche per noi


"Immaginai che fossimo tutti seduti nel salotto, con un buco al posto di Arnold. “Tanti buchi” mi dissi. “Tutta la casa piena di buchi. Dove stava seduto. Dove giocava a carte. A tavola.” 
Marya Hornbacher Al centro dell’inverno


martedì 29 luglio 2014

che cosa ho imparato, che cosa sto imparando/il contratto

Un’altra delle scoperte del dolente è che la com-passione, la sintonia e l’empatia non sono mai incondizionate. Che gli altri stipulano con lui un contratto, non detto ma ferreo, vincolante nelle loro intenzioni: io ti offro condivisione in cambio di superamento. All’inizio la condizione non compare, è invisibile e addirittura inimmaginabile per il dolente; è inconsapevole, inconscia addirittura in chi sta vicino al dolente. Ma il contratto presto emergerà e il dolente deve riconoscerlo e prenderne atto.

Il dolente si sente monotono, noioso e soprattutto colpevole e si sforzerà di rispettare il contratto.

sabato 26 luglio 2014

riflettendoci...

Ho cancellato un post che, riflettendoci, mi è parso troppo personale. Ma ho tenuto tutti i vostri commenti perché mi hanno aiutata a decidere che farne. Grazie, marina

martedì 22 luglio 2014

lunedì 14 luglio 2014

una poesia di Beppe Salvia

Abbiamo nel cuore un solitario
amore, nostra vita infinita,
e negli occhi il cielo per nostro vario
cammino. Le spiagge i cieli, la riva
su cui sassi e rovi e il solitario
equisèto, e colli erbosi grassi
rioni, città dispiegate come
belle bandiere, e nude prigioni.
Questa è la nostra vita. Questi nostri
volti vagabondi come musi
di cani ci somigliano. Il vento
il sole le corolle rosse e blu,
i sogni mai sognati i nostri sogni.
Questa è la nostra vita e nulla più.

                                                               Beppe Salvia 1954-1985
da PensieriParole

lunedì 7 luglio 2014

ricordando Maria Luisa Spaziani


                                                   Maria Luisa Spaziani (1922-2014)


Il 30 giugno ci ha lasciati Maria Luisa Spaziani.
La ricordo con queste sue poesie.


A sipario abbassato

Quando ti amavo sognavo i tuoi
sogni.
Ti guardavo le palpebre dormire,
le ciglia in lieve tremito.
Talvolta
è a sipario abbassato che si snoda
con inauditi attori e luminarie
-la meraviglia.


Nulla di nulla

Strappami dal sospetto
di essere nulla, più nulla di nulla.
Non esiste nemmeno la memoria.
Non esistono cieli.
Davanti agli occhi un pianoro di
neve,
giorni non numerabili, cristalli
di una neve che sfuma all'orizzonte
- e non c'è l'orizzonte.


venerdì 4 luglio 2014

il filo di acciaio

Ero in strada e camminavo lenta adattando il passo al mio pensiero. E d'improvviso l'ho proprio sentito, percorrermi tutto il corpo, il filo di acciaio che mi tiene in vita, benché colpita duramente e senza cessa, ancora in vita.
Ho scoperto che è questo filo di acciaio, che ho sentito quasi fisicamente, a rendermi come sono, quella che sono: una persona capace di sostenere questi giorni e questi anni, anche nel crollo dei desideri, delle speranze, delle aspettative. Anche nell'amarezza, riconosciuta ormai come definitiva compagna.
Il filo di acciaio agisce per me, fa il suo lavoro per conto suo, mi tiene in salute e fa sì che, sola, io proceda nella vita. Ritta.
Dal filo di acciaio mi sento agita, una sensazione che ho già conosciuto. Nel filo di acciaio si esprime la potenza della natura, e strapparsi da dentro il filo di acciaio la natura non concede.
Cosa costi avere dentro di sé questo filo di acciaio, io sola so. E osservo gli inconsapevoli altri e sorrido dentro di me quando mi sento dire che sono forte.
Io, forte? Vorrei dire loro. Ma va, è lui che è forte, il filo di acciaio. Io, il mio io, lo ospita solo. Ed è un ospite indesiderato.