martedì 5 maggio 2015

Leggendo Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani- /2

Con Ode al Monte Soratte ho ritrovato intatta e cara la poesia di Damiani e tutte le ragioni per cui la amo.
La prima cosa che mi prende è la musicalità inconfondibile, quel ritmo disteso, tranquillo come un passo che va, calmo e sicuro, senza accelerazioni o brusche svolte. C'è questo passo che ci porta e c'è lo sguardo. Uno sguardo che si posa con la stessa affettuosa attenzione su un largo paesaggio e su una singola foglia, su un sasso e sulle cime di un monte. Nel piccolo c'è il grande, ogni piccola creatura racchiude un senso e racchiude la vita. Credo che l'incanto per me nasca dallo scoprire il favoloso che si nasconde in ogni cosa e nella religiosità -senza dispensare credi- che circonda la natura. Con la natura -una nuvola, un albero, il vento- Damiani parla, con un tu familiare, come tra parenti. Che poi è proprio quello che sono, alberi, nuvole, monti e sassi, nostri parenti. Le poesie parlano, o comunque alludono sempre, al tempo. Al passare, all'andare, al morire, al vivere nel morire. E c'è un modo non amaro ma sereno di accettare questo scorrere, i lontani principi e le fini.Tutte le fini che si rifaranno principio, quando o come non si sa. Molte cose non si sanno. Ma anche questo non sapere fa parte dell'andare, del camminare nella natura, nella vita. Questo mi sembra di leggere nelle poesie di Claudio Damiani e leggerle è un piacere e anche una consolazione.

Qui riporto solo una piccola parte di un dialogo, senza saccheggiare il libro.
(si parla, si poeta, degli alberi)

Francesco a me piace stare vicino a loro. Sentirli
respirare, sentire i loro sussurri, il loro parlottio
continuo e le idee che scorrono nella loro mente. Mi
piace toccare i tronchi e stringerli, o anche appoggiare
la guancia su di loro. O anche stare ferma seduta
accanto a loro, senza fare niente. Mi piace respirare
vicino a loro. Sentire che il tempo che scorre per me, è
lo stesso che scorre per loro.


(I disegni che accompagnano le poesie, di Giuseppe Salvatori, e che sono profili del monte cui è dedicato il libro, hanno qualcosa di misterioso; che l'artista non lo sappia ma mi hanno fatto pensare alle macchie di Rorschach e mi hanno dato parecchio da fare).







domenica 3 maggio 2015

Leggendo Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani /1

Sono una lettrice ingenua.Voglio dire: per leggere ho solo me stessa. Non ho niente cui appoggiarmi. Non gli strumenti della critica letteraria, non teorie interpretative. Ho me stessa e dietro di me tutti i libri letti. Dietro e dentro di me. Il linguaggio con cui esprimo il mio pensiero su un libro non può che essere semplice e quotidiano e riconosco che esso è spesso insufficiente, anzi, inadeguato, rispetto al libro stesso. Se poi si tratta di poesia l'inadeguatezza è ancora più evidente.
Credo che chi ha letto il mio blog nel corso di questi anni sappia bene che nel presentare un libro non mi sono mai avventurata in analisi critiche, ma ho sempre parlato solo del mio rapporto con il libro stesso.

Oggi voglio comunque parlare di un libro di poesia: Ode al Monte Soratte di Claudio Damiani. Editore Fuorilinea. Il libro raccoglie 18 poesie, un dialogo, un racconto e 9 disegni di Giuseppe Salvatori, un artista che non conoscevo.



Quello che nell'indice è chiamato dialogo -e che ha la forma di dialogo tra Francesco e Laura- è ancora una lunga poesia in cui la voce del poeta ha come un'eco che ci rimanda non tanto le sue parole ma i suoi affetti. È una cronaca-ricordo poetica di una salita (la parola ascensione non mi sembra adatta, non so perché) al Monte Soratte, il protagonista della piccola raccolta.

Nel racconto che chiude il libro c'è un incontro tra un pastore di pecore e una insegnante ed è stato come una scossa elettrica alla mia memoria e mi ha riportata a quando ero una giovane insegnante che ogni mattina partiva all'alba per un piccolo paese di quasi montagna nella sua vetturetta e si fermava lungo la strada per respirare quella natura di erba, prati, luce, radi alberi e fiori di prato senza nome. Restavo un po' così, senza né fare né pensare, solo raccolta nella felicità di quella natura
semplice che non aveva nulla di spettacolare.
E ho ricordato un mio incontro, più povero di quello narrato nel libro, ma che ha avuto origine nello stesso modo e credo dallo stesso sentimento.
Quando mi fermavo lungo la strada che portava a Bellegra, restavo spesso a guardare le greggi di pecore al pascolo, perché le pecore mi affascinavano di tenerezza. Un giorno mi inoltrai, ma poco, nel campo. Destai però l'allarme di tre grossi cani pastore, bianchi e veloci che da lontano puntarono dritti su di me attraversando a cavallo di se stessi il campo con intenzioni severe. Il mio amore per i cani è assoluto, ma quei tre grossi animali col pelo bianco luccicante di rugiada mi impaurirono e restai lì incerta e un po' paralizzata. Poi feci l'unica cosa che un istinto un po' animalesco mi suggerì. Mi sedetti in terra aspettandoli. Mi raggiunsero in un attimo e trovatami in quella posizione arresa decisero che non ero una minaccia per le pecore affidate alla loro sorveglianza. E mi annusarono, girandomi strettamente intorno. Così potei parlargli e dichiarargli il mio amore e toccarli anche, mentre con le loro code oscillanti mi dicevano di star tranquilla perché avevano capito chi ero e che potevo restare e anche se, naturalmente, non mi amavano perché ero solo una sconosciuta per loro, pure accettavano il mio amore e mi rassicuravano sul fatto che se ci fossimo conosciuti meglio anche loro avrebbero potuto amarmi. Dopo qualche colpetto col muso e piccole strusciature amichevoli dei fianchi ripartirono al galoppo, senza voltarsi indietro, una veloce elastica nuvola bianca. Mi rimasero le mani inumidite dalle carezze e addosso l'odore di pelo e acqua, terra e erba. Il mio incontro finì così. Nessun ulteriore sviluppo ma quell'incontro ancora mi emoziona e mi commuove. E leggere una situazione in partenza così simile -anche se il racconto del poeta continua con un'altra ricchezza di narrazione e riflessione- è diventato prezioso, quasi fosse scritto proprio per me.
Questa sensazione del resto mi succede sempre con la poesia di Claudio Damiani e suscita in me un sentimento di gratitudine, ma anche di timidezza, come di fronte a un regalo di valore ma immeritato.

Ora mi accorgo di aver parlato di me e non delle poesie raccolte nel libro.
Ma voglio farlo, ci tengo molto a farlo.
Lo farò, con la necessaria cautela, e nel mio solito linguaggio, non preparato, non esperto, molto presto.

Intanto riporto almeno una poesia. (E speriamo che copiarla non sia una scorrettezza).

Quando io mi siedo qui, su questo muretto
lungo il sentiero, non è un punto particolare
non c'è una vista particolare
è un punto qualsiasi, e io mi siedo,
sto un po' fermo e guardo le fronde degli alberi,
ornielli forse, con le foglioline piccole,
che mi stanno davanti, faggi anche, accanto a loro,
e ascolto il loro silenzio, l'oscillare lieve delle foglie,
sento il silenzio del sentiero, della terra,
il muoversi impercettibile di ogni cosa, come un brulichio
o un ronzio che diventa sempre più forte,
come un mare, come una lava che bolle,
e io sono dentro questo cratere di fuoco
perfettamente calmo, come avessi una tuta
magica che mi protegge dal calore,
dal rumore assordante, eppure sento questo silenzio,
il muoversi impercettibile delle foglie,
lo scorrere del tempo come lo scorrere
d'un'acqua, d'un ruscello, d'una fonte
vicina e insieme lontana, che non sai dov'è.




                                         Jean Baptiste Camille Corot Il Monte Soratte-1826