venerdì 16 ottobre 2015

per me, per Angela, per tutti una poesia di Franco Marcoaldi

Forse non dovrei farlo, ma sfido l'ira dell'editore e riporto quasi tutta una poesia della nuova raccolta di Franco Marcoaldi "Il mondo sia lodato" Einaudi 2015 € 11(caro, purtroppo).

dove stanno acquattati i nostri
morti? in quali angusti anfratti
della mente, in quali sconfinati
spazi aperti? in quali tremolanti
porti? Il loro passo è lento e
fiero - atletico amorevole
severo. Non bussano alla porta
delle case, loro, non vanno mai
di fretta. Di rado compaiono
nei sogni, appena un cenno;
buttano l'amo, avanzano un quesito
...e abbandonano la scena. Nostra
e soltanto nostra resta la pena
per quell'incontro troppo fugace.


Perché lo so,
o venerato Mondo,
che senza il conforto
sagace dei miei morti
mai ti potrei lodare.


per quell'illogica bontà stupida
e cieca, istintiva, ricorrente,
che inonda quanto è vivo
- un cervo agonizzante accudito
da un fratello casuale, il ramo
scorticato che un passante
fascia perché aderisca
meglio al tronco.


Sono quelle schegge di umanità
senza ritorno, piccole crepe
nel grande mare dell'indifferenza,
spicciole figure d'immortalità
figlie di debolezza, granelli
di sabbia che si librano
nel vento a inceppare
il meccanismo feroce
e onnipresente del maligno.


A loro, ai morti,chiedo
di offrirmi qualche appiglio.


Lo chiedo a un padre che ho
frainteso, malgrado fossi figlio
suo in tutto: bocca e naso,
sbalzi d'umore, daimon d'amore,
scatti d'ira, frivola leggerezza
e una gravezza incupita e repentina.
Lui conosceva a menadito
insetti e piante e stelle,
l'avessi temuto un po' di meno
e apprezzato un po' di più
oggi dalla gioia non starei
nella mia pelle, perché è proprio
nei prodigi di natura, a me
per buona parte ignoti,
che intravvedo
la possibilità di colmare
i miei più dolorosi vuoti.


Chiedo tardivo aiuto
a un fratello che ho perso
troppo presto e non ho
amato a sufficienza.
Tra noi, la vicinanza dell'infanzia
si era crepata nell'età oscura
dell'adolescenza - e a lungo
un'ideologica arroganza mi impedì
di accogliere la sua fragilità
sfacciata ed esibita, il gusto
teatrale di volersi conquistare
a tutti i costi un'altra vita.


Lo vedo ancora avvolto
nella sua elegantissima
vestaglia, combattere con ironico
eroismo l'ultima, disperatissima
battaglia.


E mi domando:
che ho fatto io delle basse
scatole di legno utilizzate
da mio padre
per infilzare insetti? del coraggio
sfrontato di un fratello,
catodico ecce homo, che difese
innanzi al mondo i malati
come lui considerati alla stregua
di appestati postmoderni,
di paria, di reietti?


Poco, ne ho fatto. E oggi
mi restano solo delle povere
parole per provare a restaurare
affreschi esperienza stinti ormai
per troppa pioggia e troppo sole.
Eppure continuo a cercare
tra i morti e continuo a chiedere
aiuto ai trascorsi maestri di versi,
ideatori di catene di segni
che battono il tempo
trovando nel ritmo quanto
altri non vede - anche questa
è questione di fede - una fede
che fa sue le parole "non so".

(il canto -il numero XI -  ricorda, come il poeta ci dice nella postfazione, Vasijli Grossman, Wislawa Szymborska e Giorgio Caproni, perché ai poeti e alla poesia  Marcoaldi chiede aiuto).
Ognuno dei dodici canti è bellissimo, io ho scelto questo perché parla del rapporto con i morti, perché anche io chiedo aiuto ai miei morti e perché ho riconosciuto la mia amica Angela nel passante che fascia il ramo scorticato perché aderisca meglio al tronco, Angela, seminatrice di schegge di bontà senza ritorno.